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Note

La Suprema Corte sancisce la non-elusività delle operazioni di merger leveraged buy-out e ne chiarisce il riparto dell’onere probatorio tra Amministrazione e contribuente

17 Gennaio 2017

Pietro Mastellone, Dottore di ricerca in Diritto tributario, Studio Legale Cordeiro Guerra & Associati (Firenze-Milano)

Cassazione Civile, Sez. V, 9 agosto 2016, n. 16675

Di cosa si parla in questo articolo

Il caos interpretativo relativo alla vexata quaestio dell’elusione fiscale ha, per quasi un decennio, caratterizzato la giurisprudenza tributaria italiana, la quale, a seguito di alcune note pronunce della Corte di Giustizia UE in materia di abuso in ambito IVA [1], ha finito per dilatare a dismisura la portata dell’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973 ed a considerarla non più una norma con ambito di applicazione limitato, bensì espressiva di un principio generale che troverebbe le proprie radici nell’art. 53 Cost. [2]. Tale orientamento, fortemente criticato in dottrina [3], poneva di fatto il contribuente in uno stato di perenne incertezza, in quanto veniva attribuita una sorta di “arma impropria” nelle mani dell’Amministrazione finanziaria tale da sbilanciare il rapporto con i privati e comprimerne la libertà di iniziativa imprenditoriale.

Com’è noto, la creazione giurisprudenziale del concetto di “abuso del diritto” ha indotto il Parlamento a delegare il Governo «ad attuare, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, la revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto, in applicazione dei seguenti principi e criteri direttivi, coordinandoli con quelli contenuti nella raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012:

a) definire la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, ancorché tale condotta non sia in contrasto con alcuna specifica disposizione;

b) garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti anche un diverso carico fiscale e, a tal fine:

1. considerare lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali come causa prevalente dell’operazione abusiva;

2. escludere la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali; stabilire che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente;

c) prevedere l’inopponibilità degli strumenti giuridici di cui alla lettera a) all’amministrazione finanziaria e il conseguente potere della stessa di disconoscere il relativo risparmio di imposta;

d) disciplinare il regime della prova ponendo a carico dell’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare il disegno abusivo e le eventuali modalità di manipolazione e di alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato, prevedendo, invece, che gravi sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di valide ragioni extrafiscali alternative o concorrenti che giustifichino il ricorso a tali strumenti;

e) prevedere una formale e puntuale individuazione della condotta abusiva nella motivazione dell’accertamento fiscale, a pena di nullità dell’accertamento stesso;

f) prevedere specifiche regole procedimentali che garantiscano un efficace contraddittorio con l’amministrazione finanziaria e salvaguardino il diritto di difesa in ogni fase del procedimento di accertamento tributario» [4].

Il legislatore delegato – con l’art. 1, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 – provvedeva ad abrogare l’art. 37-bis e ad inserire l’art. 10-bis (Disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale) all’interno dello Statuto dei diritti del contribuente. Tale riforma introduce, dunque, una vera e propria general anti-avoidance rule (GAAR) nell’ordinamento tributario domestico, facendo convergere i concetti di “elusione” ed “abuso” in un fenomeno autonomamente considerabile, la cui collocazione sistematica all’interno della Legge n. 212/2000 pare esprimere la necessità del legislatore di far sì che lo strumento dell’elusione/abuso del diritto risulti applicato dall’Amministrazione finanziaria in modo equilibrato e non più fortemente discrezionale.

Nel caso in questione, la Suprema Corte si è trovata a dover verificare se un’operazione di merger leveraged buy-out (d’ora in avanti, MLBO) costituisca elusione/abuso ed, inoltre, se la sentenza impugnata avesse correttamente applicato le regole distributive dell’onere probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente [5].

In primo luogo, occorre aver chiaro che da un punto di vista civilistico per mezzo delle operazioni di MLBO si intende perfezionare l’acquisizione (i.e. il buy-out) di una società ricorrendo, in gran parte, all’indebitamento (i.e. la leva finanziaria o, in inglese, leverage) [6]. Nella pratica, questa operazione prevede che, al fine di pervenire all’acquisizione di una società (c.d. target), un fondo (od una cordata di fondi) di private equity costituisce una società “veicolo” italiana (i.e. una newco), la quale viene in parte capitalizzata dal fondo stesso e, per il residuo, ottenendo un finanziamento bancario garantito dal pegno sulle azioni della società target. In questo modo, la newco è in grado di acquisire il pacchetto di maggioranza (o, in taluni casi, la totalità) delle azioni della società target, per poi fondersi ad essa (attraverso una merger).

La riforma societaria del 2001 ha definitivamente fugato ogni dubbio circa la liceità civilistica di dette operazioni: all’art. 7, lett. d), della Legge delega 21 ottobre 2001, n. 366, il Parlamento indicava che la riforma della disciplina delle operazioni straordinarie avrebbe dovuto, fra le altre cose, «prevedere che le fusioni tra società, una delle quali abbia contratto debiti per acquisire il controllo dell’altra, non comportano violazione del divieto di acquisto e di sottoscrizione di azioni proprie, di cui, rispettivamente, agli articoli 2357 e 2357-quater del codice civile, e del divieto di accordare prestiti e di fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione di azioni proprie, di cui all’articolo 2358 del codice civile». Sulla base di tale indicazione, il Governo regolamentava le operazioni di MLBO all’interno dell’art. 2501-bis c.c. (Fusione a seguito di acquisizione con indebitamento), da molti considerata una vera e propria norma di interpretazione autentica [7], introducendo una serie di garanzie procedurali [8].

Orbene, nella decisione in commento la Suprema Corte si è trovata a verificare l’asserita elusività di un’operazione di MLBO applicando, ratione temporis, l’ormai abrogata disposizione di cui all’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1972. La vicenda riguardava il socio di maggioranza titolare del 53% di una nota società italiana (la quale versava in situazione di grave difficoltà finanziaria), il quale si era accordato con i quattro soci di minoranza per acquistare, individuato un fondo di private equity, l’intero capitale sociale della partecipata avvalendosi di una società “veicolo”. A tal fine, veniva contestualmente siglato un accordo con cui tutti i soci rinunciavano ad esercitare il diritto di prelazione.

L’Amministrazione finanziaria considerava che tale operazione integrasse gli estremi dell’elusione fiscale di cui all’art. 37-bis, poiché mascherava il versamento di un corrispettivo per la prestazione di servizi consistente nel “permettere di fare” (i.e. nella rinuncia della controllante ad esercitare il proprio diritto di prelazione sulle azioni della società target oggetto di cessione).

Mentre dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale il contribuente si vedeva accogliere il proprio ricorso [9], l’esito veniva ribaltato in appello.

La Suprema Corte, in primo luogo, si concentra sull’accordo sottoscritto dai soci, il quale sarebbe stato interpretato erroneamente dai Giudici di appello poiché in violazione dei principi civilistici che presidiano l’autonomia negoziale delle parti. Al riguardo, il tenore inequivocabile di tale accordo porrebbe come unica condizione sospensiva dell’operazione (i.e. la retrocessione parziale del prezzo dai soci di minoranza a quello di maggioranza) la conclusione del contratto per la compravendita da parte del fondo di private equity di tutte le azioni detenute dai soci di minoranza nella società target entro una data stabilita e l’avvenuto pagamento dell’intero prezzo di tali azioni da parte del fondo stesso, il quale è determinato tenendo conto anche di un “premio di maggioranza”. Secondo la Corte, insomma, la rinuncia al diritto di prelazione sulle azioni oggetto di cessione «era reciproca fra tutte le parti».

Ma è sul piano probatorio che la decisione assume particolare rilievo, in quanto la Corte reputa altresì fondata la censura circa la mancanza di un nesso tra la suddetta ricostruzione della vicenda negoziale e l’asserita natura abusiva dell’operazione, con conseguente vizio di sussunzione della fattispecie concreta nel paradigma astratto di cui all’art. 37-bis, D.P.R. n. 600 del 1973, «mancando il giudice d’appello di evidenziare il supposto difetto di una valida ragione economica e la contestuale emersione dell’intento di ottenere un indebito vantaggio fiscale, ossia il fondamento stesso delle operazioni di carattere elusivo». Questa conclusione si pone nel solco di alcune analoghi precedenti, ove si è ritenuto che è ravvisabile elusione nell’operazione economica che abbia «quale suo elemento predominante ed assorbente» lo scopo di eludere le norme tributarie, con la conseguenza che il divieto di siffatte operazioni non trova applicazione qualora esse possano spiegarsi altrimenti (i.e. anche con ragioni economiche) che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta [10].

Nel caso di specie, la Suprema Corte ravvisa un evidente vizio nella decisione di appello impugnata, poiché il giudice, dopo aver richiamato i principi generali in materia di “comportamento abusivo”, non ne ha poi individuato i tratti caratterizzanti nella vicenda fattuale. Come recentemente ribadito [11], viene sottolineato che integra gli estremi del “comportamento abusivo” quell’operazione economica che – tenuto conto sia della volontà delle parti implicate, sia del contesto fattuale e giuridico – ponga quale elemento predominante e assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale se quelle operazioni possono spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di un risparmio d’imposta [12]. Ebbene, nella decisione in commento si rileva che incombe sull’Amministrazione finanziaria tanto la prova del disegno elusivo quanto quella delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali “classici”, considerati irragionevoli in una normale logica di mercato [13] e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti in grado di giustificare operazioni in tal modo strutturate.

Non solo. La Cassazione evidenzia come non possa configurarsi abuso del diritto se non sia stato concretamente provato dal Fisco il vantaggio fiscale che sarebbe derivato al contribuente, il quale non ha posto in essere uno schema contrattuale “classico” [14].

Quindi, il carattere abusivo di un’operazione e la sua censurabilità sotto il profilo tributario se, da una parte, deve fondarsi sull’assenza di valide ragioni economiche e sul correlativo conseguimento di un indebito vantaggio fiscale, dall’altra, deve presupporre altresì l’esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito: alla luce di ciò, occorrerà indagare se effettivamente sussista una reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dall’Amministrazione finanziaria.

La decisione in commento, sebbene volta a pronunciarsi su una controversia sorta nella vigenza dell’ormai abrogato art. 37-bis, risente evidentemente del mutato contesto normativo in cui oggi trova collocazione la figura dell’elusione fiscale. Già a partire dal summenzionato art. 5, lett. d), Legge 11 marzo 2014, n. 23 (c.d. Delega fiscale), si è inteso regolamentare in modo rigoroso il riparto dell’onere della prova relativo all’introducenda clausola antielusiva generale, attraverso una formulazione normativa che, secondo la dottrina, «lascia chiaramente intendere che per configurare la condotta elusiva l’Amministrazione finanziaria non può limitarsi a contestare la sostanza economica dell’operazione ma deve individuare in che cosa sia consistito il disegno abusivo e, quindi, evidentemente deve accertare e dimostrare il modo in cui risulta aggirata, “tradita” la ratio, la finalità della norma fiscale» [15].

La controversia viene, quindi, risolta dalla Suprema Corte attraverso un’interpretazione “evolutiva” [16] che tiene conto della nuova clausola generale antielusiva di cui all’art. 10-bis dello Statuto, il cui comma 9 prevede claris verbis che, mentre l’Amministrazione finanziaria deve dimostrare la sussistenza della condotta abusiva (onere che non è stato assolto ed i giudici di merito non hanno rilevato), rimane sulle spalle del contribuente l’onere di dimostrare l’esistenza di ragioni extrafiscali di cui al comma 3 [17]. Orbene, nel caso di specie il contribuente aveva pienamente assolto al proprio onere probatorio, avendo dimostrato:

a) la presenza di valide ragioni economiche (i.e. la finalità di riallineare tra le parti venditrici i prezzi di cessione delle diverse partecipazioni nella società target dai rispettivi valori normali, retrocedendo in modo legittimo, congruo e coerente al socio di maggioranza il relativo premio che altrimenti sarebbe stato impropriamente percepito dai soci minoritari); ed anche

b) l’assenza di un indebito vantaggio economico, posto che l’operazione economica “alternativa” a quella realizzata avrebbe avuto il medesimo carico fiscale di quella contestata dall’Amministrazione finanziaria.

Con particolare riguardo alla fattispecie di MLBO, occorre prendere atto che negli ultimi tempi si è sviluppata una giurisprudenza volta ad attribuire a tale operazione la sussistenza di valide ragioni economiche, portando ad escluderne la connotazione elusiva. Siffatto approccio, già palesato dalla Cassazione nel 2011 [18], si è diffuso tra i giudici di merito, i quali hanno ritenuto che «presupposto indispensabile per configurare l’elusione è in primisun “uso distorto” di strumenti giuridici attraverso la loro concatenazione e tale da fare conseguire vantaggi fiscali. Ma nel caso di specie tale uso distorto non è ravvisabile, dato che la “concatenazione” è in realtà insita nello stesso istituto del merger leveraged buy-out, operazione la cui liceità […] è espressamente riconosciuta dall’art. 2501-bis c.c.» [19].

Ma la definitiva fuoriuscita delle operazioni di MLBO dall’ambito dell’elusione/abuso è stata consacrata dalla stessa Amministrazione finanziaria, la cui Circolare n. 6/E del 30 marzo 2016 ha esplicitamente invitato gli Uffici ad abbandonare contestazioni in tal senso, rilevando che «le operazioni di MLBO vedono nella fusione (anche inversa) il logico epilogo dell’acquisizione mediante indebitamento, necessario anche a garantire il rientro, per i creditori, dell’esposizione debitoria. Di fatto, la struttura scelta, rispondendo a finalità extra-fiscali, riconosciute dal Codice Civile e, spesso, imposte dai finanziatori terzi, difficilmente potrebbe essere considerata finalizzata essenzialmente al conseguimento di indebiti vantaggi fiscali».

In conclusione, la statuizione della Suprema Corte deve salutarsi con favore in quanto conferma il recepimento giurisprudenziale del mutato approccio nei confronti dell’elusione/abuso, un istituto sicuramente fondamentale nell’armamentario a disposizione dell’Amministrazione finanziaria, ma che deve essere utilizzato in modo parco ed oculato, risultando centrale nella relativa applicazione l’effettiva dimostrazione dell’assenza di valide ragioni economiche e del contestuale ottenimento di un indebito vantaggio fiscale.

 


[1] Cfr. il leading case CGUE, Grande Sezione, 21 febbraio 2006, causa C-255/02 Halifax, in Racc. I-1655. Per una completa ed approfondita analisi del fenomeno, cfr. PIANTAVIGNA, P., Abuso del diritto fiscale nell’ordinamento europeo, Torino, 2011.

[2] Cfr. Cass. civ., Sez. Un., 23 dicembre 2008, n. 30055, n. 30056 e n. 30057, tutte su DeJure.

[3] Cfr. ex pluribus CORDEIRO GUERRA, R., MASTELLONE, P., The judicial creation of a general anti-avoidance rule rooted in the Constitution, in European Taxation, vol. 49, n. 11/2009, p. 511 ss.; FICARI, V., Clausola generale antielusiva, art. 53 della Costituzione e regole giurisprudenziali, in Rassegna Tributaria, vol. 52, n. 2/2009, p. 390 ss.; MAISTO, G. (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario. Orientamenti attuali in materia di elusione e abuso del diritto ai fini dell’imposizione tributaria, Quaderni della Rivista di Diritto Tributario, Milano, 2009, passim.

[4] Art. 5, Legge 11 marzo 2014, n. 23 (c.d. Delega fiscale). Sul punto, cfr. GIOVANNINI, A., L’abuso del diritto nella legge delega fiscale, in Rivista di Diritto Tributario, vol. 24, n. 3/2014, Parte I, p. 231 ss.

[5] Sul tema, cfr. AMPOLILLA, M., ROSSI, L., Elusione e abuso del diritto nelle operazioni di leveraged buy out, in MIELE, L: (a cura di), Il nuovo abuso del diritto. Analisi normativa e casi pratici, Torino, 2016, p. 199 ss.

[6] In dottrina, cfr. CINCOTTI, C., Merger leveraged buy-out, sostenibilità dell’indebitamento e interessi tutelati dall’ordinamento, in Rivista delle Società, n. 4/2011, p. 634 ss.

[7] In tal senso, TOFFOLETTO, A., La disciplina del leveraged buy-out, in AA.VV., La riforma del diritto societario, Atti del Convegno Paradigma, Milano, 12-13 dicembre 2001.

[8] Cfr., di recente, Trib. Milano, Sez. II, 14 agosto 2015, n. 9440, in De Jure, ha chiarito come «detto articolo non abbia ad oggetto la disciplina di qualunque fattispecie di fusione con indebitamento, ma solo quelle mediante le quali un soggetto mira ad ottenere il controllo, non disponendone dunque in precedenza, di una società: in tale senso appare deporre il dato testuale del primo comma […] entro un novero di fattispecie evidentemente più vasto e non illecito: e ciò al fine di imporre una disciplina più stringente, attesi i pregnanti obblighi informativi dettati dai commi successivi all’ipotesi in cui la fusione abbia quale finalità l’acquisizione del controllo, così configurandosi un intento di specifica tutela degli interessi degli azionisti di minoranza della società bersaglio».

[9] Cfr. Comm. Trib. Prov. Milano, Sez. I, 14 febbraio 2014, n. 1527, in Fisconline, la quale rilevava che «scopo della operazione è quello di pervenire ad un nuovo assetto societario mediante la sostituzione di soci, evidentemente non più interessati alla gestione societaria, con altri soci, costituito in prevalenza da fondo comune di investimento, apportatore di nuovi capitali e garante per ottenere nuovi finanziamenti bancari, destinati non solo a portare a termine l’operazione di MLBO mediante l’utilizzazione di una ridotta quantità di capitale di finanziamento e mediante una rilevante somma quale finanziamento infruttifero, ma destinati anche alla ristrutturazione del debito in capo al gruppo […]. Non vi è dubbio, inoltre, che l’operazione è avvenuta tra soggetti terzi, tra loro indipendenti; rispettando le condizioni di mercato; senza l’utilizzo di strutture societarie o enti localizzati in Stati esteri a fiscalità privilegiata; ha determinato un effettivo e incontestabile mutamento degli assetti societari; tali fatti sono già sufficienti e dimostrare che l’operazione non è stata effettuata al solo scopo di pervenire ad un risparmio di imposta».

[10] In questo senso, cfr. ex pluribus, Cass. civ., Sez. Trib., 30 novembre 2012, n. 21390, in DeJure; Cass. civ., Sez. Trib., 26 febbraio 2014, n. 4604, in DeJure, con nota di DI SIENA, M., Le valide ragioni economiche alla prova della resistenza della disciplina antielusiva: quando la motivazione è tutto, in Rassegna Tributaria, vol. 57, n. 3/2014, p. 632 ss. Da ultimo, la Suprema Corte è tornata sul punto in Cass. civ., Sez. Trib., 20 maggio 2016, n. 10458, in DeJure, ove ha statuito che «è ravvisabile elusione nell’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicché il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale».

[11] Cass. civ., Sez. Trib., 16 marzo 2016, n. 5155, in Fisconline.

[12] Cass. civ., Sez. Trib., 10 dicembre 2014, n. 25972, in DeJure.

[13] Cass. civ., Sez. Trib., 21 gennaio 2009, n. 1465, in DeJure.

[14] In questi termini, cfr. anche Cass. civ., Sez. Trib., 22 settembre 2010, n. 20029, in Diritto e Giurisprudenza Agraria, Alimentare e dell’Ambiente, vol. 21, n. 1/2012, p. 47 ss., con nota di ORLANDO, A., Contratti di soccida, elusione fiscale ed abuso del diritto, ivi, p. 48 ss.

[15] Così, VACCA, I., L’abuso e la certezza del diritto, in Corriere Tributario, vol. 37, n. 15/2014, p. 1136.

[16] Nella decisione, si legge, infatti, che «il nuovo art. 10-bis, “pur non essendo applicabile ratione temporis[…] rappresenta indubbiamente un termine interpretativo di riferimento sia pure in chiave evolutiva».

[17] Comma a mente del quale «non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente».

[18] Cass. civ., Sez. Trib., 21 gennaio 2011, n. 1372, in Fisconline, secondo cui «il carattere abusivo deve essere escluso per la compresenza, non marginale, di ragioni extra fiscali che non si identificano necessariamente in una redditività immediata dell’operazione, ma possono essere anche di natura meramente organizzativa, e consistere in miglioramento strutturale e funzionale dell’impresa. […] il sindacato dell’Amministrazione finanziaria non può spingersi ad imporre una misura di ristrutturazione diversa tra quelle giuridicamente possibili (e cioè una fusione) solo perché tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale. In particolare, non può essere considerata abusiva la scelta di mantenere in piedi un distinto soggetto giuridico, invece di dar luogo alla creazione di un unico soggetto, in quanto, tale scelta non appare artificiosa, né come tale poteva considerarsi soltanto perché comportava un maggiore risparmio fiscale».

[19] Così, Comm. Trib. Reg. Lombardia-Brescia, Sez. LXV, 11 luglio 2013, n. 96, in Fisconline. Nello stesso senso, cfr. ex pluribus Comm. Trib., Reg. Lombardia-Milano, Sez. XXXIV, 13 aprile 2011, n. 36, in Fisconlineessendo il ricambio dell’assetto proprietario di per sé una ragione economica lecita e conseguentemente valida ai fini fiscali che qui interessano, debbono considerarsi inerenti gli interessi passivi dell’operazione che, peraltro, non ha generato alcun risparmio di imposta»); Comm. Trib. Prov. Milano, Sez. LXIV, 2 dicembre 2014, n. 10694, in Eutekne; Comm. Trib. Prov. Milano, Sez. LXVII, 23 marzo 2015, n. 2737, in Eutekne; Comm. Trib. Prov. Milano, Sez. XXIV, 10 dicembre 2015, n. 9999, in Corriere Tributario, vol. 39, n. 14/2016, p. 1098 ss., con nota adesiva di ANTONINI, M., DI DIO, A., Legittimità fiscale delle operazioni di “merger leveraged buyout” per modifica dell’“assetto proprietario”, ivi, p. 1091 ss.; Comm. Trib. Prov. Milano, Sez. XXIV, 10 dicembre 2015, n. 10002, in Fisconlinel’operazione […] appare non solo come pienamente rispondente al modello legale di cui all’art. 2501-bis c.c., ma anche sostanzialmente finalizzata a realizzare, per il tramite di un istituto civilistico diretto proprio ad agevolare la contendibilità del controllo societario, l’ingresso di nuovi soggetti nella compagine sociale»).

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