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Attualità

L’aliquota IVA applicabile alla cessione di fabbricati abitativi a società di capitali

24 Ottobre 2023

Christian Cisternino, Partner, Cisternino Desiderio & Partners

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo analizza il tema dell’aliquota IVA da applicare alla cessione di fabbricati abitativi in cui l’acquirente sia una società alla luce di una recente risposta ad istanza di interpello (non pubblica).


1. Premessa

Con una recente risposta ad istanza di interpello (non pubblica), la Direzione Regionale delle Entrate della Lombardia (di seguito, per brevità, “DRE”) ha fornito alcuni interessanti chiarimenti in relazione alla corretta aliquota IVA da applicare alla cessione di fabbricati abitativi, non di lusso, nel caso in cui l’acquirente sia una società.

La presentazione dell’istanza di interpello era dovuta all’incertezza interpretativa che si è generata a seguito della pubblicazione di alcune ordinanze della Corte di Cassazione nel corso del 2023 (a loro volta basate su un precedente della stessa Corte del 2021), che hanno creato un certo allarme tra gli operatori. Ci si riferisce, in specie, alle ordinanze 1° febbraio 2023, n. 3109 e 7 febbraio 2023, n. 3716.

2. Il quadro giuridico di riferimento e le ordinanze della Corte di Cassazione

In particolare, la fattispecie si riferisce all’applicabilità o meno dell’aliquota IVA ridotta del 10 per cento – prevista dal n. 127-undecies della Tabella A, Parte III, allegata al DPR 633/72 – per le cessioni di unità abitative non di lusso nel caso in cui il cessionario non sia una persona fisica ma una società.

La norma prevede l’aliquota IVA del 10 per cento per le operazioni che hanno per oggetto le “case di abitazione non di lusso […], ancorché non ultimate, purché permanga l’originaria destinazione, qualora non ricorrano le condizioni richiamate nel numero 21) della parte seconda della presente tabella”.

In sostanza, il n. 127-undecies della Tabella A Parte III prevede l’applicazione dell’aliquota IVA del 10% alle cessioni di case di abitazioni”, non di lusso[1], se non ricorrono le condizioni per il regime “prima casa”.

Ciò detto, ai fini che qui interessano, è agevola notare che nel delineare i presupposti di applicazione dell’aliquota agevolata in esame, la norma non fa alcun riferimento (i) né alla natura del cessionario (non richiedendo che si tratti di una persona fisica), (ii) né all’effettivo utilizzo dei fabbricati per essere considerati “abitativi”).

In questo quadro giuridico, si sono inserite le posizioni (destabilizzanti) della Cassazione qui in analisi.

In particolare, i casi analizzati da entrambe le ordinanze si riferivano ad una permuta di beni presenti (terreni) e beni futuri (appartamenti da costruire sui citati terreni). In questo contesto, il secondo grado della causa era stato deciso – a favore dell’Agenzia delle Entrate – ritenendo che “la cessione di beni futuri debba sempre assoggettarsi ad aliquota ordinaria, potendo poi farsi ricorso, al momento della realizzazione dell’unità abitativa, alla nota di variazione ex art. 26”.

Al riguardo, la Cassazione (i) da un lato, ha rigettato le argomentazioni dell’ufficio e della commissione tributaria regionale, considerando (correttamente) irrilevante ai fini dell’aliquota IVA la circostanza che i beni non erano ancora venuti ad esistenza, (ii) dall’altro lato, però, ha accolto le ragioni erariali sulla base di un’autonoma argomentazione (non avanzata dall’Agenzia delle Entrate), ritenendo rilevante la circostanza che il cessionario non era una persona fisica.

In particolare, secondo le ordinanze in questione, non poteva trovare applicazione l’aliquota IVA del 10 per cento considerato che difettava, “nella specie, il requisito soggettivo, perché può serenamente affermarsi che BETA s.r.l. (ossia, la cessionaria delle unità immobiliari in parola, una volta realizzate da ALFA) non può godere dei benefici in discorso, in quanto società commerciale, rispetto alla quale non è certo prospettabile alcuna esigenza di tutela dell’accesso all’abitazione” (cfr. ordinanza 3109 del 1° febbraio 2023).

La Cassazione è arrivata a questa conclusione citando un proprio precedente, in base al quale “[i]n tema IVA, l’aliquota ridotta prevista dall’art. 16 del DPR n. 633 del 1972, si applica, ai sensi del n. 127-undecies della Tabella A, unicamente se l’unità immobiliare compravenduta – ferme le condizioni attinenti alla categoria non di lusso delle case di abitazione […] – sia stata effettivamente utilizzata dall’acquirente per soddisfare esigenze abitative, mirando il legislatore fiscale a tutelare il diritto ad avere un’abitazione e non i commercianti o le immobiliari di rivendita” (cfr. sentenza Cassazione 18 ottobre 2021, n. 28578).

Tuttavia, a ben vedere, si tratta di una posizione che non trova alcuna base né nel testo della norma, né nella sua ratio.

3. La ratio della norma

La norma di cui al n. 127-undecies, qui in esame, è stata introdotta nell’ordinamento IVA nel contesto di una riforma che, a partire dal 1993, ha ridisegnato la disciplina della fiscalità indiretta nel settore dell’edilizia abitativa privata (cfr. Circolare Assonime 14 giugno 1994, n. 82).

Al riguardo, Assonime ricorda che “[c]on l’art. 16 del decreto-legge 22 maggio 1993, n. 155, convertito con modificazioni dalla legge 19 luglio 1993, n. 243, si è disposto un nuovo assetto della normativa fiscale in materia di edilizia abitativa agli effetti sia dell’i.v.a. – con riferimento anche alle aliquote applicabili ad alcune cessioni di beni e prestazioni di servizi connesse all’attività edile –  sia delle altre imposte indirette (imposta di registro, imposte ipotecaria e catastale, invim)” (cfr. Circolare Assonime 14 giugno 1994, n. 82).

In particolare, ai fini che qui maggiormente interessano, l’art. 16 del decreto-legge n. 155/1993 ha, tra l’altro:

  1. soppresso, nella Tabella A, Parte II, allegata al Decreto IVA, i numeri 28) e 29), che prevedevano l’applicazione dell’aliquota del 4 per cento alle cessioni di case di abitazione non di lusso “nei confronti di persone fisiche”, a condizione che fosse dichiarato nel contratto, a pena di decadenza, di volere adibire il fabbricato “a propria abitazione”;
  2. modificato il numero 21) della stessa Tabella A Parte II, circoscrivendo l’aliquota del 4 per cento alle cessioni di case di abitazione non di lusso in presenza delle condizioni “prima casa” e rinviando per questi requisiti alla normativa ai fini dell’imposta di registro (in modo da omogeneizzare le imposte indirette applicabili ai trasferimenti di unità abitative non di lusso);
  3. aggiunto il n. 127-undecies nella Tabella A Parte III allegata al Decreto IVA, elevando l’aliquota IVA al 10 per cento per le cessioni di case di abitazione non di lusso che non integrano i requisiti “prima casa”.

Al riguardo, a commento della citata riforma, il Ministero delle Finanze ha chiarito che “l’obiettivo che si è inteso perseguire con le sopramenzionate disposizioni normative è stato quello di allineare, sia ai fini dell’IVA […], sia ai fini degli altri tributi indiretti, il trattamento tributario degli atti di trasferimento delle unità immobiliari idonee ad abitazione, non aventi le caratteristiche di lusso” (cfr. Circolare Ministero Finanze 2 marzo 1994, n. 1).

In altri termini, la finalità della riforma in questione è stata quella di perequare il carico fiscale indiretto delle cessioni di abitazioni non di lusso, allineando il regime fiscale ai fini IVA rispetto al regime previsto ai fini delle imposte di registro, ipotecaria e catastale, in ragione del principio di alternatività tra queste imposte.

Al riguardo, è utile considerare che le imposte di registro ipotecaria e catastale, all’epoca della riforma – al di fuori dei casi in cui si poteva invocare il beneficio “prima casa” – in assenza dell’IVA, trovavano applicazione rispettivamente nella misura dell’8 per cento per l’imposta di registro e del 2 per cento per le imposte ipotecaria e catastale (oggi, in questi casi si applica l’imposta di registro al 9 per cento e le imposte ipotecaria e catastale in misura fissa).

Così, con l’introduzione del n. 127-undecies, l’applicazione dell’aliquota IVA del 10 per cento per le cessioni di unità abitative, non di lusso, allinea in sostanza il “peso” dell’IVA rispetto al carico complessivo di registro, ipotecaria e catastale.

Nello stesso senso, Assonime – a commento della riforma del ’93 – ha segnalato che “[n]ell’intento di pereguare il regime i.v.a. nel settore edilizio a quello proprio delle altre forme di imposizione indiretta nello stesso settore, gli interventi normativi che dal 1° gennaio 1993 hanno modificato il previgente regime in materia hanno individuato nell’aliquota del 9 per cento [ora 10 per cento, NDR] quella generalmente propria del settore” (cfr. Circolare Assonime 82 del 1994, p. 18; enfasi aggiunta).

In sostanza, nel ridisegnare la fiscalità indiretta delle operazioni relative ad unità abitative non di lusso, gli obiettivi perseguiti dal legislatore sono stati quelli di:

  • omogeneizzare sostanzialmente la misura dell’IVA rispetto alle imposte di registro, ipotecaria e catastale;
  • riservare un carico fiscale indiretto particolarmente vantaggioso per i trasferimenti di abitazioni non di lusso “prima casa”, per tutelare le esigenze abitative;
  • prevedere, per il resto delle operazioni relative all’edilizia abitativa privata non di lusso, un carico fiscale indiretto tra il 9 e il 10 per cento.

Così, come osservato dalla stessa Assonime, a seguito della citata riforma del ’93, “[r]elativamente all’edilizia abitativa privata non di lusso è prevista […] l’applicabilità in via ordinaria dell’aliquota del 9 per cento [ora 10 per cento, NDR] […] salvo nel caso in cui le operazioni afferenti la cessione o la realizzazione di case siano destinate a fornire un’abitazione a persone fisiche che ne sono sprovviste, operazioni che, per evidenti finalità sociali, rimangono soggette al 4 per cento” (cfr. Circolare Assonime 82/1994, p. 10).

In altri termini, nel comparto dell’edilizia abitativa privata non di lusso, per favorire lo sviluppo del settore, è stata prevista l’aliquota IVA al 10 per cento come aliquota generale, fatta salva l’applicazione del 4 per cento in presenza dei requisiti “prima casa”.

Se ne trova conferma anche nei chiarimenti resi dal Ministero delle Finanze a commento della citata riforma del ‘93, in base ai quali “”[i]n buona sostanza, per quanto concerne le cessioni di case di abitazione non di lusso l’aliquota applicabile è determinata esclusivamente in base alla ricorrenza o meno – in capo al cessionario – della condizione di acquirente di prima casa […]; ove tale condizione sussista, si rende applicabile l’aliquota del 4%; diversamente, quale che sia la natura del soggetto acquirente, quella del 9% [attualmente del 10%, NDR]” (cfr. Circolare Ministero Finanze 1/1994).

Ciò detto in relazione alle finalità sottese alla norma qui in esame, è agevole verificare come la posizione che si ritrova nelle citate ordinanze della Cassazione sia destituita di ogni fondamento e questo trova ulteriore conferma anche nella posizione della DRE Lombardia qui in esame.

4. I chiarimenti resi dall’Agenzia delle Entrate

Al riguardo, è utile innanzitutto tornare al tenore letterale della norma, per poi circoscriverne, in via sistematica, il perimetro di applicazione anche in considerazione delle finalità sottese alla norma.

Come visto, il n. 127-undecies della Tabella A Parte III al Decreto IVA prevede l’applicazione dell’aliquota IVA del 10 per cento alla cessione di fabbricati a condizione che: (i) si tratti di “case di abitazioni”, (ii) non si tratti di unità abitative “di lusso”, (iii) non siano integrate le condizioni per poter applicare il più favorevole regime “prima casa”.

Con riferimento al primo aspetto che qui maggiormente interessa, relativo alla destinazione abitativa dei fabbricati, l’Agenzia delle Entrate e la stessa Cassazione hanno tradizionalmente chiarito che per l’individuazione delle unità abitative ai fini IVA è “dirimente la classificazione catastale” dei fabbricati, “a prescindere dal loro effettivo utilizzo” (cfr. Circolare Agenzia Entrate 1 luglio 1996, n. 182; Risoluzione 12 agosto 2005, n. 119; Circolare 4 agosto 2006, n. 27; Circolare 1° marzo 2007, n. 12; Circolare 29 maggio 2013, n. 18; Risposta 21 dicembre 2021, n. 844; Risposta 13 gennaio 2023, n. 25 e, da ultimo, Risposta 24 luglio 2023, n. 392. Nello stesso senso, Cassazione 9 novembre 2016, n. 22765).

Già il Ministero delle Finanze aveva chiarito che la locuzione di fabbricato “idoneo ad abitazione” – utilizzata nel decreto-legge 155 del 1993 che ha introdotto il n. 127-undecies – “è da intendersi oggettivamente, nel senso che l’unità immobiliare destinata ad abitazione deve essere classificata o classificabile nelle categorie A1, A2, A3, A4, A5, A6, A7, A8, A9, A11, occorre cioè che risponda ai requisiti tecnici e di autonomia funzionale che qualificano la stessa come atta all’uso abitativo”, precisando che “non assume rilievo l’utilizzazione di fatto diversa dall’utilizzazione catastale” e che “[p]er la determinazione del concetto di idoneità del fabbricato […] non sono, quindi, utilizzabili parametri di ordine soggettivo […]. Milita, infatti, avverso l’interpretazione che vorrebbe tener conto anche dell’aspetto soggettivo, la evidente carenza di una specifica disposizione normativa […]” (cfr. Circolare Ministero delle Finanze 2 marzo 1994, n. 1).

In sostanza, si ribadisce che il citato n. 127-undecies definisce il perimetro di applicazione dell’aliquota IVA del 10 per cento alle cessioni di unità abitative, non di lusso, facendo riferimento esclusivamente ad elementi oggettivi (i.e. la classificazione catastale), senza alcun riferimento a requisiti collegati alla natura soggettiva dei cessionari, né tantomeno al concreto utilizzo del fabbricato da parte di questi ultimi.

In questo senso, Assonime ha chiarito che “[l]’aliquota del 9 per cento [10 per cento attualmente, NDR], essendo riservata alle cessioni di case non di lusso non costituenti l’unica abitazione dell’acquirente, prescinde dalla qualità di questi: il soggetto acquirente, invero, può essere sia una persona fisica, nei cui confronti non ricorrono le condizioni previste dal numero 21 della parte seconda della predetta tabella, sia una persona giuridica, che evidentemente non acquista la casa per destinarla a propria abitazione” (cfr. Circolare Assonime n. 82 del 1994, p. 18).

Così come – prosegue la stessa Circolare Assonime – “la predetta aliquota è oggettivamente applicabile agli appalti pe la costruzione delle case di abitazione non di lusso […] indipendentemente dalla qualità del soggetto appaltante, sia esso persona fisica o giuridica”.

Secondo la stessa linea interpretativa, anche la recente Risposta dell’Agenzia delle Entrate 24 luglio 2023, n. 392 (riferita alla detraibilità dell’IVA dovuta sull’acquisto di un fabbricato abitativo destinato ad una attività turistico-ricettiva) si riferisce proprio ad una fattispecie di compravendita di una unità abitativa ad una società commerciale e nella descrizione della fattispecie si rappresenta che l’operazione è soggetta ad IVA al 10 per cento.

Questo aspetto risulta ancora più evidente, per differenza, se si confronta il n. 127-undecies, qui in analisi, con altre norme del medesimo comparto nelle quali, invece, sono stati espressamente previsti requisiti soggettivi. È, ad esempio, il caso dei nn. 28) e 29) della Tabella Parte II allegata al Decreto IVA (abrogati nel contesto della citata riforma del ‘93) che, a determinate condizioni, riservavano l’aliquota IVA del 4 per cento ai trasferimenti a “persone fisiche” e a condizione che fosse dichiarato nel contratto, a pena di decadenza, di volere adibire il fabbricato “a propria abitazione”.

Così come, la normativa sulla “prima casa” (sia ai fini IVA, sia ai fini dell’imposta di registro) presuppone che l’acquirente sia una persona fisica (facendo, ad esempio, riferimento allo stato di coniugio dell’acquirente).

In sostanza, è evidente che il legislatore, laddove abbia voluto prevedere requisiti collegati al cessionario, ha espressamente previsto nella norma riferimenti alla natura degli acquirenti e/o all’utilizzo dei fabbricati.

Su queste basi, la DRE nella risposta qui in commento ha confermato che l’aliquota IVA del 10 per cento si applica alla cessione di fabbricati abitativi, non di lusso, a prescindere dalla natura del cessionario e “dall’effettivo utilizzo” delle unità abitative.

D’altronde, neanche nel regime “prima casa” è richiesta la verifica del concreto utilizzo del fabbricato come abitazione per poter fruire del regime di favore (cfr. Risoluzione 20 agosto 2010, n. 86). Infatti, il riferimento al concreto utilizzo come abitazione è stato soppresso in sede di conversione in legge del DL 155/93. In questo senso, in dottrina è stato chiarito che “ciò che al legislatore interessa è che l’abitazione acquistata sia solo <<potenzialmente>> utilizzabile come abitazione” (cfr. Busani, Imposta di registro, II ed., p. 1397). Così, “il trasferimento è quindi agevolato anche se sull’immobile esiste un diritto di usufrutto o se è locato” (cfr. Assonime, Circolare 14 giugno 1994, n. 82)

Ciò detto, per non minare i valori fondamentali della certezza giuridica e del legittimo affidamento dei contribuenti – valori riconosciuti dalla Corte Costituzionale come un “elemento fondamentale dello Stato di diritto” – sarebbe altamente auspicabile che anche la Cassazione prendesse atto dei menzionati chiarimenti, in modo da non alimentare contenzioso su tematiche chiare e in relazioni alle quali si sono ormai formate nitide categorie di giudizio.

 

[1] Al riguardo, nonostante la norma continui a fare riferimento ai criteri di cui al decreto del Ministero dei Lavori Pubblici del 2 agosto 1969, l’Agenzia delle Entrate ha più volte chiarito che anche a questo fine i fabbricati abitativi non di lusso devono essere individuati in base alla loro categoria catastale, (come tutte le unità abitative tranne quelli appartenenti alle categorie A1, A8 e A9 (cfr. Circolare Agenzia delle Entrate 30 dicembre 2014, n. 31).

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