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Editoriali

La “web tax” italiana: ennesima fuga in avanti o possibile soluzione dell’impasse?

2 Maggio 2018

Giuseppe Melis

Professore Ordinario di Diritto Tributario, LUISS Guido Carli; Avvocato in Roma

La c.d. “web tax” prevista dalla Legge di stabilità 2018 rappresenta l’ultimo tentativo in ordine di tempo da parte dell’Italia di rinvenire una soluzione, almeno provvisoria, alla situazione di stallo in cui versa il problema della tassazione dei redditi delle imprese dell’economia digitale.

I termini generali sono ben noti.

All’urgenza per i Governi di rinvenire una soluzione idonea a contenere il crescente deficit di gettito determinato dai nuovi modi di produzione della ricchezza dell’economia digitale – con i problemi di finanziamento del welfare State che ne conseguono – si contrappongono numerosi ostacoli, tecnici e politici. Tra di essi: l’ampia varietà delle operazioni eseguibili mediante la rete, comprensiva di quelle svolte da imprese tradizionali in sé non suscettibili di erodere le basi imponibili degli Stati, che richiede una soluzione mirata onde non ostacolare il processo di digitalizzazione; i vincoli internazionali, in primis una nozione di stabile organizzazione ancora legata alla sua “fisicità”; i divieti di discriminazioni e restrizioni dei Trattati UE; l’inefficacia dell’azione sia dell’OCSE – dapprima focalizzatasi sulla ricerca del server, e poi rifuggiatasi, nel Progetto BEPS, in un diplomatico rinvio al 2020, ora anticipato al 2019 – sia dell’UE, giunta persino a contestare a taluni Stati membri di aver concesso aiuti di stato con accordi ad hoc ai giganti del web, ma i cui provvedimenti di recupero sono stati impugnati, oltre che dalle imprese, dagli stessi Stati; la difficoltà, anche a voler adottare una nuova nozione di stabile organizzazione, di imputare ad essa redditi significativi attesi gli esigui rischi e funzioni in presenza di processi fortemente automatizzati.

In questa situazione di impasse – in cui l’unico rimedio efficace in termini di gettito pare essere l’introduzione di un nuovo criterio di ripartizione del reddito complessivo tra tutti gli Stati interessati, che valorizzi adeguatamente il luogo in cui beni e servizi digitali vengono fruiti – la tentazione di taluni Stati membri di provvedere da sé è stata forte. Ciò è avvenuto sia sul piano normativo – ad es., con il Diverted Profit Tax o la ritenuta sulle royalties inglesi o l’Equalization Levy indiano – sia sul piano dell’accertamento di stabili organizzazioni occulte, anche se con esiti alterni (ad es., limitandosi a Google, il Fisco francese è risultato soccombente in primo grado, quello indiano invece vittorioso).

Anche l’Italia ha agito sul duplice fronte legislativo ed accertativo.

Mentre sul secondo si è registrata una certa efficacia – come gli accordi firmati in adesione da Amazon, Google ed Apple dimostrano – non altrettanto è accaduto sul fronte normativo.

Dalla disposizione della Legge di stabilità 2014 che esclude il metodo del costo maggiorato per le società operanti nella raccolta di pubblicità online – norma tuttora in vigore ma di incerta interpretazione ed applicazione – si è passati alla Legge delega 23/2014, tuttavia inattuata in parte qua, che prevedeva sistemi di tassazionedelle attività “connesse alla raccolta pubblicitaria, basati su adeguati meccanismi di stima delle quote di attività imputabili alla competenza fiscale nazionale”; si è poi proseguito con la procedura di compliance per le stabili organizzazioni occulte di cui al d.l. n. 50/2017, di cui non sono noti casi, sino alla web tax della Legge di bilancio 2018.

Quest’ultima consiste, come noto, nell’applicazione dell’aliquota del 3% sul fatturato derivante da talune transazioni digitali, individuate in termini sia qualitativi – i servizi prestati mediante mezzi elettronici essenzialmente automatizzati – sia quantitativi – oltre 3.000 operazioni annue, quale ne sia il valore – e rese sia nei confronti di soggetti residenti sostituti d’imposta, sia di stabili organizzazioni di soggetti non residenti (B2B).

L’esteso ambito di applicazione ne esclude la natura di equalization tax: essa non “compensa”, infatti, le minori imposte di regola pagate da determinati global players, ma si applica anche a soggetti che già sopportano un carico impositivo adeguato.

Al tempo stesso, il tributo è “settoriale”, ma non quanto necessario. Prestare servizi digitali non manifesta quella “speciale” capacità contributiva richiesta dalla Consulta per legittimare tributi su determinati settori economici – cosa ben diversa sarebbe focalizzare l’attenzione sulle sole imprese che creano valore grazie al contributo fondamentale degli utenti, come nella proposta della Commissione UE presentata il 21 marzo u.s. – e l’ampia tipologia dei soggetti interessati esclude che il fatturato possa considerarsi adeguata misurazione della maggior capacità contributiva(Corte cost., 10/2015).

Si tratta di vistosi difetti che la presentazione della citata proposta da parte della Commissione UE – la quale, in attesa di un intervento “a regime” sui criteri di ripartizione dei profitti dell’economia digitale, indica quale soluzione provvisoria un tributo sul fatturato di grandi imprese che traggono profitto dal valore dei dati utilizzati, come tale comprensivo delle prestazioni rese a consumatori finali – ha reso ancor più evidenti sul piano tecnico; il che, unitamente al profilo di “opportunità” di un intervento unilaterale a questo punto evidenziatosi, spiegano perché il decreto attuativo della web tax, previsto entro il 30 aprile, non è stato emanato.

Se l’idea è di rimettere, ancora una volta, la soluzione ad organismi sovranazionali, si auspica che ciò non si traduca nell’ennesima dilazione. Sembra, infatti, a chi scrive, che la situazione di impasse possa essere paradossalmente sbloccata solo dalla necessità di arginare le poco coordinate ma assai insidiose “fughe in avanti” dei singoli Stati. Ciò potrebbe spingere anche gli Stati riluttanti ad accettare una soluzione uniforme, se non le stesse imprese interessate ad adottare nelle more modelli organizzativi più trasparenti onde ridurre per quanto possibile il rischio fiscale conseguente ai citati interventi unilaterali.

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