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Attualità

Le merchant bank nell’ambito dell’art. 162-bis del T.U.I.R.

14 Novembre 2019

Luca Rossi e Andrea Conte, Facchini Rossi Michelutti Studio Legale Tributario

1. Premessa

Il presente lavoro si pone l’obbiettivo di sviluppare alcune riflessioni in relazione ad una particolare categoria di soggetti operanti nel settore finanziario, le c.d. merchant bank, alla luce delle nuove definizioni – valevoli ai fini fiscali – di intermediari finanziari, holding finanziarie e non, nonché soggetti a queste ultime assimilati contenute nell’art. 162-bis del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (“T.U.I.R.”)[1].

Se da un lato, infatti, la predetta disposizione normativa ha l’indubbio merito di aver fornito – superando le incertezze interpretative venutesi a creare in passato – una definizione univoca di “intermediari finanziari” ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP, dall’altro lato tuttavia ad oggi sussistono ancora (fondati) dubbi in merito all’inquadramento (o meno) delle merchant bank nell’ambito delle “categorie” di cui al citato art. 162-bis (e,in particolare, come meglio evidenziato più oltre, tra i soggetti che svolgono attività di assunzione di partecipazioni in soggetti finanziari – le c.d. holding di finanziarie – ovvero non finanziari – le c.d. holding non finanziarie/industriali).

Ciò posto, nel prosieguo, dopo aver fornito brevi cenni in merito all’evoluzione delle disposizioni che hanno portato all’esclusione delle merchant bank dal novero degli intermediari finanziari “in senso stretto”, si provvederà – in mancanza di chiarimenti legislativi e di prese di posizione ufficiali da parte dell’Agenzia delle Entrate – ad analizzare le considerazioni svolte sul punto da attenta dottrina, anticipando fin da subito come le riflessioni nel seguito esposte siano tutte basate

su solide “fondamenta” argomentative e, pertanto, al momento si ritiene non sia possibile esprimere un giudizio di maggiore fondatezza a favore di una specifica interpretazione piuttosto che ad un’altra.

2. L’inquadramento (o meno) delle merchant bank nell’ambito dell’art. 162-bis del T.U.I.R.

Si ricorda, in via preliminare, che l’art. 162-bis in commento prevede, in particolare, al primo comma, che:

“Ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si definiscono:

a) intermediari finanziari:

  1. i soggetti indicati nell’articolo 2, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 28 febbraio 2005, n. 38, e i soggetti con stabile organizzazione nel territorio dello Stato aventi le medesime caratteristiche;
  2. i confidi iscritti nell’elenco di cui all’articolo 112-bis del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385;
  3. gli operatori del microcredito iscritti nell’elenco di cui all’articolo 111 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385;
  4. i soggetti che esercitano in via esclusiva o prevalente l’attività di assunzione di partecipazioni in intermediari finanziari, diversi da quelli di cui al numero 1);

b) società di partecipazione finanziaria: i soggetti che esercitano in via esclusiva o prevalente l’attività di assunzione di partecipazioni in intermediari finanziari;

c) società di partecipazione non finanziaria e assimilati:

  1. i soggetti che esercitano in via esclusiva o prevalente l’attività di assunzione di partecipazioni in soggetti diversi dagli intermediari finanziari;
  2. i soggetti che svolgono attività non nei confronti del pubblico di cui al comma 2 dell’articolo 3 del regolamento emanato in materia di intermediari finanziari in attuazione degli articoli 106, comma 3, 112, comma 3 e 114 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, nonché dell’articolo 7-ter, comma 1-bis, della legge 30 aprile 1999, n. 130.”

Nei successivi commi 2 e 3 dell’art. 162-bis, vengono quindi definiti i requisiti ai fini dell’”esercizio in via prevalente di attività di assunzioni di partecipazioni”, rispettivamente, in “intermediari finanziari” e in “soggetti diversi dagli intermediari finanziari”[2].

Tanto premesso, come notato, si ritiene anzitutto che le merchant bank debbano essere escluse dal novero dei c.d. intermediari finanziari “in senso stretto” e, quindi, dalle categorie di cui al precedente commi 1 lett. a), nn. 1, 2 e 3 dell’art. 162-bis.

Ciò, in particolare, deriva dal progressivo processo di riforma che, a far data dal 2010 e fino al 2015, ha portato, sotto il profilo civilistico-contabile, ad una totale esclusione della detenzione di partecipazioni dalle attività finanziarie in senso stretto, comportando, in particolare, (i) da un lato, l’esclusione di taluni soggetti – tra cui le merchant bank – dall’obbligo di iscrizione nell’elenco generale degli intermediari finanziari di cui all’art. 106 del D.Lgs. 1° settembre 1993, n. 385 (“TUB”)[3] e, (ii) dall’altro lato, l’esclusione dal novero dei soggetti finanziari anche dei soggetti esercenti l’attività di gestione di partecipazioni assunte a fini speculativi (quali tipicamente, appunto, le merchant bank)[4].

Ciò posto, si evidenzia che secondo una prima interpretazione dottrinale[5], le merchant bank non dovrebbero rientrare nel concetto né di “holding finanziarie” né in quello di “holding non finanziarie (c.d. holding industriali/commerciali) … anche se occasionalmente possono possedere partecipazioni in soggetti finanziari o in soggetti industriali che supererebbero il test previsto dai commi 2 e 3 dell’art. 162-bis del TUIR”. Secondo tale opinione, quindi, detti soggetti non troverebbero collocazione, più in generale, all’interno della citata disposizione[6].

Tale considerazione si fonda, essenzialmente, sulla base di un duplice ordine di motivi: (i) in quanto, a seguito degli interventi normativi che hanno interessato la disciplina civilistica in materia di vigilanza bancaria e le regole di redazione del bilancio (cfr. supra, note 3 e 4), l’attività di detenzione di partecipazioni a fini speculativi (e cioè detenute al fine di una loro cessione) non è più considerata attività “finanziaria”[7] e (ii) l’art. 162-bis sembrerebbe, invece, essere rivolto a quei soggetti (quali appunto le holding) che assumono partecipazioni ai fini di detenzione/investimento[8].

Ad avviso di altra dottrina[9], invece, l’esclusione delle merchant bank dal novero degli intermediari finanziari non comporterebbe che queste ultime non possano comunque essere considerate soggetti che svolgono attività di assunzione di partecipazioni in soggetti finanziari e non finanziari e, quindi, essere assimilati alle c.d. holding di partecipazioni finanziarie e non finanziarie/industriali (trovando quindi ipotetica collocazione nelle “categorie” di cui al comma 1, lett. a, n. 4), b) e c), n. 1 dell’art. 162-bis).

Ed infatti, secondo tale ultima interpretazione[10], partendo dal presupposto che “le merchant bank, al pari delle holding” svolgono “attività di assunzione di partecipazioni sociali in soggetti non finanziari”, si giunge a sostenere che il fatto che le prime, a differenza delle holding, “assumano partecipazioni non per investimento durevole ma a fini di successivi smobilizzi non appare sufficiente di per se a classificarle fuori dal perimetro di appartenenza degli intermediari così come classificati dall’art. 162-bis”.

In maggior dettaglio, premesso infatti che (i) sino alla riforma del titolo V del TUB, “la caratteristica principale per essere inquadrati quali intermediari finanziari era quella di svolgere attività finanziaria nei confronti del pubblico” e che (ii) a seguito della predetta riforma “è stata invece prevalente la valutazione del rischio sistemico bancario di questi soggetti, che laddove assente o molto ridotto, come appunto è stato valutato dalla Banca d’Italia quello delle merchant bank … ha comportato … la loro espulsione dagli intermediari finanziari”, si evidenzia come (iii) “lo spostamento di attenzione verso l’assenza di rischio sistemico non ha eliminato l’inquadramento delle merchant bank, che resta caratterizzato dall’attività di assunzione di partecipazioni, esattamente come avviene per le holding industriali e commerciali” e, come, in definitiva (iv) con riferimento alle merchant bank si debba procedere alla “valutazione della prevalenza in modo da verificare se debbano essere inquadrate tra le società di partecipazioni in intermediari finanziari ovvero in soggetti non intermediari finanziari, unici due comparti che ai fini fiscali l’art. 162-bis ha definito”. Ne deriva, quindi che, secondo questa seconda interpretazione, per quanto desumibile dal tenore letterale della norma in commento, assume quindi rilievo l’aspetto sostanziale della detenzione delle partecipazioni “senza distinzione tra finalità di investimento stabile e quella volta a successivi smobilizzi”[11].

3. Considerazioni conclusive

Come anticipato in premessa, in mancanza di chiarimenti, si ritiene di poter affermare che sia l’interpretazione che tende ad escludere le merchant bank dall’ambito di applicazione dell’art. 162-bis, sia quella che sostiene che, a seconda della prevalenza delle partecipazioni in “intermediari finanziari ovvero in soggetti non intermediari finanziari”, queste possano assumere la qualifica, rispettivamente, di società di partecipazione finanziaria/non finanziaria, siano, in linea di principio, da considerarsi ammissibili.

Ciò posto, occorre tuttavia evidenziare che, ad avviso di chi scrive, non appare dirimente ai fini della soluzione della problematica la distinzione per cui, in via generale (e per quanto qui di interesse) le holding (cui si rivolge la norma) sono solite assumere partecipazioni societarie ai fini di investimento “stabile” mentre, al contrario, le merchant bank operano a fini “speculativi”.

Tale criterio, basato sulla “durevolezza” o meno del legame partecipativo, sembra infatti “perdere di valore” alla luce dell’impianto normativo recato dall’art. 162-bis[12], il quale parrebbe lasciare spazio, di fatto, alla possibilità che, di anno in anno, un soggetto possa o meno essere ricompreso nell’ambito di applicazione della norma a seconda della tipologia degli investimenti effettuati.

Peraltro, non si ritiene altresì possibile propendere per la maggiore fondatezza di una delle due interpretazioni sopra esposte sulla base di criteri maggiormente “cautelativi”.

Si pensi, ad esempio, all’ipotesi in cui si consideri più “sicuro” qualificare un determinato soggetto quale società di partecipazione non finanziaria ai sensi della norma in esame (piuttosto che, sulla base della prima interpretazione dottrinale sopra proposta, del tutto esclusa dal novero dell’art. 162-bis) in virtù dell’applicazione della maggiorazione dell’aliquota IRAP[13]. In tal caso, infatti, occorrerebbe comunque verificare caso per caso, in particolare, se in concreto il soggetto in esame non risulti fortemente indebitato e, quindi, non abbia iscritto rilevanti interessi passivi nel proprio conto economico in grado di abbattere la propria base imponibile ai fini IRAP[14].

In conclusione, sulla base di quanto sopra esposto ed argomentato, si ritiene quindi di poter affermare che sia quanto mai opportuno un pronto intervento da parte dell’Agenzia delle Entrate che definisca chiaramente – ai fini del conseguente corretto regime fiscale applicabile – l’inquadramento delle merchant bank rispetto alle disposizioni recate dal citato art. 162-bis T.U.I.R..

 


[1] Si ricorda che la disposizione all’esame è stata introdotta nel T.U.I.R. ad opera dell’art. 12 del D.Lgs. 29 dicembre 2018, n. 142 (emanato per il recepimento delle c.d. direttive ATAD 1 ed ATAD 2).

[2] In particolare, il secondo comma dell’art. 162-bis prevede che “Ai fini del comma 1, l’esercizio in via prevalente di attività di assunzione di partecipazioni in intermediari finanziari sussiste, quando, in base ai dati del bilancio approvato relativo all’ultimo esercizio chiuso, l’ammontare complessivo delle partecipazioni in detti intermediari finanziari e altri elementi patrimoniali intercorrenti con gli stessi, unitariamente considerati, inclusi gli impegni ad erogare fondi e le garanzie rilasciate, sia superiore al 50 per cento del totale dell’attivo patrimoniale, inclusi gli impegni ad erogare fondi e le garanzie rilasciate”. A sua volta, nel successivo terzo comma è previsto che “Ai fini del comma 1, l’esercizio in via prevalente di attività di assunzione di partecipazioni in soggetti diversi dagli intermediari finanziari sussiste, quando, in base ai dati del bilancio approvato relativo all’ultimo esercizio chiuso, l’ammontare complessivo delle partecipazioni in detti soggetti e altri elementi patrimoniali intercorrenti con i medesimi, unitariamente considerati, sia superiore al 50 per cento del totale dell’attivo patrimoniale.”

[3] Ci si riferisce, in particolare, al D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141.

[4] Cfr., in particolare, il D.M. 2 aprile 2015, che ha sostituito il D.M. 17 febbraio 2009, n. 29 e il D.Lgs. n.18 agosto 2015, n. 136.

[5] Cfr. Assonime, Circ. 24 luglio 2019, n. 16 (in particolare, pag. 39).

[6] Si evidenzia che, nel prosieguo, non verrà presa in considerazione la fattispecie di cui al comma 1 lett. c), n. 2 dell’art. 162-bis, in quanto i soggetti ivi ricompresi sono, sostanzialmente, le società che svolgono attività latu sensu “finanziaria” non nei confronti del pubblico, bensì nei confronti del proprio gruppo di appartenenza (ad esempio, l’attività di leasing – cfr. Assonime, Circ. n. 16/2019, citata).

[7] Ad avviso dell’Associazione di categoria, analoghe considerazioni dovrebbero valere anche per le società che svolgono attività di “gestione dinamica di un portafoglio azionario” e che, al pari delle merchant bank, non dovrebbero essere considerate né holding di partecipazione finanziaria, né holding di partecipazione non finanziaria (cfr. Assonime, Circ. n. 16/2019, citata, pag. 39, nota 47).

[8] Al riguardo, pur riconoscendo l’opportunità di un chiarimento ufficiale in quanto “in effetti, sotto il profilo letterale la norma si riferisce tout court alle società che detengono partecipazioni oltre una determinata soglia”, si sottolinea che comunque “la ratio dovrebbe essere quella di identificare in questo modo le società che assumono la funzione di holding” (Cfr. Assonime, Circ. n. 16/2019, citata, pag. 39, nota 48).

[9] Cfr. Assoholding, Circ. 8 ottobre 2019, n. 2.

[10] Cfr. Assoholding, Circ. n. 2/2019, citata, pagg. 26-28.

[11] Si evidenzia, peraltro, che l’inclusione delle merchant bank nel novero delle holding di partecipazione non finanziaria – e, quindi, nell’ambito di applicazione dell’art. 162-bis – porta Assoholding a sviluppare ulteriori riflessioni in merito al c.d. “test di prevalenza” recato dal terzo comma della disposizione all’esame (cfr. supra, nota 2). Al riguardo, l’Associazione evidenzia, in particolare, che ai fini del calcolo della prevalenza (cfr., Circ. n. 2/2019, pagg. 42-43) : (i) “debbano essere considerate tutte le partecipazioni, iscritte sia tra le immobilizzazioni finanziarie che nell’attivo circolante”, in quanto detta distinzione rileverebbe ai fini della determinazione del reddito d’impresa e dell’applicabilità della c.d. partecipation exemption, ma non ai fini del calcolo di prevalenza; (ii) pur non essendo escluse dalla lettera della norma, “le partecipazioni acquisite presso mercati regolamentati e non, in minima percentuale per investimento in portafoglio”, alla luce della mancanza di rischio d’impresa derivante dall’assunzione di tali partecipazioni, si auspica un chiarimento che porti a ritenere escluse dal calcolo di prevalenza “tutte quelle partecipazioni azionarie acquisite sul mercato inferiori al 3% e al 5% se si tratta di PMI (si veda art. 120 TUF)” (cfr., in tal senso, anche G. De Vito, Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2019, Merchant Bank escluse dal rischio bancario); (iii) sono esclusi dal calcolo gli immobili locati alle partecipate, gli investimenti in liquidità e le attività finanziarie “frutto del mero impiego di eccedenza di liquidità” (a patto che questi ultimi investimenti non siano effettuati per conto di società del gruppo “nell’ambito di un rapporto di deposito e custodia”, dovendo in tale ultima ipotesi rilevare ai fini del test). Per ulteriori approfondimenti sull’argomento (in particolare, con riferimento agli investimenti in Sicav o Sicaf) si rimanda a quanto diffusamente esposto alle pagg. 43-45 della citata circolare).

[12] Ci si riferisce, in particolare, al fatto che il parametro della prevalenza dell’assunzione di partecipazioni in intermediari finanziario in soggetti diversi dagli intermediari finanziari– di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 162-bis – vienemisurato annualmente sulla base dell’ultimo bilancio approvato.

[13] Cfr., in tal senso, l’art. 6, comma 9, del D.Lgs. n. 446/1997, il quale prevede che “Per le società di partecipazione non finanziaria e assimilati, la base imponibile è determinata aggiungendo al risultato derivante dall’applicazione dell’articolo 5 la differenza tra gli interessi attivi e proventi assimilati e gli interessi passivi e oneri assimilati. Gli interessi passivi concorrono alla formazione del valore della produzione nella misura del 96 per cento del loro ammontare”.

[14] All’esito del predetto calcolo, infatti, potrebbe sì essere stata applicata l’aliquota IRAP maggiorata, ma su una base imponibile fortemente ridotta dell’ammontare degli interessi passivi ai sensi dell’art. 6, comma 9, D.Lgs. n. 446/1997, citato.

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