1. La pronuncia e i fatti di causa
La vicenda su cui si è pronunciata la Corte di Cassazione nasce da un giudizio di opposizione avverso un decreto ingiuntivo per il pagamento di canoni derivanti da un contratto di leasing di un autocarro. A sostegno dell’opposizione, si asseriva che il contratto fosse stato originariamente stipulato da un terzo, il quale aveva successivamente ceduto la propria azienda (comprensiva del predetto contratto) ad un diverso soggetto, che aveva a sua volta trasferito un ramo d’azienda alla società opponente. Oggetto della controversia è se per effetto del secondo trasferimento di ramo d’azienda la società opponente (acquirente del ramo) sia o meno subentrata nel contratto di leasing (già trasferitosi in capo al cedente in conseguenza del primo trasferimento d’azienda), tenuto conto che nella scrittura privata autenticata di cessione del ramo d’azienda il contratto di leasing in questione non era stato menzionato e che il contratto di leasing conteneva previsioni che ne vietavano la cessione senza il consenso della società concedente.
Dopo che il Tribunale di Torino aveva accolto l’opposizione e revocato il decreto ingiuntivo opposto, nel successivo giudizio di impugnazione la Corte d’appello di Torino, riformando la sentenza di primo grado, aveva invece confermato il decreto. Avverso la sentenza della Corte d’appello, la società opponente ha quindi proposto ricorso per cassazione.
La Suprema Corte ha confermato l’applicabilità dell’art. 2558 c.c. anche nel caso in cui oggetto di trasferimento non sia l’intera azienda, ma solamente un suo ramo, soffermandosi altresì sulla valutazione dell’inerenza di un contratto ad un determinato ramo d’azienda. La pronuncia offre, inoltre, l’occasione per affrontare il tema della rilevanza delle clausole di incedibilità del contratto nel contesto di trasferimenti di azienda (o ramo d’azienda).
2. Il subentro nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda
Al fine di inquadrare la questione esaminata dalla Corte, occorre prendere le mosse dalla definizione codicistica di azienda quale “complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” (art. 2555 c.c.). Variamente qualificata come universalità di fatto o di diritto o addirittura come bene immateriale (secondo le teorie c.d. unitarie) ovvero come semplice pluralità di beni fisicamente distinti, ma funzionalmente collegati in quanto destinati all’esercizio di un impresa (secondo le teorie c.d. atomistiche)[1], l’azienda è oggetto di una disciplina[2] del tutto parziale, limitata fondamentalmente alle regole della sua circolazione[3]. Limitandoci, per quanto qui interessa, alla sorte dei rapporti contrattuali inerenti l’azienda a seguito di vicende traslative dell’azienda stessa[4], si deve innanzitutto richiamare l’art. 2558, primo comma c.c., ai sensi del quale “se non è diversamente pattuito, l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa che non abbiano carattere personale”. La norma intende evidentemente tutelare l’unità funzionale dell’azienda nelle sue vicende traslative[5], muovendo dalla constatazione che i soli beni aziendali cui si riferisce l’art. 2555 c.c. non sono di per sé sufficienti ad assicurare il funzionamento dell’azienda, che necessita anche di elementi ulteriori (quali ad es. i lavoratori, i fornitori, ecc.)[6]. Il legislatore si preoccupa, quindi, di prevedere che il trasferimento dell’azienda non ne pregiudichi la sua composizione, consentendo così all’acquirente di assicurarsi tutti gli elementi necessari all’esercizio dell’impresa[7].
Tale disciplina, anche in ragione delle finalità che la ispirano, si discosta da quella di diritto comune in materia di cessione del contratto sotto due diversi profili.
In primo luogo, mentre, ai sensi dell’art. 1406 c.c., la cessione del contratto richiede, come noto, il consenso della controparte, tutelandosi così l’interesse a non subire, senza il proprio consenso, la sostituzione della originaria controparte contrattuale; al contrario, in caso di trasferimento d’azienda, il consenso della controparte non è necessario e l’effetto del subentro dell’acquirente dell’azienda nel contratto si produce dal momento in cui il trasferimento dell’azienda è efficace[8]. A tutela del contraente ceduto, l’art. 2558, secondo comma c.c. stabilisce che “il terzo può tuttavia recedere dal contratto entro tre mesi dalla notizia del trasferimento, se sussiste una giusta causa, salvo in questo caso la responsabilità dell’alienante”[9].
In secondo luogo, la successione dell’acquirente nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda è un effetto automatico del trasferimento dell’azienda[10]: essa prescinde, quindi, da qualunque manifestazione di volontà delle parti ulteriore rispetto al consenso al trasferimento dell’azienda (nei modi e nelle forme richieste dalla legge), potendo la volontà delle parti rilevare solo al fine di escludere tale subentro. In altre parole, in caso di trasferimento di azienda, non solo non è richiesto il consenso del contraente ceduto ai fini del subentro del cessionario nella posizione contrattuale del cedente, ma la successione si verifica automaticamente e ipso iure con riferimento a tutti i contratti inerenti l’esercizio dell’azienda[11], anche ove cedente e cessionario non abbiano espressamente convenuto il subentro e addirittura anche in relazione a quei contratti di cui il cessionario ignorasse l’esistenza[12].
La diversità della disciplina in esame rispetto a quella della cessione del contratto ha indotto a ritenere che la cessione di azienda ed il subentro nei rapporti contrattuali che ne consegue siano fenomeno strutturalmente diverso da quello sotteso alla cessione del contratto[13] (che è riconducibile ad una precisa volontà delle parti) ed assimilabile piuttosto ad un’ipotesi di successione ex lege, con la conseguente inapplicabilità delle disposizioni in materia di cessione del contratto[14].
Quanto all’ambito di applicazione di tale disciplina[15], è ormai opinione consolidata che la disposizione dell’art. 2558, primo comma c.c. si applichi solamente ai contratti a prestazioni corrispettive che non siano ancora interamente eseguite da nessuna delle due parti[16]. Si osserva, infatti, che, ove una delle parti abbia già interamente dato esecuzione al contratto e quindi solamente una delle due prestazioni resti ancora ineseguita, si sarebbe in presenza di un credito (nel caso in cui il cedente abbia già eseguito la propria prestazione e resti ancora da eseguire quella della controparte) o di un debito (nel caso in cui invece sia la controparte ad aver già eseguito la propria prestazione, rimanendo da eseguire solo la prestazione del cedente): in tali ipotesi, trova applicazione la diversa disciplina di cui agli artt. 2559 e 2560 c.c.[17]. Inoltre, secondo l’opinione prevalente, il fenomeno successorio di cui all’art. 2558 c.c. è applicabile anche ai contratti in corso di formazione, con la conseguenza che il cessionario subentra nella posizione del cedente anche con riferimento a proposte contrattuali da questi formulate nei confronti di terzi ovvero formulate da terzi nei confronti del cedente[18].
Sono, invece, espressamente esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 2558, primo comma c.c. i contratti aventi carattere personale. Tali contratti possono, quindi, essere ceduti all’acquirente dell’azienda secondo la disciplina della cessione del contratto: saranno quindi necessari una specifica pattuizione fra cedente e cessionario nonché il consenso del terzo[19]. Tuttavia, l’esatta individuazione dei confini della categoria dei contratti avente carattere personale non è agevole, pur concordandosi che si tratta di un’area assai limitata[20]. Si tende a ritenere che i contratti a carattere personale non coincidano con la categoria dei contratti intuitu personae, ossia di quei contratti nei quali genericamente rileva la persona del contraente[21]: sembra ad oggi prevalere l’opinione[22] secondo cui avrebbero carattere personale sia quei contratti nei quali la prestazione del contraente sia oggettivamente infungibile sia quelli in cui la personalità del contraente assuma particolare rilievo (la cui prestazione quindi sia soggettivamente infungibile)[23].
Occorre, infine, tener presente che la disciplina dell’art. 2558 c.c. è derogata da alcune disposizioni speciali applicabili a specifiche tipologie contrattuali: così ad esempio per i contratti di lavoro[24], di locazione di immobili ad uso diverso da quello di abitazione[25], di consorzio[26] e di edizione[27].
3. Le pattuizioni fra cedente e cessionario volte ad escludere il subentro automatico con riferimento a taluni contratti
Come rilevato da attenta dottrina, la disciplina dell’azienda non impone affatto di preservare in ogni caso l’unitarietà del complesso aziendale, ben potendo il titolare dell’azienda disporre di singoli beni aziendali: si deve quindi negare l’esistenza di un principio inderogabile di indivisibilità dell’azienda[28].
Né d’altra parte la stessa applicabilità della disciplina del trasferimento dell’azienda presuppone la necessaria cessione dell’intero complesso aziendale. Qualora oggetto di trasferimento siano solamente taluni beni aziendali (e debba escludersi, quindi, che le parti abbiano inteso trasferire l’intera azienda), la questione riguarda piuttosto se in concreto l’insieme dei beni oggetto di cessione sia di per sé potenzialmente idoneo ad essere utilizzato per l’esercizio di una determinata attività di impresa (e, quindi, se essa possa configurarsi come un’azienda) ovvero se si sia in presenza di una cessione di singoli beni aziendali. Non potendosi trattare compiutamente la questione in questa sede, ci si limita a sottolineare come la distinzione fra le due fattispecie – di per sé chiara da un punto di vista teorico, ma spesso assai complessa in concreto – abbia notevole rilievo pratico, se si considera che, fra l’altro, solo nel primo caso troverà applicazione la disciplina in esame[29].
Le considerazioni appena svolte sono senz’altro applicabili anche ai rapporti contrattuali stipulati per l’esercizio dell’azienda: le parti possono cioè convenire di escludere determinati contratti dal perimetro dell’azienda ceduta. La disposizione dell’art. 2558, primo comma, c.c., infatti, è senz’altro derogabile, trattandosi di norma suppletiva[30], finalizzata ad integrare la volontà delle parti, sull’assunto che il cessionario intenda acquisire, oltre ai beni aziendali, anche i rapporti contrattuali necessari per l’esercizio dell’azienda[31]: il subentro è, dunque, effetto naturale del trasferimento dell’azienda, ma non necessario[32]. D’altronde, lo stesso tenore letterale della disposizione, facendo salvo il patto contrario, consente inequivocabilmente a cedente e cessionario di escludere il subentro automatico con riferimento a taluni contratti.
La dottrina ha altresì individuato i limiti entro i quali le parti possano escludere la successione in taluni rapporti contrattuali, senza con ciò snaturare l’oggetto del trasferimento al punto da non poterlo più qualificare come azienda. Al fine di illustrare tali limiti, si deve però dar conto della distinzione proposta in dottrina fra c.d. contratti aziendali, ovvero quelli che hanno per oggetto il godimento da parte dell’imprenditore di beni aziendali non suoi (come ad es. i contratti per la locazione dei locali nei quali l’azienda è esercitata), e c.d. contratti d’impresa, ossia quei contratti che attengono all’organizzazione dell’impresa stessa (come i contratti con i fornitori, i contratti di assicurazione, i contratti di appalto e simili). Fermo restando che, come confermato da un consolidato orientamento giurisprudenziale[33], la regola dell’art. 2558,primo comma c.c. trova applicazione indistintamente ad entrambe le categorie di contratti, si ritiene in dottrina che, affinché la fattispecie possa integrare un trasferimento d’azienda e non un trasferimento di singoli beni aziendali, le parti – pur avendo piena libertà quanto all’esclusione dei contratti d’impresa – non possono invece convenzionalmente escludere il subentro del cessionario nei contratti aziendali che debbano ritenersi essenziali per il funzionamento del complesso aziendale[34].
4. La successione nei contratti in caso di trasferimento di “ramo d’azienda”, il criterio enunciato dalla Corte per la valutazione dell’inerenza dei contratti al ramo d’azienda ceduto e l’opportunità di espresse pattuizioni fra cedente e cessionario
Da quanto detto dovrebbe risultare evidente che, nel silenzio delle parti, il fenomeno successorio di cui all’art. 2558, primo comma c.c. opera con riferimento a tutti i contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda (salvo quelli aventi carattere personale) e che alle parti è concesso, entro certi limiti, di escludere il subentro in taluni contratti.
Si deve, peraltro, considerare che gli ampi margini che devono riconoscersi all’autonomia negoziale nella definizione dell’insieme dei beni oggetto di cessione consentono di convenire che oggetto di trasferimento sia solamente un “ramo d’azienda”[35], ossia un particolare settore dell’azienda, pur sempre dotato di una sua organicità funzionale[36].
Proprio con riferimento a tale fattispecie, la sentenza che si commenta ha cura di precisare che l’effetto dell’automatico subentro del cessionario nei rapporti contrattuali inerenti l’azienda ceduta si verifica anche “nel caso in cui l’oggetto del trasferimento non riguardi l’intera azienda, bensì un ramo di essa”. Invero, l’affermazione non può dirsi del tutto nuova[37] e non può revocarsi in dubbio, specie ove si acceda alle teorie[38] che, criticando la stessa rilevanza della nozione di “ramo d’azienda”, ritengono necessario e sufficiente, ai fini dell’applicabilità della disciplina in discorso, che il complesso dei beni oggetto di trasferimento sia sussumibile nella definizione positiva di “azienda” data dall’art. 2555 ss., a nulla rilevando che esso fosse parte di un più ampio complesso aziendale dell’alienante.
Il problema che appare più delicato, tuttavia, è quello dell’individuazione in concreto dei contratti che debbano ritenersi stipulati per l’esercizio del solo ramo d’azienda ceduto. Nella pronuncia in commento, la Suprema Corte tenta di offrire un criterio per la valutazione dell’inerenza dei contratti al ramo d’azienda oggetto di cessione, affermando che sono destinati a seguire le sorti del complesso ceduto “i rapporti riferibili [al]ramo – ossia quelli per loro natura oggettivamente determinabili, in ragione della riconoscibile destinazione funzionale all’esercizio del settore di attività imprenditoriale ad essi strettamente collegato”, esclusi ovviamente quelli aventi carattere personale e salvo che le parti “abbiano proceduto alla determinazione dei singoli beni o rapporti non destinati alla successione”[39]. In passato una pronuncia della giurisprudenza di merito aveva già avuto occasione di sottolineare che l’inerenza di un determinato rapporto contrattuale all’azienda ceduta presuppone una relazione di destinazione fra il contratto e l’azienda stessa[40], fondando così il concetto di inerenza su un criterio imperniato sull’oggetto dell’azienda che viene trasferita[41]. In dottrina si è invece apparentemente adottato un criterio più ampio, affermando che l’inerenza dei rapporti contrattuali all’azienda può attenere tanto alla genesi dei rapporti (sarebbero cioè inerenti i rapporti sorti in dipendenza dell’esercizio dell’azienda) quanto allo scopo o funzione di essi (dovendosi così considerare inerenti altresì i rapporti costituiti per provvedere all’organizzazione o all’esercizio dell’azienda)[42]: non rileva, inoltre, che i contratti siano stati inizialmente stipulati per finalità extra aziendali ovvero siano stati stipulati da soggetti terzi diversi dall’alienante[43], purché – si intende – al momento dell’alienazione il rapporto sia destinato all’esercizio dell’azienda e l’alienante ne sia titolare. Anche l’ulteriore requisito – enunciato nella pronuncia in commento – della riconoscibilità da parte del contraente ceduto della destinazione del rapporto contrattuale all’azienda è stato già in precedenza affermato in dottrina[44].
Tuttavia, può non essere agevole in concreto determinare l’inerenza di un contratto ad un determinato ramo d’azienda[45]. Tale difficoltà suggerisce l’opportunità di provvedere ad una precisa identificazione del ramo d’azienda e, in particolare, dei rapporti contrattuali destinati a rimanere in capo al cedente. Nella prassi delle operazioni di acquisizione di rami d’azienda, l’attività di due diligence svolta dall’acquirente ha spesso anche l’obiettivo di identificare con maggior precisione i beni, i debiti, i crediti e, in particolare, i rapporti contrattuali da ricomprendersi nel perimetro del ramo d’azienda.
Nell’ottica di identificare i contratti nei quali il cessionario subentrerà in conseguenza della cessione del ramo d’azienda, sembrerebbero potersi astrattamente seguire almeno due diverse impostazioni[46]: le parti, infatti, possono (a) individuare i rapporti contrattuali esclusi dal perimetro del ramo d’azienda, secondo lo schema espressamente previsto dall’art. 2558, primo comma c.c.; oppure (b) individuare i soli rapporti contrattuali destinati ad essere trasferiti al cessionario per effetto della cessione, con pattuizione espressa di esclusione del subentro automatico con riferimento ad ogni ulteriore rapporto contrattuale[47]. Pregi e difetti dell’uno o dell’altra opzione possono dipendere dall’ottica nella quale ci si ponga: il problema potrebbe infatti ricondursi all’individuazione della parte sulla quale debba gravare il rischio di risultare titolare di rapporti contrattuali non conosciuti (e, quindi, potenzialmente indesiderati)[48]. È indubbio, peraltro, che il cedente, in quanto titolare del ramo d’azienda, avrà in genere una miglior conoscenza dell’insieme dei rapporti contrattuali inerenti al ramo e potrà dunque più agevolmente limitare tale rischio.
5. La rilevanza delle pattuizioni dei contratti inerenti al ramo d’azienda stipulati con i terzi volte ad escluderne la circolazione
Una delle argomentazioni della società ricorrente si fonda sulla circostanza che le parti originarie del contratto di leasing avessero convenuto con apposita clausola di subordinare l’efficacia dell’eventuale cessione del contratto al consenso della società concedente. La Corte di Cassazione purtroppo non si è pronunciata sulla questione, avendo ritenuto inammissibile il relativo motivo di ricorso per avere la ricorrente omesso di riprodurre nel ricorso il contenuto specifico della clausola in violazione dell’art. 366, primo comma, n. 6) c.p.c.
Una pronuncia della Corte sul tema avrebbe senz’altro destato grande interesse, data la rilevanza della questione soprattutto per gli operatori. Si può agevolmente comprendere, infatti, che, nella misura in cui simili pattuizioni fossero idonee ad impedire la successione nei contratti, il potenziale acquirente dell’azienda dovrebbe innanzitutto preoccuparsi di identificare, nell’ambito della propria attività di due diligence, i contratti che presentino clausole di tal genere; in secondo luogo, limitatamente ai contratti contenenti tali pattuizioni (e sempreché si tratti di contratti che l’acquirente abbia interesse ad assicurarsi a seguito della cessione dell’azienda o di un suo ramo), l’acquirente dovrebbe altresì premurarsi di ottenere il consenso del terzo alla cessione del contratto[49].
In mancanza di una pronuncia della Corte, si ritiene utile riepilogare brevemente le posizioni espresse dalla dottrina e dalla giurisprudenza che hanno affrontato la questione.
In giurisprudenza, un orientamento assai risalente[50] affermava, con riguardo alla questione della successione nel contratto di locazione dell’immobile nel quale era esercitata l’azienda[51], che la clausola di incedibilità contenuta nel contratto fosse idonea a conferire ad esso carattere personale, dovendosi quindi escludere l’applicabilità dell’art. 2558, primo comma c.c.[52]. Dal canto suo, la dottrina, pur condividendo l’affermazione in linea di principio[53], ha tuttavia ritenuto, dapprima con riguardo al problema specifico della successione nel contratto di locazione e poi con affermazioni di carattere generale, che la successione nel contratto non possa essere esclusa per effetto di un generico divieto di cessione del contratto, ma solamente ove le parti abbiano pattuito specificamente l’esclusione del subentro in caso di trasferimento dell’azienda[54]. A sostegno di tale tesi, si afferma che, da un lato, la cessione del contratto e la successione ex lege sono fenomeni giuridici diversi, con la conseguenza che il divieto dell’una non implica l’esclusione dell’altra, e, dall’altro, che un divieto convenzionale generico di cessione non potrebbe avere un’efficacia superiore al generico divieto legale di cui all’art. 1406 c.c., rispetto al quale l’art. 2558 c.c. costituisce eccezione[55]. Una parte della dottrina[56] ha tuttavia criticato l’adozione di un criterio ermeneutico fondato su “sfumature di significati tecnico-giuridici”, sostenendo l’esigenza di attribuire ai termini della relativa clausola contrattuale un significato corrispondente alla volontà delle parti, pur sempre alla stregua dei criteri di interpretazione oggettiva del contratto: si sottolinea, in particolare, che potrà a tal fine tenersi conto dell’eventuale carattere ‘di stile’ della clausola nonché della normale conoscenza, da parte del terzo contraente, della destinazione del contratto all’azienda[57].
Dopo le risalenti pronunce sopra citate, sorprendentemente la casistica giurisprudenziale è stata più scarna. In epoca recente consta una sola pronuncia della Suprema Corte, che, seppur con riguardo alla particolare fattispecie di un contratto di licenza di software contenente una clausola che vietava all’utente di trasferire a terzi i diritti di cui era licenziatario, ha utilizzato schemi logici abbastanza differenti da quelli elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza precedenti: la Corte di Cassazione ha, infatti, concluso che “l’art. 2558 c.c., laddove nel primo comma chiarisce che l’acquirente dell’azienda subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda stessa ‘se non è pattuito diversamente’, consente di prendere in considerazione proprio quelle situazioni nelle quali, esplicitamente, le parti hanno voluto stabilire la incedibilità ulteriore di un diritto già ceduto”[58]. Tuttavia, come sembra rilevare la stessa Corte, la pronuncia risente probabilmente della particolare natura dei diritti che il contratto in questione toccava e della disciplina ad essi applicabili[59].
In assenza di pronunce più recenti che possano offrire un criterio generale[60], sembra ad oggi doversi senz’altro negare l’applicabilità dell’art. 2558 c.c. a quei contratti che espressamente escludano la successione nel contratto in caso di trasferimento di azienda. Maggiori incertezze rimangono in relazione a quei contratti che contengano invece clausole generiche di incedibilità del contratto.
[1] Per un’efficace sintesi delle varie teorie elaborate circa la natura giuridica dell’azienda, si rimanda a C. Ferrentino e A. Ferrucci, Dell’azienda, 2014, 21 ss..
[2] Si tende a ritenere che le dispute dottrinali circa la natura giuridica dell’azienda abbiano in realtà scarso rilievo pratico, essendo maggiormente rilevante stabilire se in concreto un certo insieme di beni possa rientrare nella definizione positiva di azienda, ai fini dell’applicazione della relativa disciplina. Si vedano in tal senso, F. Ferrara e F. Corsi, Gli imprenditori e le società, 2011, 127 e V. Buonocore, Manuale di diritto commerciale, 1997, 551.
[3] F. Galgano, Trattato di diritto civile, III, 2015, 501; V. Buonocore, Manuale di diritto commerciale, 1997, 553.
[4] Non si tratterà in questa sede dell’intera disciplina della circolazione dell’azienda, che – come noto – riguarda non solo il fenomeno della successione nei contratti inerenti l’azienda di cui all’art. 2558 c.c., comprendendo altresì norme in materia di forma e pubblicità dell’atto di cessione dell’azienda (art. 2556 c.c.), divieto di concorrenza in capo al cedente (art. 2557 c.c.), sorte dei crediti e dei debiti relativi all’azienda ceduta (rispettivamente artt. 2559 e 2560 c.c.) e individuazione delle norme applicabili in caso di usufrutto e affitto di azienda (rispettivamente artt. 2561 e 2562 c.c.).
[5] V. Buonocore, Manuale di diritto commerciale, 1997, 558.
[6] F. Fimmanòe A. Picchione, Commento all’art. 2558, in Delle società, dell’azienda, della concorrenza, a cura di D.U. Santosuosso, IV, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, 2015, 851.
[7] L. Mula, Sub art. 2558, in Commentario al codice civile, diretto da P. Cendon, 2010, 72.
[8] In tal senso G.E. Colombo, L’azienda e il mercato, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, III, 1979, 89-91 e G.F. Campobasso, Diritto commerciale, I, Diritto dell’impresa, 2008, 153. Si vedano, inoltre, Cass. 14 maggio 1997, n. 4242 e Cass. 7 dicembre 2005, n. 27011, che hanno chiarito che la comunicazione al contraente ceduto è un onere finalizzato al decorso del termine di tre mesi previsto per il recesso del terzo ai sensi dell’art. 2558, secondo comma c.c. e non, quindi, ai fini dell’opponibilità al contraente ceduto del subentro del cessionario nella posizione contrattuale del cedente.
[9] Sulla disciplina del recesso si rinvia alla più recente letteratura: si vedano, fra gli altri, C. Ferrentino e A. Ferrucci, Dell’azienda, 2014, 80; L. Mula, Sub art. 2558, in Commentario al codice civile, diretto da P. Cendon, 2010, 88; F. Fimmanò e A. Picchione, Commento all’art. 2558, in Delle società, dell’azienda, della concorrenza, a cura di D.U. Santosuosso, IV, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, 2015, 865.
[10] Cass. 28 marzo 2007, n. 7652.
[11] Qualora il rapporto contrattuale nel quale il cessionario subentra sia oggetto di contenzioso pendente, si avrà altresì successione a titolo particolare del cessionario nel processo. Si veda Cass. 14 agosto 1990, n. 8219.
[12] In tal senso di veda Cass. 19 giugno 1996, n. 5636, secondo cui “la mancata significazione dell’esistenza di un dato contratto da parte del cedente al cessionario, e la conseguente ignoranza della stessa da parte di questo non ostano, di per sè, al verificarsi della successione del cessionario medesimo nei rapporti derivanti dal contratto ignorato”. In relazione a possibili strumenti di tutela dell’acquirente, si veda infra le note 42e 43.
[13] Sottolinea la differenza fra i due istituti anche Cass. 11 agosto 1990, n. 8219. Inoltre, come sintetizza efficacemente A. Vanzetti, Osservazioni sulla successione nei contratti relative all’azienda ceduta, in Riv. soc., 1965, 514, “[n]ell’alienazione d’azienda […]la successione nei contratti […]non attiene al contenuto del negozio, e quindi alla fattispecie, ma appunto agli effetti, e pertanto ogni accostamento fra la fattispecie di alienazione d’azienda e la fattispecie di cessione del contratto, che miri a considerare la prima come comprensiva, in qualche misura, della seconda, si dimostra infondato”.
[14] Secondo Trib. Roma 21 gennaio 2015, “il subentrare del cessionario dell’azienda, a norma dell’art. 2558 c.c. primo comma, nei contratti stipulati dal dante causa per l’esercizio dell’azienda medesima che non abbiano carattere personale, integr[a]un’ipotesi di successione ope legis, cui non è applicabile la disciplina generale della cessione del contratto né, in particolare, quella dettata dall’art. 1407 c.c. in ordine ai requisiti per l’efficacia della cessione stessa nei confronti del contraente ceduto”.
[15] Restano esclusi dall’ambito di applicazione della disposizione in discorso i trasferimenti che non abbiano causa negoziale. Si vedano in tal senso Cass. 7 novembre 2003, n. 16724, secondo cui “sono estranei all’ambito di applicazione dell’art. 2558 c.c. tutte le ipotesi in cui il trasferimento dell’azienda sia la conseguenza diretta di un fatto non negoziale o sia la conseguenza soltanto mediata di una fattispecie negoziale”.
[16] F. Ferrara e F. Corsi, Gli imprenditori e le società, 2011, 127; V. Buonocore, Manuale di diritto commerciale, 1997, 558; G.F. Campobasso, Diritto commerciale, I, Diritto dell’impresa, 2008, 152; G.E. Colombo, L’azienda e il mercato, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, III, 1979, 70 ss.. In giurisprudenza, si vedano Cass. 8 giugno 1994, n. 5534 e Cass. 29 gennaio 1979, n. 632.
[17] Lo stesso dovrà dirsi di contratti con obbligazioni a carico di una sola parte.
[18] La dottrina si divide, peraltro, fra coloro che a tale conclusione pervengono tramite un’applicazione analogica dell’art. 1330 c.c. (fra questi, G. Oppo, I contratti di impresa tra codice civile e leggi speciali, in Riv. dir. civ., 2004, I, 843 nonché G. Bonfante e G. Cottino, L’imprenditore, in Trattato di diritto commerciale, diretto da G. Cottino, I, 2001, 635) e coloro che ricorrono ad un’interpretazione estensiva dell’art. 2558 c.c., ritenendo l’espressione “contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda” riferibile anche ai contratti in corso di formazione (si veda G.E. Colombo, L’azienda e il mercato, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, III, 1979, 115 ss.).
[19] Si è sostenuto che l’inapplicabilità a tali contratti della regola della successione di cui all’art. 2558 c.c. intenderebbe tutelare l’acquirente dell’azienda (F. Galgano, Trattato di diritto civile, III, 2015, 513). Sembra, tuttavia, maggioritaria l’opinione che ritiene che la norma sarebbe in realtà posta a salvaguardia del terzo contraente a non vedere mutata la propria controparte contrattuale: in tal senso si veda F. Martorano, L’azienda, in Trattato di diritto commerciale, diretto da V. Buonocore, sez. I, t. 3, 2010, 163-64.
[20] G. Auletta, voce Azienda (diritto commerciale), in Enc. Treccani, IV, 1988, 19; G. Ferrari, Azienda (dir. priv.), in Enc. dir., 1959, para. 35.
[21] F. Galgano, Trattato di diritto civile, III, 2015, 512. In giurisprudenza si veda App. Milano 21 gennaio 1986, in Giur. it., 1986, I, 713.
[22] A. Vanzetti, Osservazioni sulla successione nei contratti relative all’azienda ceduta, in Riv. soc., 1965, 539 ss.. In giurisprudenza Trib. Milano 6 luglio 1995, in Gius, 1995, 3985.
[23] Si ritiene che il carattere personale di tali contratti debba essere valutato dal punto di vista dell’alienante, e non da quello del terzo. In tal senso F. Ferrara e F. Corsi, Gli imprenditori e le società, 2011, 128; F. Galgano, Trattato di diritto civile, III, 2015, 512.
[24] Così dispone l’art. 2112 c.c.: “In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano. Il cedente ed il cessionario sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro. Il cessionario è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all’impresa del cessionario. L’effetto di sostituzione si produce esclusivamente fra contratti collettivi del medesimo livello. Ferma restando la facoltà di esercitare il recesso ai sensi della normativa in materia di licenziamenti, il trasferimento d’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può rassegnare le proprie dimissioni con gli effetti di cui all’articolo 2119, primo comma. Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda. Le disposizioni del presente articolo si applicano altresì al trasferimento di parte dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento. Nel caso in cui l’alienante stipuli con l’acquirente un contratto di appalto la cui esecuzione avviene utilizzando il ramo d’azienda oggetto di cessione, tra appaltante e appaltatore opera un regime di solidarietà di cui all’articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276”.
[25] Ai sensi dell’art. 36 L. 27 luglio 1978, n. 392, il “conduttore può […] cedere il contratto di locazione anche senza il consenso del locatore, purché venga insieme ceduta o locata l’azienda, dandone comunicazione al locatore mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento. Il locatore può opporsi, per gravi motivi, entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione. […] [I]l locatore, se non ha liberato il cedente, può agire contro il medesimo qualora il cessionario non adempia le obbligazioni assunte”.
[26] Si veda l’art. 2610 c.c.: “Salvo patto contrario, in caso di trasferimento a qualunque titolo dell’azienda l’acquirente subentra nel contratto di consorzio. Tuttavia, se sussiste una giusta causa, in caso di trasferimento dell’azienda per atto fra vivi, gli altri consorziati possono deliberare, entro un mese dalla notizia dell’avvenuto trasferimento, l’esclusione dell’acquirente dal consorzio”.
[27] Si rinvia all’art. 132 L. 22 aprile 1941, n. 633, che così dispone: “L’editore non può trasferire ad altri, senza il consenso dell’autore, i diritti acquistati, salvo pattuizione contraria oppure nel caso di cessione dell’azienda. Tuttavia, in questo ultimo caso i diritti dell’editore cedente non possono essere trasferiti se vi sia pregiudizio alla reputazione o alla diffusione dell’opera”.
[28] Si veda anche A. Di Amato, Trasferimento non negoziale dell’azienda e successione nei contratti, in Giust. civ., 1979, I, 1494, secondo cui “dagli effetti che la legge collega al trasferimento di azienda è possibile desumere quali siano gli interessi tutelati: non lo sono quello della collettività all’integrità delle aziende in sede di trasferimento, ben potendo le parti decidere di disgregare le medesime”. Nello stesso senso anche G.E. Colombo, L’azienda e il mercato, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, III, 1979, 63.
[29] Si veda, ex multis, Cass. 17 aprile 1996, n. 3627, secondo cui “ai fini del trasferimento dell’azienda non è necessario che vengano trasferiti tutti i beni aziendali ed è, invece, sufficiente che siano trasferiti alcuni di essi, purché nel complesso di quelli trasferiti permanga un residuo di organizzazione che ne dimostri l’attitudine all’esercizio dell’impresa, sia pure con la successiva integrazione ad opera del cessionario”.
[30] G. Ferrari, Azienda (dir. priv.), in Enc. dir., 1959, para. 32. In giurisprudenza, riconosce espressamente il carattere suppletivo della norma Cass. 29 gennaio 1979, n. 632, in Giust. civ., 1979, I, 1488 ss..
[31] G.F. Campobasso, Diritto commerciale, I, Diritto dell’impresa, 2008, 152.
[32] F. Galgano, Trattato di diritto civile, III, 2015, 508; G.F. Campobasso, Diritto commerciale, I, Diritto dell’impresa, 2008, 153.
[33] Si vedano Cass. 29 marzo 2010, n. 7517; Cass. 7 dicembre 2005, n. 27011; Cass. 22 luglio 2004, n. 13651; Cass. 2 marzo 2002, n. 3045; Cass. 12 aprile 2001, n. 5495.
[34] F. Galgano, Trattato di diritto civile, III, 2015, 508;V. Buonocore, Manuale di diritto commerciale, 1997, 559.
[35] Si veda M. Opromolla, Trasferimento di un ramo di azienda, in Giur. mer., 1995, I, 735 ss..
[36] Si veda Cons. Stato 1 ottobre 2004, n. 6409: “[i]l ramo d’azienda è definibile come quella parte di struttura dell’azienda dotata di autonoma organicità operativa in grado di riprodurre, su scala ridotta, il progetto aziendale. L’interprete deve osservare che il concetto di ramo d’azienda non è contenuto nel codice civile; esso tuttavia è desumibile sia dall’art. 2573 in tema di trasferimento del marchio (ammesso in caso di trasferimento di quella parte di azienda che ad esso di riferisce), che dalla normativa generale (art. 2555) in materia di trasferimento di azienda”.
[37] Si veda ad es. M.S. Spolidoro, Conferimento di ramo d’azienda (considerazioni su fattispecie e disciplina applicabile), in Giur. comm., 1992, I, 699: “resta altresì fermo che le norme dettate dal codice per il trasferimento d’azienda si applicano altresì al trasferimento del c.d. «ramo d’azienda»”. Il principio è altresì affermato in giurisprudenza (si veda ad es. Trib. Bologna 22 maggio 2007, secondo cui “[a]lla cessione di un ramo d’azienda conseguono, limitatamente ai rapporti inclusi nel ramo ceduto, gli effetti della cessione d’azienda regolati in via generale dagli art. 2557 e ss. c.c., e in particolare la successione nei contratti in corso disciplinata dall’art. 2558 c.c. […]”) o più frequentemente dato per supposto (si vedano ad es. Cass. 23 marzo 2012, n. 840 e Cass. 21 luglio 2011, n. 16041).
[38] Così M.S. Spolidoro, Conferimento di ramo d’azienda (considerazioni su fattispecie e disciplina applicabile), in Giur. comm., 1992, I, 699 ss. e, in particolare, 700.
[39] La Suprema Corte è giunta a conclusioni non dissimili con riferimento all’individuazione dei debiti in relazione ai quali opera il regime di solidarietà di cui all’art. 2560, primo comma c.c.: si veda Cass. 30 giugno 2015, n. 19319, in Giur. it, 2015, 2125, con nota di G. Cottino, Divagazioni su cessione di ramo di azienda, debiti e “eternità”‘ del processo, che afferma il principio per cui “[l]’acquirente di un ramo d’azienda è responsabile (unitamente all’alienante) dei soli debiti che dalle scritture contabili risultino riferirsi alla parte di azienda a lui trasferita”.
[40] Si veda Trib. Grosseto 20 luglio 2002, in Giur. it., 2003, 1616, con nota di L. De Rentiis, Quali sono i contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda che non hanno carattere personale?, che ha escluso il subentro ex lege dell’affittuario di un’azienda nei contratti di locazione aventi ad oggetto beni immobili aziendali concessi in godimento a terzi, sul presupposto che “detti beni non sono necessari allo svolgimento dell’attività d’impresa ceduta” e “non è ravvisabile la relazione di destinazione tra contratto di locazione di un bene in proprietà dell’azienda ed esercizio dell’attività aziendale”.
[41] Così L. De Rentiis, Quali sono i contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda che non hanno carattere personale?, in Giur. it., 2003, 1617, commentando la sentenza citata supra alla nota 40.
[42] G. Ferrari, Azienda (dir. priv.), in Enc. dir., 1959, para. 31, il quale rileva altresì che l’“inerenza deve intendersi come relazione puramente economica che diviene giuridicamente rilevante solo in occasione del trasferimento (della titolaritào del godimento) dell’azienda”, tracciando inoltre un parallelismo “fra i due fenomeni della inerenza (dei rapporti) e della organizzazione (dei beni) entrambi caratterizzati dalla medesima funzione “qualificatrice e delimitatrice”. Si veda pure L. De Rentiis, Quali sono i contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda che non hanno carattere personale?, in Giur. it., 2003, 1617, che sostiene che “non è neppure troppo convincente l’assunto per cui si ha un contratto stipulato nell’esercizio dell’azienda solo quando l’originario esercente dell’attività d’impresa stipula un contratto che rientra nella tipologia di quelli con cui normalmente si realizza l’oggetto dell’attività aziendale. Infatti, tale interpretazione è troppo riduttiva e non tiene conto che colui che esercita un’attività d’impresa può, per i motivi più diversi (ad esempio, quello di ridurre i costi di gestione del patrimonio aziendale), impiegare un bene aziendale stipulando un contratto che non rientra nella tipologia di quelli con cui si realizza l’oggetto sociale: il titolare d’azienda, in tal caso, non farebbe altro che esercitare i poteri di organizzazione che la legge gli attribuisce per svolgere la sua attività”. A tale riguardo, si rammenta che la stessa giurisprudenza della Suprema Corte ha affermato l’applicabilità dell’art. 2558, primo comma c.c. tanto ai contratti aziendali quanto ai contratti d’impresa (si vedano supra il testo al paragrafo 3 e le sentenze citate alla nota 33).
[43] C. Ferrentino e A. Ferrucci, Dell’azienda, 2014, 74, secondo cui non è neppure necessario che i contratti facciano espresso riferimento all’azienda.
[44] Si veda, fra gli altri, G. Auletta, voce Azienda (diritto commerciale), in Enc. Treccani, IV, 1988, 19, secondo cui “sono assoggettati alla disciplina dell’art. 2558 solo i contratti relativamente ai quali la controparte conosceva la destinazione aziendale al momento della conclusione del contratto o ha dato successivamente l’assenso a tale destinazione”.
[45] Non può, inoltre, ignorarsi che ben può accadere che taluni contratti siano inerenti sia al ramo d’azienda ceduto sia a quello destinato a rimanere in capo al cedente (si considerino ad es. i contratti per la fornitura di servizi di cui si servano entrambi i rami d’azienda ovvero i contratti di locazione di immobili nei quali sia esercitata l’attività di entrambi i rami). In ipotesi di questo genere, può porsi il problema dell’ammissibilità di un subentro parziale nel contratto, con sua conseguente scissione in due distinti rapporti contrattuali, uno con il cedente (per la parte del contratto riferibile al ramo rimasto a quest’ultimo) e l’altro con il cessionario (per la parte riferibile invece al ramo ceduto). La Suprema Corte, pronunciandosi perlopiù su patti con i quali le parti sembravano mirare a realizzare una scissione del contratto secondo logiche che apparentemente prescindevano dall’oggettiva destinazione funzionale del contratto all’esercizio di due distinti rami d’azienda, ha sempre negato l’ammissibilità di patti di tal genere: si vedano in tal senso Cass. 23 gennaio 2012, n. 840, secondo cui “il patto contrario cui [l’art. 2558, primo comma c.c.][…]riguarda la possibilità di concordare l’esclusione della successione, in capo all’acquirente, in determinati contratti, ma non quello di determinare una cessione soltanto parziale di un rapporto negoziale già sussistente fra il cedente ed un terzo. […]la norma invocata determina, come effetto naturale, soprattutto nei confronti dell’altro contraente, il subentrare dell’acquirente dell’azienda nel rapporto contrattuale, da intendersi nella propria interezza, con riferimento al complesso delle prestazioni, agli obblighi e ai diritti che dallo stesso scaturiscono” nonché Cass., 28 marzo 2007, n. 7652, che incidentalmente afferma che “in linea di principio […]il carattere sinallagmaticamente unitario di un contratto è di per sé ostativo (salvo diversa espressa volontà delle parti o iussum legis) alla sua cedibilità parziale, limitatamente cioè ad una soltanto delle prestazioni, che resti in tal modo separata dalla contrapposta prestazione cui era strutturalmente e funzionalmente collegata”. La giurisprudenza ha mostrato invece apertura con riferimento all’ipotesi (in realtà diversa dal fenomeno successorio di cui all’art. 2558 c.c.) della cessione parziale del contratto di locazione degli immobili in cui sono esercitati distinti rami d’azienda, ai sensi dell’art. 36 L. 27 luglio 1978, n. 392: si veda Cass. 26 ottobre 2000, n. 14139.
[46] In tal senso, si veda pure L. Fornero, M. Negro, G. Odetto, Cessione, conferimento, affitto e donazione d’azienda, 2011, 41-42. C. Ferrentino e A. Ferrucci, Dell’azienda, 2014, 72 propongono, in alternativa, anche un meccanismo negoziale più complicato per effetto del quale la successione nei contratti sarebbe sottoposta all’approvazione formale dell’acquirente entro un certo termine, ferma l’approvazione immediata dei contratti più rilevanti per la gestione aziendale al fine di non paralizzare l’attività di impresa.
[47] Si veda C. Ferrentino e A. Ferrucci, Dell’azienda, 2014, 72. L’individuazione, seppur per relationem, dei soli rapporti contrattuali destinati a trasferirsi all’acquirente dell’azienda sembrerebbe espressamente riconosciuta da Cass. 19 giugno 1996, n. 5636, secondo la quale l’acquirente può “sottrarsi al rischio di acquisire rapporti non conosciuti espressamente pattuendo che il trasferimento debba essere limitato ai rapporti risultanti dai documenti comunicatigli durante le trattative svoltesi per la traslazione dell’azienda”. Nello stesso senso già G. Auletta, voce Azienda (diritto commerciale), in Enc. Treccani, IV, 1988, 17: “[q]uanto al rischio dell’acquirente di acquisire rapporti non conosciuti, può osservarsi […]che l’acquirente può sottrarsi a tale rischio inserendo una clausola contrattuale che limita il trasferimento ai rapporti risultanti dai documenti comunicatigli durante le trattative”.
[48] A tale proposito, si consideri che negli accordi preliminari di cessione di rami d’azienda è sempre più frequente la pattuizione di specifiche dichiarazioni e garanzie del cedente in relazione alla consistenza patrimoniale del ramo d’azienda, in maniera non dissimile da quanto accade per la cessione di partecipazioni sociali. Nell’ambito di tali pattuizioni, non è infrequente che al cedente sia richiesto di garantire, fra l’altro, la “completezza” dei beni e dei rapporti ceduti e la loro idoneità a consentire al cessionario di esercitare l’attività del ramo d’azienda come precedentemente esercitata dallo stesso cedente.
[49] Nella prassi, i contratti preliminari di cessione di rami d’azienda spesso impongono al cedente di ottenere il consenso del terzo con riferimento a quei contratti che, nell’ambito della due diligence svolta dall’acquirente, risultino contenere pattuizioni che escludono il subentro (similmente a quanto accade per i contratti contenenti clausole c.d. di “change of control” nell’ambito di operazioni di acquisizioni di partecipazioni sociali di maggioranza), subordinando eventualmente l’obbligazione delle parti di procedere al perfezionamento della cessione all’ottenimento dei necessari consensi dei terzi (o quanto meno dei consensi relativi ad una parte significativa dei contratti che presentino tali pattuizioni). Laddove il mancato subentro in taluni contratti possa diminuire il valore economico del ramo d’azienda, potranno altresì prevedersi meccanismi di rettifica del prezzo di cessione per l’ipotesi che il consenso del terzo non sia ottenuto.
[50] Si vedano Cass. 27 giugno 1950, n. 1633, in Giur. it. Mass., 1950, 405, secondo cui “l’acquirente di un’azienda non subentra nel contratto di locazione dei locali dell’azienda di cui esiste il divieto di cessione dell’affitto, giacché tale divieto imprime al contratto un carattere personale, che impedisce la successione ope legis”; App. Milano 19 aprile 1955, in Giur. it. Rep., 1955, v. Azienda, nn. 30-31 la cui massima recita “[i]l cessionario di un’azienda non subentra, per il fatto stesso della cessione, nel contratto di locazione dell’immobile in cui l’azienda è gestita, qualora esista, nel contratto di locazione, il divieto di cessione del contratto. Tale divieto, pur se genericamente espresso, vale ad imprimere al contratto di locazione un carattere personale, onde all’applicazione dell’art. 2558 c.c. è di ostacolo l’art. 1594 dello stesso codice, che richiede, per l’efficacia della cessione, il consenso del locatore”.
[51] Le sentenze citate supra alla nota 44sono riconducibili ad un filone giurisprudenziale che, in maniera abbastanza costante dall’entrata in vigore del codice civile del 1942 sino all’intervento del legislatore con la L. 27 gennaio 1963, n. 19 (che introduceva all’art. 5 una disposizione sostanzialmente analoga al successivo art. 36 della L. 27 luglio 1978, n. 392 (c.d. legge equo canone) (su cui si veda supra la nota 25)), negava fermamente, con una varietà di argomentazioni, che ai contratti di locazione di immobili potesse applicarsi l’art. 2558 c.c. Si vedano F. Gazzoni, Cessione di azienda e successione nel rapporto locativo, in Giust. civ., 1980, II, 193-95 e A. Vanzetti, Sulla successione nel contratto di locazione d’immobili in caso di alienazione d’azienda, in Riv. dir. ind., 1965, I, 5 ss..
[52] Si intende che, come per i contratti aventi carattere personale, resta comunque possibile la cessione del contratto con il consenso del terzo contraente. È, inoltre, evidente che le conclusioni cui sono pervenute le sentenze citate supra alla nota 44non sono più attuali secondo la legge ora vigente, dal momento che, secondo il tenore letterale dell’art. 36 L. 27 luglio 1978, n. 392, il “conduttore può […] cedere il contratto di locazione anche senza il consenso del locatore”, a nulla rilevando, quindi, eventuali clausole di incedibilità contenute nel contratto di locazione (si veda in tal senso Cass. 24 febbraio 1988, n. 1943).
[53] Sembrerebbe sostanzialmente isolata l’opinione di Ferrarini, La locazione finanziaria, 145, citato (con posizione critica) da G.E. Colombo, L’azienda e il mercato, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, III, 1979, 88, nt. 76, il quale, partendo dal presupposto che l’ordinamento tuteli l’interesse generale a che i complessi produttivi rimangano funzionalmente integri nel trasferimento, ritiene che le pattuizioni dei contratti stipulati dall’imprenditore con i terzi non potrebbero in alcun caso impedire la successione dell’acquirente dell’azienda nei contratti.
[54] Così L. Mula, Sub art. 2558, in Commentario al codice civile, diretto da P. Cendon, 2010, 77; M. Casanova, Impresa e azienda, in Trattato di diritto civile italiano, diretto da F. Vassalli, v. 10, t. 1, f. 1, 1974, 803; D. Rubino, La compravendita, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da A. Cicu e F. Messineo, 1962, 165, nt. 132. L’opinione è espressa in dottrina già nei primi anni di vigenza del codice del 1942 da A. De Martini, Azienda, cessione di azienda e successione nei contratti inerenti al suo esercizio con particolare riguardo al contratto di locazione, in Giur. compl. cass. civ., 1946, 616. In senso contrario si veda invece App. Milano 19 aprile 1955, in Giur. it. Rep., 1955, v. Azienda, nn. 30-31, la cui massima è riportata supra alla nota 45.
[55] Così sintetizza G.E. Colombo, L’azienda e il mercato, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, III, 1979, 87.
[56] G.E. Colombo, L’azienda e il mercato, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, III, 1979, 87-88. Nello stesso senso sembrerebbe orientarsi F. Martorano, L’azienda, in Trattato di diritto commerciale, diretto da V. Buonocore, sez. I, t. 3, 2010, 165 ed in termini sostanzialmente analoghi pure A. Vanzetti, Sulla successione nel contratto di locazione d’immobili in caso di alienazione d’azienda, in Riv. dir. ind., 1965, I, 14 ss., che – richiamando, fra l’altro, l’art. 1367 c.c. – afferma che con le clausole di incedibilità le parti “normalmente vogli[o]no escludere ogni mutamento nella persona del locatario, ancorché dicano «escludiamo che il locatario ceda ad altri», piuttosto che «escludiamo che altri possa succedere al locatario»”. Si veda pure G. Ferrari, Azienda (dir. priv.), in Enc. dir., 1959, para. 35, che, dopo aver affermato che “in linea di principio non potrebbe quindi ritenersi idonea a determinare l’esclusione l’inserzione di una clausola che […]vieti genericamente la cessione [del contratto]”, fa espressamente salva “la possibilità di dimostrare in base alle norme sulla interpretazione del contratto (art. 1362 ss.) una più specifica volontà delle parti diretta ad impedire che il contratto segua le sorti dell’azienda in caso di alienazione”.
[57] G.E. Colombo, L’azienda e il mercato, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, III, 1979, 88, nt. 79.
[58] Si veda Cass. 21 luglio 2011, n. 16041.
[59] La Corte, infatti, da un lato, richiama l’art. 64-bis L. 22 aprile 1941, n. 633 (c.d. legge sul diritto d’autore) che conferisce esclusivamente all’autore, fra l’altro, “il diritto di effettuare o autorizzare […]qualsiasi forma di distribuzione al pubblico, compresa la locazione, del programma per elaboratore originale o di copie dello stesso”; dall’altra, afferma che la particolare interpretazione offerta della “pattuizione diversa” di cui all’art. 2558 c.c. è giustificata dalla “particolarità […]del diritto di autore, e la normativa citata sulla quale la Corte di merito si è soffermata”.
[60] Si segnala la decisione n. 8 del 2 gennaio 2014 del Collegio di Milano dell’Arbitro Bancario Finanziario che, con riferimento ad una clausola di un contratto di leasing che vietava la cessione del contratto senza il consenso del concedente “anche in caso di cessione, affitto, usufrutto di azienda o di ramo d’azienda”, conclude per l’inopponibilità della “cessione” alla concedente.