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La tutela del consumatore di fronte alle clausole abusive: dalle pronunce della Corte di Giustizia alla sentenza della Cassazione a Sezioni Unite

27 Luglio 2023

Biagio Riccio, Avvocato

Clara Letizia Riccio, Avvocato

Di cosa si parla in questo articolo

Il contributo analizza la pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 9479 del 6 aprile 2023 che, in accoglimento del principio sancito dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la pronuncia del 17 maggio 2022, hanno rivisto la regola del giudicato in relazione alla tutela del consumatore.


Si può sostanzialmente ritenere che dopo la sentenza della Cassazione a sezioni unite del 6.4.2023 n.9479 in tema di nullità delle clausole abusive il consumatore, la parte più debole della relazione contrattuale, abbia avuto una tutela ad ampio spettro.

Infatti, il significato profondo della sentenza a sezioni unite è proprio quello di riconoscere una salvaguardia – seppur tardiva, ha ritenuto qualcuno – al consumatore per il quale il giudice dell’esecuzione dovrà sospendere la vendita forzata, anche se il titolo esecutivo su cui essa si fonda sia passato in giudicato.

Come noto la sentenza a sezione unite degli Ermellini prende l’abbrivio dalle quattro pronunce della Grande Corte di Giustizia Europea del 17.05.2022. E nell’intelaiatura campeggia proprio la necessità di trovare un equilibrio tra il principio dell’autonomia processuale con le norme e le pronunce eurocomunitarie.

La tutela del consumatore nella giurisprudenza europea: artt. 6, 7 dir. 93/2013.Il principio di effettività di matrice europea.

È principio noto che la sensibilità del legislatore europeo si sia prodigata, nel corso del tempo, nei confronti dei consumatori, approntando così una vera e propria tutela consumeristica sia in ambito sostanziale, quanto in quello processuale. Tale salvaguardia del consumatore è stata cesellata nella direttiva n. 93 del 2013, nel corpus della quale la tutela esplicantesi riguarda propriamente la presenza di clausole vessatorie nei contratti la cui controparte è un professionista: tale dettato legislativo costituisce la vera e propria roccaforte al fine di garantire l’equità del mercato interno.

Il  fulcro pulsante della direttiva si rintraccia nell’art. 6, par. 1°, di detta direttiva[1]: si comprende dunque che  il consumatore sia ontologicamente la parte debole del rapporto contrattuale, trovandosi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista: ne deriva che lo scopo precipuo di tale normativa non è altro che eliminare le suddette clausole abusive dai contratti e disincentivare quanto più possibile il loro utilizzo da parte delle imprese, al fine di «favorire il mercato, proteggere la concorrenza e dunque il ciclo economico globale, sanzionando le eventuali pratiche illegittime[2]».

Al netto di quanto finora esposto, appare lapalissiano che il compito del giudice consista non solo nella disamina minuziosa delle previsioni contrattuali, ma anche nell’abolizione d’ufficio di quelle clausole compromissorie.

Qualora ciò accada, verrebbe all’attenzione il principio di effettività, in omaggio al quale, in primis, il giudice è tenuto ad interpretare il diritto nazionale in conformità al diritto dell’Ue e «per quanto possibile, alla luce del testo e della finalità di tale direttiva per giungere ad una soluzione conforme all’obiettivo perseguito da quest’ultima[3]»; in secondo luogo, qualora risulti eccessivamente difficoltoso interpretare il diritto interno congruamente a quello eurocomunitario, l’organo giudicante è onerato dell’obbligo di rimuoverlo e fondare la propria decisione direttamente su quanto statuito dal legislatore europeo[4].

Ne discende che la disapplicazione concerne anche le norme processuali, soprattutto laddove il diritto nazionale non preveda la valutazione d’ufficio delle clausole abusive oppure addirittura le impedisca[5].

Dunque, riguardo al principio della cosa giudicata, se è vero che quest’ultimo «deve essere rispettato essendo principio dell’ordinamento europeo e degli Stati membri e che la tutela del consumatore costituisce una norma di ordine pubblico, nel bilanciamento di tali due garanzie, nel rispetto dell’effettività della tutela, la regola dell’autorità di cosa giudicata non può limitare in modo sproporzionato o eccessivo i ricorsi ovvero impedire il controllo d’ufficio in merito al carattere abusivo delle clausole contrattuali[6]». Questo è stato il dettame ispiratore della pronuncia Banco Desio del 17 maggio 2022.

Il ruolo del Giudice del monitorio. La necessità di un controllo d’ufficio delle clausole abusive.

Ben si comprende, perciò, come il giudice eurocomunitario, nella pronuncia del 17 maggio 2022, muova dall’inveterata, seppur giustificata, convinzione secondo la quale tra professionista e consumatore sussista sempre un’ontologica situazione di squilibrio, anche nell’ipotesi in cui entrambi dispongano di una difesa tecnica[7].

Alla luce di quanto sopra riportato, pure si comprende l’indirizzo secondo il quale non occorre solamente sancire, in linea generale ed astratta e con disposto avente natura imperativa, la non vincolatività della clausole vessatorie per il contraente debole; si pone come necessaria, per contro, pure la verifica da parte dell’organo giudicante – anche senza sollecitazione ad opera della parte interessata – della concreta presenza di clausole abusive nel vincolo contrattuale c.d. b2c. Dunque, una volta appurata tale ricorrenza, il giudice deve darne adeguatamente conto nella motivazione del provvedimento[8].

A tal riguardo, autorevole dottrina sostiene che il metro di misura di una tutela del consumatore, che possa qualificarsi come effettiva, vada ravvisato proprio nel controllo giudiziale[9] circa la vessatorietà di talune previsioni contrattuali, «finalizzato a stimolare il consumatore ad assumere le proprie determinazioni sul se avvalersi della prospettata abusività, colmando così, con il c.d. diritto all’interpello, il deficit informativo del contraente debole sulle proprie facoltà difensive[10]». Sicché appare indispensabile il richiamo ad un’ulteriore voce dottrinale, secondo cui «il sistema delle tutele a favore del consumatore va letto dalla specola della condizione di fisiologica “sudditanza” nella quale versa il consumatore, il quale, vuoi per un minore potere contrattuale in sede di trattativa, vuoi per un minore grado di informazione, si trova ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista, senza potere in qualche misura incidere sul contenuto delle clausole contrattuali[11]».

Al fine di scongiurare il dipanarsi di clausole connotate da vessatorietà all’interno del rapporto contrattuale, la Corte di Lussemburgo ha deputato il controllo di cui sopra anche al giudice dell’esecuzione: se tale impostazione, da un punto di vista prettamente interno, si prospetta come rivoluzionaria, come un vulnus che il giudice eurocomunitario ha inferto al principio di autorità della cosa giudicata[12], tale portata dirimente trova il medesimo riscontro nella giurisprudenza europea, come sopra ribadito.

Pertanto, qualora la clausola abusiva non infici il complessivo ordito contrattuale, è sufficiente depennarla, eliminarla, mentre la restante parte del contratto mantiene il proprio carattere vincolante, a patto che ciò sia giuridicamente possibile. Ne discende la celebre definizione di “nullità di protezione”, in quanto si preserva la parte debole del regolamento d’interessi.

Per di più, il principio di conservazione del contratto si spiega anche alla luce del rilievo in ordine al quale, se il rapporto contrattuale fosse del tutto caducato, tale completa invalidazione potrebbe nuocere, ed anche in maniera incisiva, allo stesso consumatore che sarebbe impossibilitato a godere dei servizi derivanti da tale assetto contrattuale. Tant’è vero che, «la nullità totale del contratto dovrebbe restare una soluzione del tutto residuale, verificabile solo nell’ipotesi in cui il consumatore preferisca liberarsi dal vincolo contrattuale o qualora non sia possibile individuare alcuna tecnica di modifica del contratto capace di ristabilire efficacemente l’equilibrio alterato[13]».

La fisionomia protezionistica delle nullità in commento, tuttavia, rinviene la sua scaturigine nella volontà del consumatore, potendo egli scegliere liberamente di non invocare la natura abusiva e non vincolante delle clausole vessatorie: in tal caso, l’obbligo del giudice nazionale ex art. 6, par. 1, dir. 93/13 viene meno[14].

Il procedimento del monitorio e il controllo sulle clausole vessatorie

Tornando a quanto statuito dal giudice unionale, per esplicare al miglior modo la tutela del consumatore, il riscontro circa l’abusività di talune clausole vessatorie presenti nel contratto è deferito al giudice del monitorio, configurandosi come un vero e proprio obbligo incombente nei suoi confronti, poiché «imprescindibile per l’effettiva attuazione dello statuto professionistico del consumatore[15]». A tal fine, infatti, è necessario che il succitato organo giudicante abbia piena consapevolezza degli elementi di fatto o di diritto che gli permettano di scrutinare con certosina scrupolosità l’eventuale abusività di talune previsioni contrattuali, potendo, quindi, anche disporre misure istruttorie, qualora occorra: a titolo esemplificativo, nel procedimento monitorio italiano, il giudice potrà chiedere al creditore di depositare copia del contratto ex art. 640, primo comma, c.p.c., sebbene, secondo autorevole scuola di pensiero, una lettura “moderna” di tale disposto «dovrebbe permettere al giudice anche di convocare il creditore, onde assumere, in un contraddittorio orale, non solo fonti di prova, ma pure chiarimenti sui quali formare il suo convincimento[16]».

Vale la pena rimarcare che si è pur sempre nel territorio di un procedimento inaudita altera parte, in cui fisiologicamente manca il contraddittorio. Tale intrinseca peculiarità è foriera del fatto che il giudice, qualora constati la ricorrenza di clausole vessatorie, non dovrà solo rilevarle, ma anche dichiararne la nullità ai sensi della dir. 93/13, secondo quanto prescritto dalla legge europea. Tale dettame è stato contemplato anche in una pronuncia del 2005 della nostra Corte costituzionale: secondo il giudice delle leggi, il giudice italiano del procedimento monitorio ha capacità di rilevare ex officio le eccezioni in senso lato, ma anche quelle in senso stretto che in un giudizio a cognizione piena ed esauriente sarebbero riservate alla sola parte, quale è in particolare l’eccezione di incompetenza territoriale derogabile[17], al fine di non emettere un decreto ingiuntivo con la consapevolezza che si tratta di provvedimento viziato che costringerà l’ingiunto a proporre opposizione. Quella facoltà diviene un obbligo quante volte si tratti di credito relativo ad un contratto tra consumatore e professionista e occorra pertanto valutare la presenza, nel medesimo, di eventuali clausole abusive ai sensi della dir. 93/13[18].

È in tale sede che affiorano i principi eurocomunitari di equivalenza e di effettività che disvelano la propria azione a protezione della pars debilior del contratto: il primo canone impone che le modalità procedurali per far valere i diritti di derivazione europea non siano meno favorevoli di quelle relative a situazioni analoghe di natura interna; il secondo postula che la tutela di tali diritti avvenga tramite strumenti che non siano tali da renderne impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio. In applicazione del principio di effettività, la Corte di giustizia ha risposto alla giurisprudenza nostrana e a taluna dottrina aderenti all’idea secondo cui la tutela del consumatore poteva consumarsi in sede di cognizione ordinaria, bastando, a tal proposito, sollevare opposizione a decreto ingiuntivo. I giudici di Lussemburgo hanno ritenuto che tale rimedio «non costituisce uno strumento giurisdizionale effettivo per la tutela dei diritti derivanti dalla Dir. 93/13[19], quante volte sussista un rischio che il consumatore non si attivi giudizialmente in considerazione delle spese processuali che l’opposizione comporterebbe ovvero perché la normativa nazionale non prevede che gli siano trasmesse tutte le informazioni necessarie per consentirgli di determinare quali sono le conseguenze della sua eventuale inerzia[20]». Ne discende che, secondo il giudice europeo, «l’opposizione a decreto ingiuntivo è un rimedio che non può mai sostituire l’obbligo di controllo, da parte del giudice del procedimento monitorio, del contenuto di tutte le clausole del contratto da cui il credito del professionista deriva[21]».

Per di più, una volta effettuata la verifica circa la vessatorietà o meno delle previsioni contrattuali, l’organo giudicante dovrà darne atto nella motivazione a corredo del decreto ingiuntivo. In particolare, la Corte eurounitaria ha ribadito tale regola nella sentenza del 17 maggio 2022, confortando quella corrente di pensiero secondo cui la motivazione medesima assume un ruolo di cruciale importanza non solo «per la protezione del consumatore – che deve essere messo in condizioni di valutare con cognizione di causa se proporre tempestiva opposizione a decreto ingiuntivo per censurarne eventuali errori – ma anche per il creditore-professionista che, solo in tal modo, non correrà il rischio che il titolo esecutivo giudiziale sia considerato insussistente o il credito ridotto nell’importo in sede esecutiva[22]». Oltretutto, il giudice è anche onerato di specificare che «in assenza di opposizione entro il termine stabilito dal diritto nazionale, il consumatore decadrà dalla possibilità di far valere l’eventuale carattere abusivo di siffatte clausole[23]».

Ciononostante, anche il controllo officioso operato dal giudice incontra taluni incalzanti limiti: secondo la giurisprudenza del Kirchberg, infatti, «solo le clausole contrattuali che sono connesse all’oggetto della controversia quale definito dalle parti alla luce delle loro conclusioni e dei loro motivi, rientrano nell’obbligo di esame d’ufficio incombente al giudice nazionale adito[24]». Restringendo il campo, le clausole che sovente sono tacciate di abusività si suddividono in due macro tipologie: in primis, la deroga al foro del consumatore; in secundis, la previsione di interessi moratori fin troppo elevati.

Gli effetti della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 17.05.2022 nel diritto interno.

Per scandagliare nel dettaglio la proiezione nel diritto interno del dettame della sentenza della Corte di giustizia del maggio 2022, è d’uopo partire dal presupposto concernente quanto statuito dal legislatore unionale nella dir. 93/13: quest’ultima, in particolare, non contrasta con le normative interne degli Stati che, in presenza di decisioni emesse a conclusione di giudizi a cognizione piena aventi ad oggetto anche l’esame dell’abusività delle clausole[25], e successivamente passate in giudicato, impediscano di rilevare nuovamente d’ufficio la questione in eventuali giudizi successivi[26].

Da quanto anzidetto emerge in modo netto che il punctum dolens della questione non riguarda l’estensione del giudicato alle clausole vessatorie; al contrario, inerisce all’attitudine dei provvedimenti emessi a conclusione di giudizi sommari ad acquisire l’immutabilità di una res iudicata, impedendo in tal modo un nuovo esame della problematica.

Prescindendo dalla suddetta decisione dei giudici di Lussemburgo, occorre rimarcare che il riconoscimento dell’autorità di cosa giudicata al decreto ingiuntivo, quando non viene sollevata opposizione, ha sempre suscitato accesi dibattiti in dottrina e in giurisprudenza.

Ben si comprende come la Corte di legittimità, seppur criticata dalla dottrina, abbia sempre assimilato il decreto monitorio non opposto ad una res iudicata vera e propria, sia in omaggio al principio di economia processuale, sia in virtù della formulazione letterale di talune norme del codice di procedura civile: in special modo, gli artt. 650 e 656 c.p.c., il primo dei quali, in relazione all’opposizione tardiva, non troverebbe giustificazione se il decreto non avesse carattere stabile; il secondo ne decreta l’impugnabilità solo con i mezzi straordinari della revocazione e dell’opposizione, tipicamente utilizzati per le decisioni aventi carattere di giudicato.

Nel caso di specie, il giudice eurocomunitario secondo cui se il titolo esecutivo è rappresentato da un decreto ingiuntivo non opposto, il giudice dell’esecuzione è tenuto a rilevare per la prima volta il carattere abusivo delle clausole inserite nei contratti stipulati tra professionisti e consumatori[27].

La Corte di giustizia, senza ombra di dubbio, in applicazione del canone dell’effettività, «è chiaramente orientata verso una maggiore tutela del consumatore nelle ipotesi in cui la stabilità del giudicato – idonea a coprire anche l’eccezione rilevabile d’ufficio dell’abusività delle clausole – attiene ad un provvedimento emesso all’esito di un giudizio privo di spazi per il giudice di esercitare il suo potere. Essendo la fase sommaria del procedimento monitorio finalizzata all’emissione del decreto, il giudice non ha i mezzi né i modi per svolgere quel tipo di controllo, il quale è rinviato all’eventuale svolgimento del giudizio di opposizione[28]».

Il controllo officioso in sede esecutiva: potere di rilievo o anche di decisione del Giudice dell’esecuzione al cospetto di clausole vessatorie coperte dal giudicato?

Secondo autorevole dottrina, nelle intenzioni dei giudici di Lussemburgo, il ricorso al giudice dell’esecuzione, affinché quest’ultimo verifichi circa l’abusività delle clausole, si configura come una vera e propria extrema ratio, come «l’ultima strada rimasta percorribile dal consumatore[29]». In altri termini, nella fattispecie in cui al giudice dell’esecuzione sia demandato l’accertamento della sussistenza o meno di previsioni contrattuali dal carattere vessatorio, indubbiamente si è al cospetto di un’evenienza patologica, presupponendosi che tale doveroso controllo non sia stato eseguito dal giudice del monitorio, non riscontrandosi, al riguardo, alcuna motivazione[30].

Tale assetto ermeneutico trova conforto nell’ulteriore pronuncia della Corte di giustizia[31], emanata anch’essa il 17 maggio 2022[32].

Nelle more della decisione del giudice eurocomunitario, trova spazio un’ulteriore pregevole voce dottrinale, meritevole di aver posto in risalto l’immancabilità della verifica dell’abusività delle clausole contrattuali. In particolare, tale corrente si fonda sull’ interpretazione secondo la quale, «in presenza dei presupposti che rendono estremamente difficoltoso in un procedimento monitorio la tutela dei diritti del consumatore, il mancato controllo officioso dell’abusività delle clausole impedisce il formarsi di quella preclusione che è presupposto del giudicato[33]». In tal senso, si ricalca quanto la CGE ha statuito, e cioè la necessità di riconoscere allo stesso g.e. il potere di riesame e di sospensione dell’esecuzione, in caso di riscontro della natura abusiva delle clausole[34].

Appurato ciò, è sorto uno spinoso interrogativo – foriero di un dibattito nell’ambito della dottrina italiana – alla cui risoluzione hanno provveduto le Sezioni unite della Corte di Cassazione lo scorso 6 aprile 2023. La vexata quaestio riguardava il quesito in ordine al quale se il G.E fosse legittimato solo a rilevare la vessatorietà delle clausole o se, al contrario, potesse anche dichiarare la relativa nullità delle stesse, nella circostanza in cui il consumatore avesse deciso di avvalersene.

I rimedi suggeriti dalla dottrina in ambito esecutivo

Molteplici sono le opinioni offerte dalla dottrina per dirimere il dubbio di cui sopra. In prima battuta, il panorama dottrinale si è scisso tra coloro i quali hanno individuato la soluzione nelle more del processo esecutivo e coloro i quali, al contrario, si sono rapportati al solo giudizio a cognizione ordinaria. In particolare, la prima scuola di pensiero, a sua volta, ha profilato due possibili rimedi consistenti, il primo, nello svolgimento di un incidente di cognizione innanzi al giudice dell’esecuzione[35]; il secondo, nella proposizione di un’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., deferita al medesimo giudice dell’esecuzione[36].

Fin da subito, è opportuno rilevare che le soluzioni anzidette non hanno incontrato alcun favore nell’alveo dottrinale, essendo esse circoscritte alla sola procedura esecutiva: immediatamente si è focalizzata l’attenzione sul dato in ordine al quale il consumatore subirebbe l’azione esecutiva, senza poter indire la propria difesa in relazione all’abusività delle clausole e all’invalidità del titolo speso nei suoi confronti. Ma vi è di più: non bisogna trascurare il fatto che il creditore potrebbe porre in essere, nel medesimo arco di tempo, innumerevoli espropriazioni forzate anche su beni differenti[37]. Nel corpus del processo esecutivo, il consumatore non godrebbe della doverosa tutela che gli spetta, esponendo così il fianco ad un grave pericolo che potenzialmente si abbatterebbe sul suo patrimonio.

Ma andiamo con ordine.

In relazione al filone di pensiero riguardante l’incidente di accertamento avanti al giudice dell’esecuzione, questo crolla sotto l’egida dei principi del giusto processo. Ciò, dal momento che il contraddittorio, articolandosi in forme alquanto semplificate, non riesce a far fronte all’esigenza di un confronto tra le due parti che sia esaustivo e soddisfacente; inoltre, il diritto di difesa sia del consumatore che del professionista subisce non poche menomazioni; ancor di più, al g.e. non sono attribuiti poteri istruttori officiosi alla stregua della previsione ex art. 640 c.p.c.

Tuttavia, il vero tallone d’Achille si ravvisa in un altro aspetto annichilente: tale incidente di cognizione endoesecutivo non potrebbe costituire la panacea per il consumatore, dal momento che la decisione che sarebbe promanata dal giudice dell’esecuzione avrebbe efficacia esclusivamente endoprocedimentale, non essendo così idonea al giudicato e compromettendo incisivamente la posizione della parte contraente debole[38].

Per quanto attiene al rimedio dell’opposizione all’esecuzione, avanzata dal consumatore o suggerita dal giudice dell’opposizione, anche tale discettazione dottrinale è stata bersaglio di pioventi critiche: in prima istanza, «nel caso in cui le clausole vessatorie non attengano al merito del rapporto, ma alla formazione del titolo ad opera del giudice monitorio (ad esempio, le clausole di competenza), deve giocoforza ritenersi nullo il titolo stesso e improcedibile l’esecuzione: se così non fosse, il consumatore non sarebbe in alcun modo tutelato – giacché l’opposizione all’esecuzione per ragioni di merito, ossia di inesistenza del rapporto obbligatorio, non lo proteggerebbe in alcun modo[39]». Né può tralasciarsi il rilievo in ordine al quale il giudice unionale ha ritenuto che il giudice chiamato a vagliare la non-vessatorietà di un atto non si possa limitare a suggerire al consumatore un’eccezione – rectius: un’opposizione – ma debba procedere d’ufficio a trarre tutte le conseguenze giuridiche dell’abusività[40].

I rimedi nell’ambito dei giudizi a cognizione ordinaria: l’actio nullitatis

Nell’ambito dei giudizi a cognizione ordinaria, due sono le alternative che sono state prospettate dalla dottrina e che hanno raccolto un non indifferente consenso: l’actio nullitatis e l’opposizione a decreto ingiuntivo ordinaria, ai sensi dell’art. 645 c.p.c. o tardiva ex art. 615 c.p.c.

Riguardo al primo rimedio, caldeggiato soprattutto dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione nel precedente processo confluito poi nelle Sezioni unite, la tesi a sostegno partiva dal presupposto in ordine al quale «l’intervento del giudice dell’esecuzione non potrà giammai riguardare il titolo giudiziale in sé, pena la violazione dell’ordine pubblico processuale, e allora si spiega coerentemente la scelta di limitarsi, da parte sua, di assegnare alla parte debitrice un termine, o meglio concedere un rinvio, affinché la stessa proponga in altra sede un giudizio (actio nullitatis) in cui far valere la ridetta abusività e per l’effetto ottenere eventualmente una tutela cautelare[41]».

Senza ombra di dubbio, bisogna riconoscere che tale scuola di pensiero poggia le proprie fondamenta sul principio dell’autonomia processuale dello Stato, in applicazione del quale, quantunque la Corte di giustizia deferisca il controllo circa l’abusività delle clausole e il potere sospensivo al giudice dell’esecuzione, la scelta di rimettere la decisione della quaestio al giudice di cognizione ordinaria appare alquanto «soddisfacente sotto il profilo della “tenuta” del sistema. Tuttavia, nemmeno tale impostazione è esente da dirompenti disapprovazioni: non si può fare a meno di riportare quel filone dottrinale secondo cui «il punto debole di questa proposta è quello per cui l’actio nullitatis, in quanto avente un oggetto che è un minus rispetto alla minima unità azionabile nel processo civile, ossia la mera dichiarazione di abusività di una o più clausole contrattuali e non già l’accertamento della validità ed efficacia di un intero contratto, dovrà necessariamente fondarsi su una previsione normativa ad hoc che consenta l’instaurazione di un giudizio avente siffatto oggetto (come accade, ad esempio, per il giudizio di querela di falso)[42]».

A tal proposito, va rimarcato oltremodo che un’ulteriore voce dottrinale pone all’attenzione una peculiare caratteristica dell’actio nullitatis, configurandosi quest’ultima come «uno strumento, del tutto residuale, deputato a far valere la cosiddetta inesistenza giuridica o la nullità radicale di un provvedimento decisorio: situazioni abitualmente ravvisate, quando il provvedimento sia stato erroneamente emesso dal giudice carente di potere oppure vada qualificato come abnorme, in quanto privo dei requisiti essenziali per la sua riconoscibilità come atto processuale di quel tipo, ma escluse ogni qualvolta si adducano vizi attinenti al contenuto ed al merito del provvedimento[43]». Tant’è vero che «l’actio nullitatis è un rimedio esperibile non in relazione alla fattispecie sostanziale, ma nei confronti del provvedimento giurisdizionale, che si assume non riconducibile al relativo modello legale. Anche a voler seguire la strada dell’ordinaria azione di accertamento negativo rivolta al provvedimento, non si vede quale sia l’inesistenza giuridica o la nullità radicale che attingano il decreto ingiuntivo in questione[44]».

La decisione della Cassazione a Sezioni unite: i pareri discordanti della dottrina

È principio noto che le decisioni dei giudici di Lussemburgo assumono il rango di fonti di diritto eurounitario: indi ragion per cui, dispiegano un effetto vincolante e diretto nel nostro ordinamento, ai sensi degli artt. 11 e 117 della Costituzione, così come peraltro asserito anche dalla nostra Corte costituzionale[45].

Tale assioma è stato ribadito anche nella sentenza della Corte di legittimità.

Adeguandosi al dettato dei giudici di Lussemburgo, la Suprema Corte ha asserito che incombe sul giudice del monitorio «il dovere di esaminare d’ufficio il carattere abusivo della clausola contrattuale e di dare conto degli esiti di siffatto controllo». Per amor di precisione, autorevole dottrina[46] pone all’attenzione come tale dettato normativo fosse, a onore del vero, già presente nella disciplina relativa al procedimento monitorio, ai sensi degli artt. 633 – 644 c.p.c., a norma dei quali non solo il giudice del monitorio ha l’onere di verificare i presupposti di fatto e di diritto della concessione dell’ingiunzione, e quindi anche la validità o meno delle clausole contrattuali in forza delle quali l’ingiunzione è richiesta, ma, ex art. 641 c.p.c., deve anche motivare il decreto ingiuntivo che sarà emesso, dando così atto «della sussistenza dell’esame, in base al quale il giudice ha ritenuto che le clausole in discussione non hanno carattere abusivo».

Per di più, nella fattispecie in cui il controllo anzidetto viene effettuato, il provvedimento monitorio suddetto deve oltremodo informare il consumatore del fatto che, qualora egli non proporrà opposizione, «non potrà più far valere l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto e il decreto non opposto diventerà irrevocabile».

Ben si comprende come, nel conformarsi alla decisione della CGE, gli ermellini, sotto il profilo appena analizzato, non abbiano rinvenuto alcun ostacolo nel modello processuale di diritto interno: la stessa affermazione, di converso, non potrebbe essere formulata in merito alla seconda parte della pronuncia del Supremo consesso. Tant’è vero che, nell’evenienza in cui l’organo giudicante non abbia passato in rassegna la vessatorietà o meno delle previsioni contrattuali e, pertanto, abbia mancato di addurre la pertinente motivazione, il decreto ingiuntivo non opposto non acquisisce autorità di cosa giudicata: tale è il vero e spinoso punctum dolens.

In altri termini, la Suprema Corte ha dovuto scardinare il fondamentale assioma in ragion del quale il passaggio in giudicato del decreto monitorio dipendeva solo e soltanto dall’inerzia del consumatore, dal momento che quest’ultimo non aveva proposto opposizione. Al contrario, nell’osservare la statuizione del giudice unionale, si dà atto del rilievo in ordine al quale, in primis, il consumatore non sia in grado di difendersi, se il provvedimento in esame non menziona espressamente che il giudice abbia controllato d’ufficio l’inesistenza di clausole abusive; inoltre, il debitore è legittimato a sollevare in sede di esecuzione eccezioni relative al carattere vessatorio di talune pattuizioni contrattuali. Sicché, si è al cospetto di un tangibile stravolgimento interpretativo che, per la prima volta, privilegia la vera parte debole, tralasciando i meccanicismi formali che si inerpicano alla sola regola scritta e non contemplano l’autentica tutela sostanziale.

Ma i giudici di Piazza Cavour vanno anche oltre, tratteggiando passo passo il procedimento in virtù del quale il consumatore, seppur scaduti i termini per presentare opposizione ex art. 645 c.p.c., possa avanzare l’eccezione in sede esecutiva. In accordo a quanto profetizzato da pregevole dottrina, essi hanno privilegiato l’istituto dell’opposizione tardiva di cui all’art. 650 c.p.c.: in particolare, nelle ipotesi in cui «il debitore-consumatore dimostri che, a causa del mancato esercizio dei poteri ufficiosi del giudice del monitorio, non abbia potuto consapevolmente prendere in considerazione l’opportunità di proporre l’opposizione tempestiva», ciò «sembra possa atteggiarsi alla stregua di causa non imputabile o di causa di forza maggiore, ovvero di circostanza impediente», con un allargamento della nozione contemplata ex art. 650 c.p.c.

Ancor di più, le Sezioni unite hanno altresì aggiunto che il termine di 10 giorni dal primo atto di esecuzione quale termine ultimo per avanzare opposizione tardiva ai sensi del 3° comma dell’art. 650 c.p.c. non sarebbe congruo: indi ragion per cui, il termine assegnato al debitore, onde rilevare la vessatorietà delle clausole, ammonta a 40 giorni, e non a 10. Inoltre, è stato rimarcato che prima della scadenza di detto termine il giudice non possa procedere alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito pignorato, e che qualora il consumatore presenti un’opposizione all’esecuzione ex art. 615, 1° comma c.p.c. – e non ai sensi dell’art. 650 – «il giudice adito riqualificherà l’opposizione come opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimetterà la decisione al giudice di questa, fissando un termine non inferiore a 40 giorni per la riassunzione».

È tangibile che il calibro della riportata sentenza abbia posto in essere un’epocale resurrezione del principio della giustizia sostanziale a discapito del dettame di economia processuale succitato. A tal riguardo, è immancabile il riferimento al pensiero di un illustre giurista, secondo il quale, alla luce della decisione della CGE, si è prospettata «l’occasione per rivedere, a diritto positivo invariato, l’orientamento della giurisprudenza consolidata sull’estensione del giudicato derivante dal decreto ingiuntivo non opposto[47]», dal momento che appare del tutto «irragionevole ritenere che – a dispetto di quanto sostenuto dalla giurisprudenza – un titolo emesso senza previo contraddittorio possa attingere gli stessi risultati della sentenza passata in giudicato anche sui “presupposti impliciti” e “logicamente necessari”[48]». In particolare, tale scuola di pensiero fa leva sul rilievo in ordine al quale «nessuna norma del procedimento speciale parla mai della formazione del giudicato sul decreto ingiuntivo, perché il fenomeno regolato, e che continuamente riemerge nella disciplina speciale degli artt. 633 ss. c.p.c., è unicamente quello dell’esecutorietà del decreto[49]». Indi ragion per cui, si avalla la corrente dottrinale secondo cui tale pronuncia della Corte di legittimità non sia limitata ad interpretare il diritto, bensì a crearlo, «piegando alle necessità del caso “consumeristico” una serie di istituti processuali che, sinora, avevano ricevuto una diversa applicazione[50]». A tal proposito, «un dato risulta chiaro: la Corte ha fatto quel che avrebbe potuto fare il legislatore, posto che siamo ben oltre la mera interpretazione del diritto esistente (anche di matrice “giurisprudenziale”). Ha fatto ciò che normalmente non fa la Corte costituzionale, quando si arresta dinanzi al potere discrezionale del legislatore, cui implicitamente rinvia la soluzione del caso[51]».

Sulla scia di quanto anzidetto, a ragion veduta, alcuni commentatori sostengono che il provvedimento in esame si configuri come l’immanente svolta, il segno del passaggio dal civil law al common law, essendo «la decisione del caso concreto», dal momento che prescinde «da una visione sistematica dell’ordinamento, perché le argomentazioni addotte non potrebbero mai essere utilizzate quali principi generali da applicare a casi diversi rispetto a quello oggetto della decisione; è una sentenza che non si limita ad interpretare le norme, bensì le crea, ponendosi inevitabilmente in questo modo quale fonte di diritto, e quindi superando i limiti tradizionali della civil law[52]». In altri termini, questa rivoluzionaria decisione non fa altro che avallare quella categoria di pensiero secondo cui «le regole processuali, di nuovo conformemente alla common law e in contraddizione con la civil law, non possono determinarsi a priori, ma vanno regolamentate caso per caso, ed anzi rimesse alla determinazione del giudice, piuttosto che a quelle del legislatore[53]».

Ancor di più, v’è chi sostiene la tesi in ragion della quale si sia al cospetto di un nuovo istituto, facendo leva «sull’ampiezza del termine per l’opposizione consumeristica che, a differenza dei dieci giorni successivi “al primo atto di esecuzione” di cui all’art. 650 c.p.c., consente la reazione del debitore in quaranta giorni, sulla falsariga dell’opposizione tempestiva ex art. 641 c.p.c., restituendo così all’ingiunto l’operatività di questo rimedio[54]». In altri termini, secondo tale scuola di pensiero, il Supremo Consesso non avrebbe fatto altro se non consacrare come una vera e propria norma l’opposizione ultra-tardiva, avente prerogative per nulla collimanti con la classica opposizione tardiva a decreto ingiuntivo.

Sul piano della meritevolezza si dovrà di converso ritenere che la tutela approntata per il consumatore sia estesa anche al non consumatore, rispetto al quale non si comprende perché il giudicato (dato da un decreto ingiuntivo non opposto) debba, paradossalmente, coprire, oltre al dedotto, anche il deducibile.

Ma questo è un discorso diverso, altro, Significa, in realtà, andare a superare le colonne d’Ercole.

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[1] «Gli Stati membri prevedono che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolano il consumatore, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, e che il contratto resti vincolante per le parti secondo i medesimi termini, sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive»

[2] Ibidem.

[3] Cfr. Corte giust., 30 aprile 2014, causa C-26/13, Kásler e Káslerné Rábai, punto 64.

[4] Cfr. Corte giust., 9 marzo 1978, causa C-106/77, Simmenthal, punti da 21 a 26.

[5] Cfr. Corte giust., 28 luglio 2016, causa C-168/15, Milena Tomášov: la Corte di Lussemburgo ha asserito in merito che, a determinate condizioni, gli Stati membri sono responsabili di risarcire i consumatori per i danni causati dal fatto che un tribunale di ultimo grado, nonostante avesse l’obbligo di farlo ai sensi della direttiva, non abbia valutato d’ufficio le relative clausole contrattuali, anche qualora non vi sia una norma esplicita a tal riguardo nell’ordinamento interno.

[6] In tal senso, C. Rasia, Giudicato, tutela del consumatore, ruolo del giudice, cit., 76.

[7] Si veda Corte giust., 11 marzo 2020, Lintner, causa C-511/17, punto 28 della motivazione.

[8] In tal senso, R. Rossi, Clausole abusive e decreto ingiuntivo non opposto: il consumatore alla ricerca del rimedio effettivo, in Diritto della crisi, fasc. 1/2023, 5 ss.

[9] Cfr. Corte giust., 11 marzo 2020, Lintner, causa C-511/17, cit.

[10] In tal senso, R. Rossi, Clausole abusive e decreto ingiuntivo non opposto, cit., 22.

[11] Così S. Caporusso, Decreto ingiuntivo non opposto ed effettività della tutela giurisdizionale: a proposito di due recenti rinvii pregiudiziali, in Nuove leggi civ. comm., 2020, 1265 ss.

[12] In questi termini, A. Garofalo, Decreto ingiuntivo non opposto e protezione del consumatore dalle clausole vessatorie, in Nuova giur. comm., 1/2023, 86 ss.

[13] Così B. Cordelli, L’interesse del consumatore tra nullità di protezione e integrazione del contratto, in Diritto e processo, 2020, 171 ss.

[14] Così Corte giust., 4 giugno 2009, Pannon GSM.

[15] Si vedano Corte giust., 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito; Corte giust., 26 gennaio 2017, Banco Primus.

[16] In tal senso, A. Garofalo, Decreto ingiuntivo non opposto, cit., 91.

[17] Cfr. Corte cost., 3 novembre 2005, n. 410.

[18] Così E. D’Alessandro, Il decreto ingiuntivo non opposto emesso nei confronti del consumatore dopo Corte di giustizia, grande sezione, 17 maggio 2022: in attesa delle Sezioni Unite, in Pacini giuridica.

[19] Si veda Corte giust., 14 giugno 2012, Banco Español de Crédito, causa C-618/10, punto 54 della motivazione; Corte giust., 28 settembre 2018, Danko e Danková, causa C-448/17, punto 46 della motivazione.

[20] Cfr. E. D’Alessandro, Il decreto ingiuntivo non opposto emesso nei confronti del consumatore, cit., passim.

[21] Ibidem.

[22] Ibidem.

[23] Così Corte giust. 17 maggio 2022, Ibercaja Banco.

[24] Così Corte giust., 11 marzo 2020, Györgyné Lintner.

[25] Si veda Corte giust., 26 gennaio 2017, Banco Primus.

[26] In tal senso, N. Minafra, L’autorità di giudicato del decreto ingiuntivo non opposto e la tutela dei consumatori al vaglio della Corte di giustizia, GiustiziaCivile.com, 17 agosto 2022.

[27] In tal senso, N. Minafra, L’autorità di giudicato del decreto ingiuntivo non opposto, cit., passim.

[28] Così N. Minafra, L’autorità di giudicato del decreto ingiuntivo non opposto, cit., passim.

[29] Cfr. R. Rossi, Clausole abusive e decreto ingiuntivo non opposto, cit., 16.

[30] Così Corte giust. 17 maggio 2022, SPV Project 1503 e Banco di Desio e della Brianza.

[31] Così Corte giust. 17 maggio 2022, Ibercaja Banco.

[32] Nella sentenza si legge infatti che «dal momento che la decisione con cui il tribunale ha disposto l’avvio del procedimento di esecuzione ipotecaria non conteneva alcun punto della motivazione che desse atto dell’esistenza di un controllo del carattere abusivo delle clausole del titolo all’origine di tale procedimento, il consumatore non è stato informato dell’esistenza di siffatto controllo, né, almeno sommariamente, della motivazione in base alla quale il tribunale ha ritenuto che le clausole in discussione non avessero carattere abusivo. Pertanto, egli non ha potuto valutare con piena cognizione di causa se occorresse proporre ricorso avverso suddetta decisione».

[33] In tal senso, A. Crivelli, Appunti sulla requisitoria del P.G. presso la Corte di Cassazione, cit., 718.

[34] In tal senso, Corte giust., 26 gennaio 2017, Banco Primus.

[35] Cfr. E. Scoditti, Quando il diritto sta nel mezzo di due ordinamenti: il caso del decreto ingiuntivo non opposto e in violazione del diritto dell’Unione europea, in Questione giustizia, 17.1.2023.

[36] Cfr. A. Soldi, B. Capponi, Consumatore e decreto ingiuntivo: le soluzioni ermeneutiche percorribili per l’integrazione tra diritto eurounitario e diritto interno, in www.judicium.it.

[37] In tal senso, Cass. 26 luglio 2012, n. 13204; Cass. 18 settembre 2008, n. 23847; Cass. 16 maggio 2006, n. 11360.

[38] Così R. Rossi, Clausole abusive e decreto ingiuntivo non opposto, cit., 25.

[39] In tal senso. A. Garofalo, Decreto ingiuntivo non opposto, cit., 94.

[40] Ibidem.

[41] Cfr. G. Nardecchia, F. De Stefano, Requisitoria del P.G., reperibile sul sito Procuracassazione.it.

[42] Cfr. E. D’Alessandro, Il decreto ingiuntivo non opposto emesso nei confronti del consumatore, cit., passim.

[43] Cfr. R. Rossi, Clausole abusive e decreto ingiuntivo non opposto, cit., 25.

[44] Cfr. E. Scoditti, Quando il diritto sta nel mezzo di due ordinamenti, cit., passim.

[45] Cfr. Corte Cost., 22 dicembre 2022 n. 263.

[46] In tal senso, G. Scarselli, La tutela del consumatore secondo la CGUE e le Sezioni Unite, e lo Stato di diritto secondo la civil law, in Pacini giuridica, reperibile online.

[47] Così B. Capponi, Primissime considerazioni su SS. UU 6 aprile 2023 n. 9479, in Giustizia Insieme, reperibile online.

[48] Ibidem.

[49] Ibidem.

[50] Ibidem.

[51] Ibidem.

[52] Cfr. G. Scarselli, La tutela del consumatore secondo la CGUE e le Sezioni Unite, cit., passim.

[53] Ibidem.

[54] In tal senso, P. Farina, Le sezioni unite rispondono alla Corte di giustizia creando un nuovo istituto. L’opposizione ultra-tardiva a decreto ingiuntivo e l’effettività della tutela consumeristica, in Il Foro.it, maggio 2023.

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