La gestione della fiscalità delle operazioni di riorganizzazione societaria rappresenta da sempre una fonte di incertezza e preoccupazione per le imprese. Con la recente Risposta n. 47 del 10 febbraio 2020, l’Amministrazione finanziaria esamina un complesso quesito in merito alla deducibilità degli ammortamenti nell’ambito di un’operazione di fusione.
La questione prospettata dal contribuente
Dal 1° gennaio 2007, la società ALFA si occupava della gestione del servizio idrico integrato sulla base di un contratto di servizio con l’Autorità competente, il quale prevedeva l’affidamento in esclusiva all’Istante stessa delle reti, degli impianti e di altre dotazioni patrimoniali strumentali e l’impegno per quest’ultima di adeguare tutti i beni ricevuti in concessione alle normative in materia tecnica e di sicurezza. I beni erano, dunque, oggetto di un contratto di concessione stipulato tra l’Istante e le c.d. società patrimoniali, partecipate dagli enti locali, proprietarie dei beni, a fronte del pagamento di un canone definito dall’Autorità competente per il territorio. Nonostante lo schema di tali contratti, approvato dall’Autorità, prevedesse, alla scadenza del contratto, che il complesso dei beni dovesse essere riconsegnato alle società patrimoniali in perfetto stato di funzionamento, salvo l’inevitabile deperimento dato dall’uso, i singoli contratti stipulati tra le parti disciplinavano in maniera diversa le modalità di restituzione dei beni. Anche in relazione agli ammortamenti, non era contenuta una specifica indicazione, fatta eccezione per un singolo contratto, nel quale era previsto che gli ammortamenti fossero effettuati da ALFA. Pertanto, si sono osservati comportamenti disomogenei nelle politiche di ammortamento civilistico e fiscale: in alcuni casi, le società patrimoniali hanno interrotto il processo di ammortamento di tutti o parte dei beni dati in concessione; in altri casi, il piano di ammortamento è stato interrotto a partire dall’anno successivo a quello di sottoscrizione del contratto.
In virtù delle disposizioni contenute nell’art. 1, commi 611 e seguenti, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, relative allo scioglimento delle aziende speciali partecipate dagli enti locali, questi ultimi provvedevano a cedere le relative quote di partecipazione ad ALFA per permetterle la successiva incorporazione. Il valore dei beni oggetto di concessione è stato determinato in sede di quantificazione del prezzo di acquisto delle quote sulla base di un criterio convenzionale diretto ad individuare il valore residuo (VR convenzionale). Il punto di partenza di questa determinazione è stato rinvenuto nel costo storico dei beni rettificato tenendo conto di alcune circostanze rilevanti ai fini della determinazione del Valore tariffario: (i) assenza di rivalutazioni monetarie relative ai beni ad eccezione di quelli realizzati dopo il 2007; (ii) calcolo degli ammortamenti e dei relativi fondi a partire dall’anno di iscrizione del cespite fino al 31 dicembre 2017 utilizzando le aliquote imposte dall’Autorità che prevedono un periodo di ammortamento differente rispetto a quello adottato dalle società patrimoniali nei periodi precedenti il contratto di concessione; (iii) assimilazione ai contributi a fondo perduto spalmati nella stratificazione dei cespiti, dei pagamenti per i canoni di concessione/rimborso mutui effettuati dall’Istante nel periodo 2007-2017.
A seguito della fusione, ALFA avrebbe iscritto i cespiti ereditati dalle società patrimoniali al costo storico con il relativo fondo di ammortamento al quale erano iscritti nella contabilità delle incorporate, insieme alla rettifica necessaria al fine di allineare tali valori a quelli determinati in sede di quantificazione del prezzo di acquisto delle quote. Qualora le incorporate non avessero provveduto, ALFA avrebbe rilevato il minor valore imputando l’avanzo di fusione a decremento del valore contabile dei beni. Con riferimento al piano di ammortamento, l’Istante intendeva considerare quale valore residuo da ammortizzare il valore determinato sulla base del criterio convenzionale al netto della svalutazione e quale vita utile residua quella prevista dall’Autorità a decorrere dall’anno di prima iscrizione del bene nel bilancio della incorporata.
In relazione al valore fiscale residuo, l’Istante richiamava la disomogeneità dei comportamenti adottati dalle società patrimoniali precisando che il valore fiscale dei beni era al lordo delle quote di ammortamento per gli anni oggetto di concessione; tale circostanza, assieme alle rettifiche apportate in sede di determinazione del VR convenzionale, era alla base del disallineamento tra il valore di iscrizione del bene e del relativo fondo nel bilancio delle incorporate e in quello di ALFA.
L’Istante chiedeva, pertanto, chiarimenti in ordine all’individuazione del valore fiscale residuo da riconoscere a tali beni: se lo stesso fosse da considerarsi al lordo degli ammortamenti non effettuati negli anni oggetto del contratto di concessione oppure al netto degli ammortamenti calcolati utilizzando l’aliquota prevista dalle società patrimoniali o quella prevista dall’Autorità. Secondo l’Istante il valore fiscale doveva essere pari al valore residuo calcolato ai fini civilistici con l’applicazione del criterio convenzionale; inoltre, il piano di ammortamento doveva prevedere una vita utile determinata sulla base delle aliquote previste dall’Autorità a decorrere dall’anno di entrata in funzione per l’incorporata. Le quote di ammortamento così determinate dovevano poi rispettare le disposizioni previste dalla vigente legislazione tributaria, non essendo ammesse in deduzione se superiori a quelle determinate sulla base delle aliquote previste dal D.M. 31 dicembre 1988.
La soluzione dell’Amministrazione finanziaria
La risposta dell’Amministrazione finanziaria si limita a ribadire che a termini dell’art. 172 del TUIR la fusione rappresenta un’operazione, dal punto di vista tributario, neutra con l’ovvia conseguenza che il soggetto incorporante non potrebbe che ereditare gli stessi valori che avevano riconoscimento fiscale in capo alle incorporate. Mossa, poi, dall’evidente preoccupazione di prevenire possibili fenomeni di doppia deduzione, la risposta chiarisce che nell’ipotesi in cui l’incorporante, come è accaduto nel caso in esame a causa del fatto che gli accordi contrattuali si sono intersecati con le complesse vicende relative allo scioglimento delle aziende speciali partecipate da enti locali (vedasi l’art. 1, commi 611 e seguenti, della legge 23 dicembre 2014, n. 190), “…avesse già operato sui beni acquisiti in sede di fusione eventuali ammortamenti dedotti ai fini fiscali, il valore fiscale dei beni acquisiti…” deve essere determinato“…oltre che al netto degli eventuali ammortamenti già dedotti ai fini fiscali dalle incorporate in esercizi precedenti, anche al netto degli ammortamenti già dedotti ai fini fiscali dalla stessa incorporante…”. La lapidaria conclusione consiste nell’intimazione di sterilizzare i maggiori ammortamenti eventualmente transitati nel conto economico dell’incorporante dopo la fusione attraverso opportune variazioni in aumento da operare in sede di dichiarazione dei redditi.
Le questioni di rilevanza fiscale
La pronuncia dell’Amministrazione finanziaria, come si è già detto, è assolutamente coerente con le disposizioni normative e non introduce nessun elemento di novità. Tuttavia, almeno per quanto si evince dalla parte di interpello resa pubblica, non pare sufficiente a risolvere i problemi avanzati dall’Istante. Infatti, sembra di intuire che i dubbi del contribuente derivino dalla difficoltà di ricostruire i corretti valori fiscali considerato che le società incorporate non hanno tenuto comportamenti univoci. Peraltro, non risulta agevole ricostruire neppure il quadro contrattuale che, prima della fusione, regolamentava i rapporti tra incorporante e incorporate, considerato che nella descrizione del quesito si fa un generico riferimento all’affidamento in esclusiva alla società ALFA delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali strumentali alla gestione del servizio. Tuttavia, l’istanza di interpello contiene un richiamo all’art. 2561 del codice civile che sembrerebbe collocare la fattispecie nell’ambito della disciplina dell’affitto d’azienda. Sotto questo aspetto, la risposta n. 47/2020 rappresenta un’occasione di rivisitare rapidamente le implicazioni carattere tributario di questa figura contrattuale anche con riferimento all’ipotesi, non infrequente, che il trasferimento del compendio aziendale divenga definitivo attraverso il ricorso all’istituto della fusione societaria.
La disciplina civilistica stabilisce, innanzi tutto, che l’affittuario debba esercitare l’azienda sotto la ditta che la contraddistingue, con lo scopo di preservarne l’avviamento commerciale ed evitare, quindi, un danno al proprietario concedente. Ma reca anche una previsione, peraltro derogabile per convenzione tra le parti, in particolare all’art. 2561, secondo comma, che attribuisce all’affittuario l’obbligo di mantenere inalterato il livello di efficienza dei beni aziendali e comunque di regolare in denaro le differenze tra il valore corrente iniziale dell’azienda e quello finale, insomma, prevede una sorta di conguaglio. Il trattamento fiscale degli ammortamenti dei cespiti aziendali dipende direttamente dalla circostanza che le parti contrattuali applichino questa disposizione codicistica o si accordino per derogarvi. Solo in questa seconda ipotesi la deduzione degli ammortamenti competerà al concedente, mentre nel primo caso l’affittuario effettuerà degli accantonamenti ad uno specifico fondo di ripristino, che otterranno riconoscimento fiscale nella misura in cui siano coerenti con le disposizioni previste dal TUIR agli articoli 102 comma 8 per i beni materiali e 103, comma 4 per gli immateriali. La deduzione di tali accantonamenti, sebbene non possano essere qualificati tecnicamente come ammortamenti, è garantita nella determinazione del valore della produzione ai fini IRAP, in via extra contabile mediante un’apposita variazione in diminuzione, secondo le istruzioni fornite dall’Agenzia delle Entrate nella circolare 26/E del 2012.
Con riferimento al trattamento fiscale dei cespiti nell’ambito dei contratti di affitto di azienda, vale la pena di ricordare i chiarimenti di un ormai risalente documento dell’Amministrazione finanziaria, la Nota DRE Emilia Romagna n. 42049 del 7 ottobre 1996, che affronta la fattispecie anche da un punto di vista pratico.
Infatti, nella sua nota, la DRE ricordava che la disciplina tributaria prevede la commisurazione delle quote di ammortamento al costo originario dei beni risultante dalla contabilità del concedente, ma precisava anche che la deducibilità era consentita fino a concorrenza del costo non ancora ammortizzato e che nel caso in cui il concedente non avesse tenuto regolarmente il registro dei beni ammortizzabili dovevano considerarsi “…dedotte, per il 50%, le quote relative al periodo di ammortamento decorso”. Ne consegue che l’affittuario deve “…prendere visione del registro dei cespiti ammortizzabili del concedente e tenere un proprio registro dei beni ammortizzabili, sul quale saranno annotati i dati riguardanti i singoli beni strumentali”, cautela quanto mai opportuna considerato che le disposizioni tributarie non disciplinano espressamente la modalità con cui il concedente deve rendere noto alla sua controparte contrattuale il valore fiscalmente riconosciuto degli asset trasmessi con l’affitto d’azienda.
Infine, qualche considerazione conclusiva sull’ipotesi che l’affitto d’azienda sia una fase di un processo di integrazione più ampio che si concluda con l’incorporazione da parte della società affittuaria di quella concedente. Come è noto, l’art. 172 del TUIR erge una serie di presidi che hanno lo scopo di evitare che la successione in situazioni tributarie soggettive avvenga in violazione dei principi dell’ordinamento tributario e a tale scopo pone una serie di limiti in materia di riportabilità delle perdite fiscali, degli interessi indeducibili e delle eccedenze ACE. Evidentemente nell’ipotesi in cui una conceda in affitto l’intero compendio aziendale, la società concedente non avrebbe la possibilità di raggiungere gli stringenti requisiti previsti dal comma 7 dell’art. 172. Tuttavia, si può ragionevolmente ritenere che la circostanza che la fusione sia preceduta dall’affitto d’azienda testimoni l’esistenza di un reale progetto industriale volto a perseguire finalità imprenditoriali meritevoli di tutela, per cui, anche a prescindere da qualsiasi altra considerazione, l’esistenza di effettive ragioni economiche dovrebbe escludere l’applicazione delle disposizioni antielusive.