Il presente articolo rappresenta la rielaborazione ed il continuo aggiornamento nel tempo della Sezione iniziale (dal medesimo titolo) della parte dedicata all’Assicurazione da Gastone Cottino nel suo celebre Manuale di Diritto commerciale, 2^ ed. (vol. II, tomo II), Cedam-Padova, 1996 (e prima ancora nella 1^ ed. del citato manuale, vol. II, Cedam-Padova, 1978). Il brillante affresco è poi transitato nel vol. X di O. Cagnasso, G. Cottino e M. Irrera, L’assicurazione: l’impresa e il contratto, nel Tratt. di dir. comm., diretto da G. Cottino, Cedam-Padova, 2001 (e poi nella 2^ ed. M. Irrera, L’assicurazione: l’impresa e il contratto, Cedam-Padova, 2020), per poi trovare – oggi – collocazione quale capitolo introduttivo del volume Lineamenti di diritto assicurativo, 2^ ed., a cura di M. Irrera, Zanichelli-Bologna, 2025. Rappresenta, pur nei suoi intrinseci limiti, il desiderio di mantenere vivo il ricordo e la memoria di un grande Maestro del diritto commerciale.
1. Le origini dell’assicurazione
L’assicurazione, intesa come contratto di indennità contro i rischi della navigazione, si manifesta originariamente in Italia, soprattutto tra i mercanti genovesi e fiorentini del Trecento; nasce sul mare, per estendersi, gradatamente, al traffico terrestre.
All’origine essa stenta a distinguersi dal prestito marittimo, cioè dalla convenzione per cui l’armatore della nave riceve una somma di denaro da restituirsi al mutuante maggiorata di interessi solo se questa sia giunta salva a destinazione: prestito nel quale si è spesso ravvisato un prototipo del contratto, nella forma di assicurazione «rovesciata» (con «l’indennizzo» pagato anticipatamente ed acquisito dal mutuatario se invece la nave andasse perduta).
Soltanto a partire dal XIV secolo l’assicurazione viene assumendo definitivamente, nell’humus mercantile italiano, i connotati di contratto individuale di copertura di un rischio, ed acquista – per via statuaria o consuetudinaria – le caratteristiche con le quali sarà recepita nelle legislazioni contemporanee. Anzitutto per la presenza della polizza, originariamente accompagnantesi, di regola, ad un atto formale notarile. In secondo luogo, per l’affermarsi del requisito dell’interesse dell’assicurato all’assicurazione, che cioè i beni siano esposti ad un rischio reale, un requisito che distingue (almeno sulla carta e non senza qualche smagliatura) l’assicurazione dalla semplice scommessa. Infine, per la progressiva professionalizzazione dell’attività assicuratrice.
Il sensale, o mezzano, diventa a Venezia nel XVI secolo una figura chiave del contratto di assicurazione (che qui non viene concluso, come accade invece generalmente, per atto notarile). Egli è caratterizzato da connotati di professionalità e conoscenza tecniche e anche da un’attività di assistenza al cliente che ne consentono, pur con tutta la prudenza del caso, un avvicinamento alla figura attuale del broker. È il sensale a porsi alla ricerca dell’assicuratore, a tenere i libri dei conti tanto per gli assicuratori quanto per gli assicurati.
2. Il nuovo volto del contratto di assicurazione
Tra il diciasettesimo e il diciottesimo secolo si determina una svolta decisiva nella configurazione dell’istituto. Grazie alle nuove tecniche di calcolo matematico delle probabilità, si passa dalla contrattazione individuale, e da un computo e da un frazionamento più o meno approssimativi e rudimentali dei rischi, alla contrattazione di massa posta in essere da imprese di dimensioni crescenti, specializzate nella copertura di rischi diversificati. Imprese le cui connotazioni sono decisamente lontane, specialmente nel campo terrestre (l’assicurazione marittima conserva, per forza di cose, un maggior margine di empiricità), da quegli elementi di scommessa sul verificarsi del sinistro che per molti secoli avevano «inquinato» il contratto.
È un’evoluzione che si accelera tra la fine del Seicento ed il Settecento allorché, nel nuovo humus capitalistico, si gettano le basi dell’assicurazione contemporanea; appare emblematica la vicenda del caffè londinese del signor Lloyd divenuto in breve volgere di tempo il centro del mercato inglese delle assicurazioni.
Questi secoli rappresentano uno spartiacque tra la forma individuale dell’assicurazione e l’assicurazione come contrattazione di massa.
Né pare casuale il fatto che le compagnie di assicurazione prendano a rivestire la forma azionaria prima che questo avvenga per le imprese manifatturiere, che durante la Rivoluzione industriale rimangono essenzialmente a base individuale o personale.
Nel Settecento anche i pubblici poteri cessano di disinteressarsi dell’assicurazione.
È nel diciottesimo secolo che, di fronte al moltiplicarsi dei fallimenti degli assicuratori a cui facevano contrasto le esigenze di un traffico navale in turbinosa espansione, si promuove la costituzione di compagnie privilegiate. E con le codificazioni si darà, sia pur limitatamente all’assicurazione marittima, una disciplina globale dell’istituto.
Il controllo pubblico dell’attività assicurativa costituisce la novità saliente dell’assicurazione contemporanea. La regolamentazione del contratto rimaneva infatti in larga parte il frutto dell’autonoma elaborazione degli stessi assicuratori.
Anche nella realtà odierna, in cui i rapporti tra potere politico e potere economico tendono a farsi più problematici e dialettici, il confronto sul piano legislativo non è facile; lo dimostrarono a suo tempo le tenaci resistenze agli aspetti meno favorevoli alle compagnie della legge sull’assicurazione obbligatoria autoveicoli. Lo confermano i cospicui privilegi fiscali di cui gode l’assicurazione: dalla non tassabilità delle riserve matematiche alla detraibilità in sede di dichiarazione dei redditi dei premi assicurativi.
3. La storia «parallela» dell’assicurazione sulla vita
L’assicurazione sulla vita ha avuto inizialmente un ruolo del tutto subalterno, sia perché scarsamente distinguibile dall’assicurazione danni sia perché spesso e volentieri confusa con la pura e semplice scommessa.
Il fine previdenziale oggi normalmente perseguito dall’assicurazione sulla vita è sconosciuto nel Medio Evo (dove era nota e praticata se mai una figura completamente diversa, la rendita vitalizia). L’assicurazione è sulla morte, contro i danni che questa arrecherà all’assicurato.
Nell’età di mezzo mancano le premesse tecniche per una vera e propria assicurazione sulla vita; il suo sviluppo è strettamente legato alla determinazione delle probabilità di durata della vita umana. Ora le prime tavole di mortalità furono redatte alla fine del Seicento. Inoltre, l’assicurazione sulla vita non ha goduto buona stampa, proprio per gli elementi di ambiguità che la circondavano, sino alle soglie della codificazione. Se si eccettua l’Inghilterra, dove era praticata abitualmente (e l’Italia, dove era usata tanto come assicurazione danni che come scommessa e dove comunque prassi e dottrina le erano favorevoli), essa era vietata in Francia, Prussia, Olanda. La prima regolamentazione prussiana è del 1794; mentre in Francia essa si diffonde dopo l’entrata in vigore del codice di commercio del 1807, che pur tacendone non ne vietava la stipulazione.
Oggi l’assicurazione vita è uno tra i rami più floridi dell’attività assicurativa: un imponente strumento di drenaggio e di formazione e di canalizzazione del risparmio. Esso ha esteso progressivamente la sua sfera di applicazione e di influenza a campi collaterali. Ci si riferisce in primo luogo alle operazioni di capitalizzazione, ossia a quei contratti coi quali «l’impresa si impegna, senza condizioni relative alla durata della vita umana, a pagare somme al decorso di un termine prestabilito in corrispettivo di premi, unici o periodici, che sono effettuati in denaro o mediante altre attività» (art. 179, 1° comma, cod. ass.): che si collocano ai confini tra l’attività assicurativa a quella finanziaria e più del secondo che del primo tipo. Ma anche, oggi con particolare attualità, alla gestione di fondi collettivi costituiti per l’erogazione di somme in caso di morte, in caso di vita o in caso di cessazione o riduzione dell’attività lavorativa.
Con questi interventi si apre, o si amplia, il capitolo dell’attività previdenziale delle compagnie. La «riforma» pensionistica, erodendo sostanzialmente le basi su cui calcolare i futuri trattamenti di quiescenza e rendendone più smilze e precarie le prospettive economiche, ha infatti aperto nuovi spazi all’intervento delle compagnie. E questo sia indirettamente attraverso il potenziamento dei fondi pensione (a cui oggi i lavoratori dipendenti possono destinare anche il loro TFR), sia direttamente influendo sulle scelte individuali indotte a rendere più consistenti, con la stipulazione di polizze integrative, le speranze e le aspettative del cittadino medio per il tempo successivo alla conclusione della sua attività lavorativa.
4. Assicurazione ed impresa. Assicurazione, capitale e gruppi finanziari
La storia dell’assicurazione si è felicemente coniugata con l’evoluzione economica medioevale e post-medioevale. La modernizzazione, razionalizzazione e generalizzazione delle tecniche e del mercato assicurativo hanno sintomaticamente accompagnato la formazione del capitalismo contemporaneo, mercantile, industriale e finanziario. Il collegamento tra assicurazione e impresa, e impresa di un certo tipo e dimensioni, ha segnato un decisivo giro di boa rispetto alle originarie modalità di esercizio dell’attività assicurativa, caratterizzando il passaggio dal pionierismo individualistico e avventuroso dei secoli XIV e seguenti, al tecnicismo, altamente organizzato e sofisticato, dell’attività di massa svolta in progresso di perfezionamento delle imprese assicuratrici del XVIII e XIX secolo.
L’attività assicurativa riveste oggi un ruolo significativo nella nostra economia; si pensi che nel 2023 il rapporto tra i premi del portafoglio diretto italiano ed il prodotto interno è stato pari al 6,2%.
È un settore dunque molto importante: i premi lordi ammontano ad oltre 129 miliardi di euro; essi sono riferibili per il 30% circa al ramo danni e per il 70% circa al ramo vita.
Nel contempo si è assistito ad una poderosa concentrazione delle imprese assicurative italiane, sia numericamente (essendo passati dalle circa 200 compagnie di inizio XXI secolo alle 85 del 2023), quanto al peso dei principali gruppi assicurativi (anche stranieri) operanti sul nostro mercato: i primi 5 coprono infatti circa il 50% del mercato, mentre i primi 10 gruppi raggiungono quasi il 63%.
Tra questi la parte del leone (in tutti i sensi e non solo per la sua nota effige) la fa – come è risaputo – il Gruppo Assicurazioni Generali che nel 2002 aveva inglobato Ina-Assitalia: oggi la presenza sul mercato assicurativo di imprese controllate dallo Stato o da enti pubblici si concentra in grandissima parte in Poste Vita (che fa parte del Gruppo Poste Italiane) che incide per circa il 12% sul portafoglio diretto italiano; ancora negli anni ’90 del secolo scorso, invece, l’ammontare delle riserve tecniche di Ina-Assitalia superavano quelle di tutte le imprese private.
Non solo. Nel 2006 il Gruppo Generali ha acquistato anche Toro Assicurazioni che nel 2003 era passata dalla Fiat alla De Agostini; mentre nel 2021 ha rilevato il Gruppo Cattolica Assicurazioni. Sempre di più le Generali, il quarto gruppo assicurativo europeo (dopo la tedesca Allianz, seconda al mondo, la francese Axa e la svizzera Zurich con cui «combatte» per il terzo posto…), costituiscono uno snodo decisivo del capitalismo italiano: l’elezione – ogni triennio – del consiglio di amministrazione delle Generali è ormai diventato un classico, combattuto scontro del mondo finanziario.
Tra gli altri gruppi assicurativi che dominano il mercato italiano vi è il Gruppo Unipol che nel 2013 aveva rilevato Fondiaria Sai e che ricopre la seconda piazza nella raccolta premi dei rami danni. Mentre da oltre un decennio Intesa Sanpaolo Assicurazioni è saldamente presente (tra il secondo e il terzo posto) nella raccolta premi dei rami vita, segnando in modo plastico la contaminazione tra banca e assicurazione (su cui cfr., infra, par. 5.4.). La storica compagnia torinese Reale Mutua Assicurazione resiste ed anzi rappresenta – in buona sostanza – l’unica sopravvissuta di una nobile stirpe, quella delle mutue assicuratrici.
Sembrava perciò che sui due binari paralleli (concentrazioni spinte, da un lato, e quasi completa uscita dal mercato delle imprese assicurative pubbliche, dall’altro) su cui viaggiava a ritmi sostenuti l’attività assicurativa nel nuovo millennio non vi fossero ostacoli: ma così non è stato. La conferma è venuta ancora una volta da una delle ricorrenti crisi sistemiche del capitalismo finanziario, quella americana scoppiata nel 2008 che ha indotto il governo a stelle e strisce ad intervenire con denaro pubblico (in stridente contrasto con l’ortodossia liberista statunitense), ‹‹prestando›› (e divenendo socio all’80%) l’astronomica somma di 180 miliardi di dollari per salvare l’AIG (all’epoca il primo gruppo assicurativo mondiale), nella consapevolezza che l’insolvenza di una realtà di quelle dimensioni avrebbe provocato nel sistema danni non misurabili e certamente ben maggiori di quelli conseguenti al fallimento di una delle principali banche al mondo come Lehman Brothers. Un modo per significare la centralità dell’universo assicurativo nel capitalismo moderno ed una nuova nemesi storica: il potere pubblico espunto dal mercato è chiamato a salvare il mercato.
Potere pubblico che – in questo ambito – presto verrà chiamato a fornire garanzie alle compagnie assicurative nel rilascio delle polizze cosiddette catastrofali (sismi, alluvioni, frane, inondazioni, esondazioni), dirette cioè a dotare le imprese produttive di idonee coperture contro le crescenti calamità naturali (un nuovo settore denominato convenzionalmente «cat nat»): rischi che – senza un robusto intervento di garanzie pubbliche – le compagnie non avrebbero verosimilmente voluto assicurare o lo avrebbero fatto con premi «stratosferici».
5. La «funzione sociale» dell’assicurazione. L’assicurazione quale fenomeno diffuso. La contaminazione con il mondo bancario e finanziario
5.1. Non a caso si è insistentemente parlato di una funzione sociale delle assicurazioni private. In esse si ravvisava l’apertura verso una più ramificata partecipazione democratica ed una qualificata destinazione ed impiego del risparmio. L’assicurazione, si è ancora osservato, ripristinando i beni distrutti dal sinistro, ricrea posti di lavoro, fornisce mezzi per tutelare la salute e fronteggiare le malattie o la morte; garantisce commercianti, produttori ed operatori autonomi contro le alee incombenti sulle loro attività; premunisce i cittadini dai rischi provocati da queste stesse attività, dalle minacce dell’inquinamento e dalla sperimentazione, rispetto alle quali rappresenta un contraccettivo interno al sistema; offre a coloro cui il Welfare State in declino non darà più sufficienti garanzie di decorosa sopravvivenza la possibilità di ricostruire, se ne avranno i mezzi, adeguati equipollenti.
Non a caso si sono sottolineati questi aspetti del fenomeno. L’asserita funzione sociale delle assicurazioni ne rappresenta infatti una solida base di legittimazione formale. Nella delicata dialettica tra capitale finanziario ed interessi collettivi, tra libertà di mercato ed eventuali politiche pubbliche, essa ha rappresentato un forte elemento ideologico a favore della prima delle due opzioni possibili. È stata sostanzialmente, pur tra oscillazioni, la carta vincente, come eventi remoti e no paiono confermare.
5.2. Non tutto è andato sempre liscio, infatti, nei rapporti tra pubblici poteri e compagnie assicuratrici. Un primo significativo episodio risale all’inizio del Novecento, allorché Nitti e Giolitti nazionalizzarono le assicurazioni sulla vita, attribuendo il monopolio del loro esercizio all’Istituto Nazionale per le Assicurazioni e contro la legge statizzatrice si scatenò una dura tempesta. Contro chi sosteneva che i tempi erano maturi per sottrarre alla sfera privata e porre nelle mani dello Stato la più evoluta delle forme di risparmio, nonché l’ingentissimo patrimonio rappresentato dalle riserve matematiche, onde essere impiegato in opere di progresso nell’interesse della collettività, si ergeva il liberismo ortodosso di Luigi Einaudi, secondo il quale «la previdenza volontaria eleva e nobilita l’individuo; la previdenza obbligatoria lo riduce al livello di un impiegato pubblico, che consuma tutto lo stipendio perché ha la sicurezza della pensione pagata dallo Stato ed intanto lascia alla morte la famiglia senza capitali e tuttavia strepita per aumenti di stipendio, per case a buon mercato, senza far opera atta a guadagnarsi lo stipendio maggiore ed a costruire le intraprese atte a procurargli la casa bella».
A mettere tutti d’accordo fu allora il fascismo che, pagando uno dei vari prezzi al capitale finanziario per l’appoggio da esso dato alla marcia su Roma ed all’avvento della dittatura, cancellò nel 1923 il monopolio pubblico delle assicurazioni sulla vita. L’Istituto Nazionale delle Assicurazioni – INA – ossia l’ente pubblico cui tale monopolio era stato riservato avrebbe agito in concorrenza con le imprese private, che, come contropartita, avrebbero dovuto cedergli una parte del loro portafoglio.
Un compromesso in definitiva favorevole alle compagnie: conclusosi poi coerentemente con la soppressione dell’obbligo di cessione di una quota dei rischi all’INA (art. 27 del d.lgs. 23 dicembre 1992, n. 513) in attuazione della seconda direttiva vita e con la stessa privatizzazione dell’INA. Quest’ultima, infatti, come si è già osservato, è stata trasformata in s.p.a. ed è stata poi, come si è ricordato, assorbita dalle Assicurazioni Generali.
Un secondo episodio è relativamente più recente: e nasce da processi riformatori che le compagnie italiane videro al tempo in chiave di minacciosa influenza pubblica; che in realtà, essendo legate alle prime direttive comunitarie, erano di pura e accorta razionalizzazione.
Ci si riferisce alla l. 24 dicembre 1969, n. 990 (oggi confluita nel codice delle assicurazioni) che introdusse nel nostro sistema l’assicurazione obbligatoria per gli autoveicoli ed i natanti. Approvata in attuazione della Convenzione di Strasburgo del 1959, essa fece significativamente dieci anni di anticamera.
La presenza del fondo di garanzia per le vittime della strada, lo snellimento della procedura di risarcimento, l’eliminazione di alcune remore alla risarcibilità del danno, il principio in altre parole della generalizzazione della copertura assicurativa per le vittime della strada potevano ad avviso delle grandi compagnie accrescere i costi dell’assicurazione, schiudendo eventualmente la porta a più penetranti interventi pubblici. Dietro l’angolo della legge sembrava stare in agguato, ancora una volta, il temuto spettro della nazionalizzazione.
Alla fine, tuttavia non successe nulla di apocalittico; la nuova disciplina ebbe il suo regolare corso, le compagnie non furono insidiate nella loro libertà di azione sul mercato. Insomma, tanto tuonò che (non) piovve. Oggi le polizze auto rappresentano oltre il 40% dei premi raccolti nei rami danni; risultano assicurati quasi 33 milioni di veicoli, per i quali si registrano circa 1,8 milioni di sinistri. Alcune interessanti novità come la scatola nera (ovvero sistemi telematici installati sul veicolo che registrano percorsi e stili di vita) o il sistema di risarcimento diretto cosiddetto Card (che copre oltre l’80% dei sinistri e quasi il 50% degli importi) contribuiscono, da un lato, a ridurre il premio e, dall’altro, ad accelerare la liquidazione dei sinistri (effettuati dalla propria compagnia), riducendo i costi della gestione dei sinistri.
5.3. L’onda lunga si è chiusa senza conseguenze traumatiche. Il ricorso all’assicurazione è divenuto un evento abituale della vita quotidiana. Nella società contemporanea si sono accresciuti esponenzialmente sia i rischi di carattere universale, consustanziali alla scelta del modello economico dominante, sia i rischi che in modo più insidiosamente articolato si insinuano nelle pieghe dell’esistenza dei singoli. Dall’atomo all’ambiente, dalla circolazione ai trasporti alla distribuzione e impiego dei prodotti alla salute e sicurezza delle persone e delle cose, alle professioni, un intreccio ha progressivamente coinvolto tanto gli operatori quanto le loro (possibili) vittime, tanto chi possa essere chiamato a rispondere quanto chi intenda cautelarsi dal pericolo di danni di incerta risarcibilità.
Si è realizzata quella che potrebbe chiamarsi la necessità o inevitabilità del ricorso all’assicurazione. Il fenomeno ha avuto punte estreme in paesi dove – si pensi agli Stati Uniti – ogni cittadino è avvolto da un reticolo di polizze cui destina gran parte del proprio budget familiare. Costituisce una più netta linea di tendenza ovunque siano state ridotte le basi del Welfare State; in questa direzione va il sempre maggior peso che le polizze sulla salute hanno nel mercato assicurativo moderno. Sicché quasi insensibilmente si determina una situazione per cui il bisogno di ricorrere all’assicurazione si generalizza e l’incrocio tra interessi privati e collettivi in qualche modo si ripropone. Un intreccio ancora più stretto, come si è accennato, dinanzi alle ricorrenti crisi economiche ed ai cosiddetti nuovi rischi.
5.4. Grazie alla deregulation iniziata negli anni Novanta del secolo scorso le sinergie tra banche e assicurazioni sono divenute via via crescenti. Per le prime l’ingresso nel mondo assicurativo è servito per diversificare le fonti di ricavo, soprattutto nei lunghi anni in cui il fenomeno inflattivo sembrava sepolto, portando con sé una consistente riduzione del margine di interesse tra raccolta ed impieghi. Inoltre, la possibilità di offrire alla clientela prodotti alternativi (soprattutto quelli dei rami vita dotati di un più spiccato valore «sociale», abbinato pur sempre ad una componente finanziaria ragguardevole) rispetto a quelli bancari o finanziari tradizionali è parsa un’occasione troppo ghiotta da lasciarsi sfuggire.
Per le seconde, la cooperazione con le banche ha portato in buona sostanza ad un consistente sviluppo – a costi contenuti (ovvero le commissioni retrocesse agli istituti di credito) – della rete distributiva e ad un più ricco set informativo – che le banche storicamente possiedono – sulle condizioni economiche e finanziarie della clientela. Dunque, diversificazione dei ricavi per il mondo bancario e finanziario e significativo ampliamento, attraverso gli sportelli degli istituti di credito, della rete distributiva delle imprese di assicurazioni; nei rami vita quasi il 60% dei premi raccolti transita, infatti, dai canali distributivi bancari e postali. Non solo, ma le banche di maggiore dimensioni hanno iniziato a partecipare al capitale delle compagnie (nel 2019 le banche erano presenti nel capitale di 35 imprese assicurative e in 8 detenevano una partecipazione di maggioranza) ed anche a creare proprie imprese assicurative che – nei rami vita – rivestono un ruolo di primo piano, come nel caso di Intesa Sanpaolo Assicurazioni o, in misura minore, Mediolanum Vita. Ma le compagnie assicurative non sono rimaste a guardare come testimonia – in direzione opposta – la creazione nel 1998 di Banca Generali.
La contaminazione tra i due mondi riguarda anche i prodotti assicurativi, quelli dei rami vita in particolare. Le polizze unit e index linked (v., infra, cap. I, par. 3 e cap. XVI, Sez. II, parr. 1e 2) che non casualmente sono distribuite prevalentemente nei canali bancari e che si sono sviluppate soprattutto in corrispondenza storica con la progressiva derugulation del nostro sistema finanziario, hanno come caratteristica peculiare quella – in buona sostanza – di trasferire quasi integralmente il rischio dalla compagnia allo stesso assicurato-risparmiatore, in platica contraddizione con l’essenza stessa del fenomeno assicurativo in cui è l’impresa che assume il rischio del verificarsi dell’evento: una sorta di alto tradimento della vocazione del mondo assicurativo alla neutralizzazione dei rischi.
6. L’assicurazione nel tempo presente. Le opzioni di politica legislativa e l’evoluzione normativa
6.1. Pur esorcizzati gli spettri ormai lontani della nazionalizzazione e pur invocando – quando necessario e molto più di recente – l’intervento del potere pubblico sotto forma di garanzie al fine di garantire l’assicurabilità di vecchi e nuovi rischi ambientali, il problema del controllo dell’esercizio assicurativo rimane sul tappeto. Forse in termini mutati, ma rimane: secondo modalità che, per quanto non orientative della politica aziendale, garantiscano il regolare funzionamento delle contrattazioni e la conservazione dell’integrità patrimoniale delle compagnie.
Una completa e pur da molte parti auspicata deregulation sarebbe inipotizzabile nello stesso interesse del sistema assicurativo nel suo complesso. Il punto è pertanto di vedere quali regole imporre, e con quali contenuti.
L’ordinamento introdotto dal testo unico del 13 febbraio 1959, n. 449 disegnava in effetti un quadro abbastanza penetrante di interventi pubblici: dall’autorizzazione, data a determinate condizioni, a società per azioni aventi un capitale minimo, alle rigide prescrizioni in ordine alla formazione delle riserve tecniche e matematiche, all’approvazione delle tariffe e condizioni di polizza, alla vigilanza sull’attività assicurativa. Si affermava peraltro già allora che questa disciplina era semplicemente rivolta a garantire «alla collettività la realizzazione del servizio assicurativo» e che non postulava interventi di carattere pianificatorio e promozionale sulle scelte e strategie delle imprese.
Da tale angolo visuale l’interesse «collettivo» costituiva un limite all’esercizio dell’attività, non un punto di riferimento positivo del suo svolgimento. Le finalità del regime di autorizzazione e di controlli pubblici, si affermava pertanto, non andavano oltre la salvaguardia del buon funzionamento delle imprese e delle legittime aspettative degli assicurati.
In altre parole, le linee essenziali dell’ordinamento emergente dal testo unico erano legate, ad avviso dei più, a presupposti di ordine tecnico assicurativo e non a considerazioni più generali sulla situazione del mercato. Con la loro accentuata spinta liberalizzatrice le direttive comunitarie hanno portato a compimento questo processo sotto il profilo normativo.
Ma non hanno, si ripete, eliminato il problema in sé. L’accentuato svuotamento degli aspetti di interferenza pubblica – quali l’abolizione della vigilanza sulle tariffe e sulle condizioni di polizza imposti dall’èsprit liberiste delle direttive – non poteva spingersi sino allo smantellamento del controllo.
Anzi. L’apertura di nuove frontiere all’evolversi, su base internazionale e multinazionale, dei mercati mobiliari, creditizio e assicurativo, se da un lato ha condotto ad allentare la presa sulla libertà di movimento, di espansione, di concentrazione ed internazionalizzazione (ed anonimato) dei capitali, dall’altro l’ha accentuata e per certi aspetti appesantita su quello della vigilanza e dell’esercizio dell’attività.
Il reticolo normativo, ed in non lieve misura burocratico, indotto da direttive, leggi e regolamenti nonché dalle sempre più articolate e complesse mansioni affidate nei vari campi alla Banca d’Italia, alla Consob e, sul piano assicurativo, all’ISVAP (oggi IVASS), fa da singolare, ma forse inevitabile contrappunto all’emancipazione delle imprese dalle velleità programmatorie degli anni Sessanta del secolo scorso.
La filosofia della trasparenza e della correttezza gestionale e patrimoniale, quindi dell’osservanza di precise regole del gioco, nonché, in ambito specificamente assicurativo, i principi di salvaguardia patrimoniale delle aspettative degli assicurati comportano, se attuati, un prezzo sul piano della disciplina. Anche le direttive, pur tese come si diceva a spianare ogni ostacolo alla libertà di stabilimento ed incompatibili con qualsiasi funzionalizzazione delle imprese, debbono in qualche misura pagarlo.
6.2. È un prezzo che si paga, pare, anche sul terreno della razionalizzazione normativa. Se razionalizzazione significa infatti chiarezza e certezza di disciplina, quel che è accaduto, a partire dalla fine degli anni Settanta e dagli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, non pare offrirne un esempio particolarmente luminoso.
Sino al 1978 la materia era retta, per ciò che concerne la regolamentazione del contratto, dal codice civile e, per quanto riguarda l’esercizio dell’attività assicurativa, dal testo unico del 1959. Il codice civile si è sostanzialmente conservato intatto: e, pur con le rughe dell’età, offre tuttora all’interprete un quadro di riferimento preciso, anche se non più esauriente perché in parte delineato dalle leggi speciali (come quella sull’assicurazione obbligatoria autoveicoli e le numerose in materia di responsabilità civile ed obbligo assicurativo). Il regime dell’esercizio dell’attività assicurativa è stato invece sottoposto a un martellante processo di modifiche e di modifiche delle modifiche che ha impresso alla produzione normativa un ritmo quasi sussultorio.
In principio era, come si diceva, il testo unico del 1959. Poi sono sopravvenute tre generazioni di direttive, da cui sono scaturiti altrettanti provvedimenti legislativi di attuazione. Senonché sia le direttive sia le leggi ed i decreti di attuazione hanno cammin facendo divorato se stessi. Ciò è accaduto in modo particolarmente traumatico nel passaggio dalla seconda alla terza generazione.
Con la prima, si era sostanzialmente accantonato il testo unico del 1959. La l. 10 giugno 1978, n. 295, per il ramo danni, e 22 ottobre 1982, n. 742 per quello vita, hanno infatti reso operative nel nostro ordinamento le direttive 24 luglio 1973, n. 239 e 5 marzo 1979, n. 267.
La seconda generazione di direttive ha portato avanti il processo innovativo e riformatore. La n. 357 del 1989 e la n. 619 del 1990 hanno dato una prima attuazione alla regola della libera prestazione dei servizi assicurativi nell’allora Comunità europea e si sono tradotte nei d.l. 15 gennaio 1992, n. 49 e 23 dicembre 1992, n. 515. La direttiva n. 618 del 1990 modificava intanto, in tema di assicurazione obbligatoria della responsabilità civile, le precedenti direttive n. 239 del 1973 e 357 del 1988 trovando attuazione con il d.lgs. 23 dicembre 1992, n. 509. Altre due direttive, la n. 641 del 1984 e la n. 343 del 1987, in materia di assicurazione di assistenza turistica, crediti e cauzioni e tutela giuridica, erano nel frattempo rese operative con il d.lgs. 26 novembre 1991, n. 393.
A questo punto è intervenuta la terza ondata di direttive, la n. 49 e la n. 96 del 1992, i cui decreti legislativi di attuazione avevano praticamente fatto tabula rasa della legislazione precedente; il d.lgs. 17 marzo 1995, n. 174, in materia di assicurazione diretta sulla vita, abrogava infatti la l. 22 ottobre 1986, n. 742 e il d.lgs. 23 dicembre 1992, n. 515. Il d.lgs. 17 marzo 1995, n. 175, relativo alle assicurazioni diverse da quelle sulla vita, abrogava la l. 10 giugno 1968, n. 295, il d.lgs. 17 dicembre 1992, n. 509 e quasi integralmente i d.lgs. 15 gennaio 1992, n. 49 e 26 novembre 1991, n. 393, cioè praticamente tutti o pressoché tutti gli strumenti normativi di attuazione delle direttive precedenti.
Dall’ecatombe si erano salvate, oltre alla l. 24 dicembre 1969, n. 990, sull’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile dei veicoli e dei natanti (sia pur più volte modificata, e ancora da ultimo dallo stesso d.lgs. n. 175 del 1995), la l. 12 agosto 1982, n. 576 (già però modificato con l. 9 gennaio 1991, n. 20), istitutiva dell’ISVAP (oggi IVASS), nonché la l. 9 gennaio 1991, n. 20, con la quale si disciplinavano le partecipazioni rilevanti e di controllo delle società assicurative.
Se anche non vi era stato, nella transizione da una generazione all’altra, un radicale sovvertimento disciplinare e se pur il nucleo essenziale della normativa era stato sostanzialmente conservato, appariva giustificato lo sconcerto dell’interprete di fronte ad un procedimento che lo costringeva ad una ardimentosa gimkana tra norme di incerta vigenza, quando non ad interrogarsi sul fatto stesso se esse fossero ancora in vigore.
Era pressante dunque l’esigenza perlomeno di una razionalizzazione dell’intera normativa; sicché, con la l. 29 luglio 2003, n. 229 viene conferita delega al governo per il riassetto delle assicurazioni private. La delega, come sempre più spesso accade, era estremamente generica, tanto è vero che una prima versione del codice delle assicurazioni prevedeva anche la trasposizione in esso dell’intera disciplina dei contratti di assicurazione contenuta nel codice civile. Si levavano alte le critiche contro tale scelta, sia perché difettava la delega, sia per ragioni sistematiche.
Il codice delle assicurazioni viene alfine emanato con il d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209. Esso contiene l’intera normativa sull’impresa di assicurazione, nonché la disciplina sull’informativa dei contraenti, degli intermediari di assicurazione e del contratto di assicurazione obbligatoria R.C. auto. Non vengono, invece, toccate le disposizioni del codice civile.
Il codice delle assicurazioni persegue obiettivi di semplificazione o, più correttamente, di delegificazione, trasferendo all’ISVAP (oggi, IVASS) il potere di disciplinare profili di estremo rilievo della normativa delle imprese di assicurazione. L’esercizio del potere regolamentare da parte dell’Autorità di Vigilanza si è dispiegato in questi anni in modo imponente, con l’emanazione, al momento, di ben 93 regolamenti! Regolamenti che nel corso degli anni vengono poi spesso rivisti, rivisitati ed ampliati e quasi sempre accompagnati da ampie relazioni, con uno sterminato sistema di norme secondarie che occupano ormai migliaia di pagine.
L’interprete, dunque, si trova ancora dinanzi ad un quadro estremamente complesso ed articolato, in continuo movimento, giacché il flusso della normativa europea non si è arrestato, costringendo il nostro legislatore (primario e secondario) ad un’ininterrotta opera di adeguamento dello stesso codice delle assicurazioni.
In tale quadro si colloca, ad esempio, la direttiva 2009/138/Ce (c.d. Solvency II), entrata in vigore nel 2016, incentrata prevalentemente sulla nozione di rischio e di risk management e che si articola su tre pilastri: (i) requisiti patrimoniali delle imprese assicurative; (ii) nuove regole in tema di governance delle stesse; (iii) obblighi di informazione delle imprese verso l’autorità di controllo ed il mercato, per garantire un’adeguata trasparenza del settore.
Nel 2010, intanto, l’Unione europea istituiva un Sistema europeo di vigilanza finanziaria (Sevif) articolato dall’insieme delle autorità di vigilanza dei vari Stati membri e da tre autorità europee di vigilanza, in ambito finanziario, bancario e assicurativo; quest’ultima viene denominata Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (European Insurance and Occupational Pension Authority), più nota con l’acronimo Eiopa.
Perlomeno, ed è questo l’unico aspetto positivo, oggi la disciplina del settore assicurativo, seppur costantemente innervata da interventi che paiono non avere mai fine, si compone in gran parte – oltre all’imponente mole di regolamenti dell’ISVAP (oggi, IVASS) – di (soli) tre testi normativi: il codice delle assicurazioni, il codice civile (per le parti di competenza) ed infine il codice della navigazione per le assicurazioni marittime ed aeree (queste ultime profondamente modificate a seguito della revisione della parte aeronautica del codice della navigazione, conseguente ai d.lgs. n. 96 del 2005 e n. 151 del 2006 e in ottemperanza ai Regolamenti UE e alle Convenzioni internazionali). Permane, ad onor del vero, un consistente numero di leggi speciali che in contesti molto diversi sanciscono l’obbligo di assicurare la responsabilità civile di vari soggetti e variegate attività.