Gli eventi epidemiologici dovuti al Covid-19 hanno determinato una situazione emergenziale che ha messo a dura prova l’economia reale e, quindi, i flussi finanziari che mettono in relazione le imprese ed il mercato dei capitali. Ed invero, al distanziamento sociale ha corrisposto una riduzione dell’attività (e, quindi, di ricavi ed incassi), con l’ovvio effetto di porre le condizioni affinché taluni dei rischi di controparte assunti dai finanziatori delle imprese si potessero realizzare. Ne consegue l’esigenza di un’analisi giuridica dei rapporti che soggiacevano alle fonti di finanziamento delle imprese al fine di comprendere l’incidenza delle misure emergenziali assunte al Governo italiano.
In tale contesto, appare necessario un approfondimento delle disposizioni contenute nel decreto legge 8 aprile 2020, n. 23, le quali dovrebbero far fronte al detrimento delle condizioni micro e macro-economiche del comparto produttivo, senza dar corso ad una forma di intervento che possa rivelarsi idonea a traslare, in capo allo Stato, i rischi assunti dai finanziatori delle imprese. Ciò, a fronte del riscontro della possibilità che le risorse pubbliche possano risolversi in un mezzo utilizzabile per adempiere agli impegni assunti dalle imprese che si erano finanziate attraverso uno shadow credit intermediation process. Non v’è dubbio, infatti, che una dinamica finanziaria siffatta sarebbe incompatibile con i principi cui s’informa il nostro ordinamento giuridico.
Da qui, l’approfondimento dei presidi regolamentari che possono assicurare regolarità di effetti alle misure adottate in materia di accesso al credito, in quanto appare essenziale che le risorse messe a diposizione dallo Stato siano impiegate per far fronte ai significativi impatti economici derivanti dall’emergenza sanitaria e non vengano deviate verso lo shadow banking system.
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