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Approfondimenti

Le novità MiFID II del Retail Investment Package nella versione del Consiglio UE

22 Luglio 2024

Matteo Arrigoni, Ricercatore in Diritto Commerciale, Università Cattolica del Sacro Cuore

Antonio Savazzi, Associate Director, Protiviti

Di cosa si parla in questo articolo

Il presente contributo analizza le principali modifiche a regime MiFID II introdotte dal Retail Investment Package nella versione adottata lo scorso 12 giugno dal Consiglio dell’Unione europea.


1. Introduzione

In data 12 giugno 2024 il Consiglio dell’Unione europea ha raggiunto un accordo sul pacchetto normativo relativo agli investimenti al dettaglio (Retail Investment Package, RIP)[1], volto a «garantire che il quadro giuridico per gli investimenti al dettaglio responsabilizzi sufficientemente i consumatori, incoraggi risultati migliori e più equi sul mercato e, in ultima analisi, crei le condizioni necessarie per aumentare la partecipazione degli investitori al dettaglio ai mercati dei capitali»[2].

A tal fine, il RIP intende modificare le regole che si applicano alla prestazione dei servizi di investimento, alla gestione dei fondi comuni di investimento e alla distribuzione assicurativa[3].

La presente nota si concentrerà sulle principali modifiche a MiFID II introdotte dalla versione pubblicata dal Consiglio (d’ora in poi “MiFID II Council”), senza trascurare il confronto con la proposta originaria della Commissione europea pubblicata il 24 maggio 2023 (d’ora in poi “MiFID II European Commission” o, nella versione italiana, “MiFID II Commissione europea”) e con quella successiva contenuta nel parere del Committee on Economic and Monetary Affairs al Parlamento europeo il 2 aprile 2024 (d’ora in poi “MiFID II European Parliament”)[4].

In sintesi, nella versione del Consiglio, risulta confermata l’impostazione precedente sulle comunicazioni e le pratiche di marketing, tranne che per l’eliminazione del regime sui c.d. finfluencer (infra, par. 2). Cambia significativamente, invece, la strategia normativa volta a evitare che gli investitori ricevano prodotti che presentino uno scarso o nullo rapporto qualità-prezzo (c.d. Value for Money: infra, par. 3). Il Consiglio precisa l’obbligo di servire al meglio gli interessi dei clienti e, allo stesso tempo, elimina un obbligo di astensione dal prestare il servizio particolarmente significativo introdotto dal Parlamento europeo (infra, par. 4). Innovativa risulta, ancora, la disciplina sugli inducement, in particolare con l’introduzione di un nuovo inducement test (infra, par. 5). Nell’ambito della valutazione di adeguatezza e appropriatezza, il Consiglio si avvicina alla versione della Commissione europea, anziché a quella del Parlamento europeo, perché riprende il criterio volto a escludere la raccomandazione di un prodotto con caratteristiche supplementari non necessarie (infra, par. 6) e aumenta la gamma di informazioni sul cliente da ottenere per la valutazione di appropriatezza (infra, par. 7). Con riferimento alla classificazione della clientela, le tre istituzioni europee sono sostanzialmente d’accordo quanto al favorire la richiesta di essere classificati come clienti professionali, mentre hanno opinioni differenti sulle regole che si applicano alle varie categorie, con il Consiglio che, al riguardo, intende mantenere il regime attuale di MiFID II (infra, par. 8). Il paragrafo 9 conclude.

2. Le comunicazioni e le pratiche di marketing

Gli investitori possono prendere decisioni di investimento influenzate dalle comunicazioni di marketing. Gli investitori al dettaglio soggetti a comunicazioni di marketing ingannevoli hanno maggiori probabilità di ricevere uno strumento finanziario o un servizio di investimento non coerente con le proprie caratteristiche, anche quando ricevono informazioni che non sono false, ad esempio quando esse mettono in risalto solo i benefici, “nascondendo”, di contro, i costi attraverso vari collegamenti ipertestuali[5]. In un tale contesto, la tendenza crescente verso la commercializzazione di prodotti e servizi attraverso canali digitali (ad esempio, tramite i c.d. finfluencer) comporta vantaggi, ma anche rischi ulteriori[6].

Per tutelare gli investitori al dettaglio dalle comunicazioni e pratiche commerciali ingannevoli, il Consiglio conferma l’impostazione – introdotta dalla Commissione e ribadita dal Parlamento europeo – che si affida a una pluralità di strategie normative, quali la disciplina di trasparenza, la regolamentazione del prodotto e l’adozione di misure organizzative interne. Avendo riguardo alla disciplina di trasparenza, gli intermediari hanno l’obbligo di individuare chiaramente le comunicazioni di marketing e di garantire che siano adeguatamente attribuite all’impresa di investimento, nonché quello di definire, formulare e presentare comunicazioni e pratiche di marketing in modo imparziale, chiaro e non fuorviante, con un equilibrio nell’esposizione di benefici e rischi (art. 24c(1)(2), MiFID II Council). Con riferimento alla regolamentazione del prodotto, le imprese di investimento devono provvedere a che la strategia di distribuzione degli strumenti finanziari che realizzano sia compatibile con il target market individuato, anche in relazione alle comunicazioni e pratiche di marketing (art. 24(2)(b) MiFID II Council). Relativamente alle misure organizzative, infine, gli intermediari sono tenuti a definire, approvare e controllare «una politica in materia di comunicazioni e pratiche di marketing volta a garantire il rispetto degli obblighi previsti» dal nuovo articolo 24c (art. 9(3), co. 2, (d) MiFID II Council), agevolato dal fatto che gli organi di gestione ricevono relazioni annuali sull’uso delle comunicazioni di marketing e delle relative strategie (art. 24c(5) MiFID II Council).

Migliorare le modalità con cui si comunicano le informazioni e il loro contenuto può certo favorire scelte di investimento più ponderate. I limiti alla disciplina di trasparenza[7] possono, inoltre, essere gestiti dalle ulteriori strategie normative adottate, la cui efficacia può essere assicurata dal conseguente enforcement pubblico. Sotto un diverso profilo, gli intermediari dovranno definire, o revisionare se già presenti, specifici processi connessi alla gestione delle comunicazioni o pratiche di marketing, in modo integrato con quelli relativi alla product governance.

Il Consiglio elimina, invece, il regime – introdotto, invece, dal Parlamento europeo – per i finfluencer. Il Parlamento europeo, infatti, aveva previsto l’obbligo di concludere un accordo scritto con un finfluencer che rispetti le indicazioni della legge, di fornire all’autorità competente che li richieda i dettagli dell’identità e dei contatti del finfluencer, nonché di verificare regolarmente se l’attività del finfluencer rispetta le indicazioni previste dalla legge in materia di comunicazioni e pratiche di marketing (art. 24c(4a) MiFID II European Parliament), affidando, inoltre, all’autorità competente il potere di impedire l’attività dei finfluencer che siano remunerati da un’impresa non autorizzata (art. 5a(1), co. 2, MiFID II European Parliament).

Rimuovere il regime previsto per i finfluencer alleggerisce la tutela per gli investitori che, specie i più giovani, sono particolarmente esposti alle forme di «digital mis-selling» (così il Considerando n. 31a MiFID II European Parliament)[8]. Di contro, prevedere tale regime comporta, oltre a una maggior tutela degli investitori più vulnerabili, costi aggiuntivi solo per chi si avvale di tali soggetti. Pertanto, più sensata risulta, su questo aspetto, la soluzione proposta dal Parlamento europeo.

3. Product governance e Value for Money

Gli investitori possono ricevere prodotti che presentano uno scarso o nullo rapporto qualità-prezzo (c.d. Value for Money, V4M). Come è stato riscontrato da EIOPA e da ESMA, infatti, l’elevato livello di costi addebitati agli investitori al dettaglio può avere un impatto significativo sui rendimenti netti ponderati per il rischio, diminuendo così il risultato dell’investimento[9]. In un tale contesto, le norme attuali in materia non affrontano in maniera efficace il problema. Anzitutto, perché non sono sufficientemente granulari in relazione ai fattori di costo, il che rende problematico il loro monitoraggio e la loro applicazione. Inoltre, perché mancano informazioni disponibili sui costi relativi ai prodotti di investimento, il che aumenta ulteriormente le difficoltà di applicazione delle norme, in quanto le valutazioni sull’efficacia dei costi possono essere percepite come arbitrarie se non si basano sul confronto dei dati e su parametri di riferimento oggettivi[10].

Per affrontare questo problema, il Retail Investment Package si affida a un modello innovativo, sul lato dell’offerta, volto a identificare i “difetti” di un prodotto dalla comparazione con i suoi simili, attraverso l’individuazione di criteri e metodologie che favoriscano una «determinazione oggettiva e comune del Value for Money in tutti gli Stati Membri»[11]. Al riguardo, il Consiglio supera l’impostazione della Commissione e del Parlamento europeo. Anzitutto, non si focalizza in via principale sul prezzo, ma amplia i criteri per confrontare i prodotti, come reso evidente dal “rebranding” del processo: non più, come nelle versioni precedenti, denominato “pricing process”, bensì “V4M assessment process”. Più nel dettaglio, per identificare i prodotti equivalenti, l’intermediario deve utilizzare criteri quali il tipo di prodotto, il livello di rischio, le strategie, gli obiettivi, periodo di detenzione e caratteristiche di sostenibilità (art. 16-a(1), co. 3, MiFID II Council). In secondo luogo, il Consiglio modifica le procedure per il confronto con altri prodotti, “combinando” le proposte di Commissione e Parlamento europeo: il confronto è con un “gruppo di pari” identificato da ciascuna impresa di investimento – come previsto dal Parlamento europeo – oppure, se «appropriate and feasible» per ESMA e se previsto dallo specifico Stato membro, con un benchmark previsto da ESMA – come introdotto dalla Commissione (art. 16-a(1), co. 3 e 8, MiFID II Council). In terzo luogo, il Consiglio modifica gli input che l’intermediario deve utilizzare per creare i “gruppi tra pari”; questi non sono più rimessi alla discrezionalità delle singole imprese di investimento – come nella versione del Parlamento europeo -, ma sono resi disponibili da ESMA (che, per tale attività, potrebbe richiedere una commissione alle imprese di investimento: art. 16-a(9a), co. 1 e 3, MiFID II Council).

L’intervento legislativo si presta a una valutazione ambivalente. Ampliare i criteri per confrontare i prodotti ha l’effetto di introdurre una certa flessibilità nel mercato[12], nonché di formare “gruppi di paripiù simili – e quindi più efficaci a individuare le devianze – ma, allo stesso tempo, aumenta il rischio di creare “gruppi di pari” molto selettivi, che potrebbe così diminuire la rappresentatività dei gruppi. Aumentare, in secondo luogo, le possibilità per le imprese di investimento di confrontare i prodotti con “gruppi di pari” o con un benchmark potrebbe ridurre i costi di compliance per le imprese di investimento, ma anche creare inutili sovrapposizioni o inefficienti complicazioni[13]; allo stesso tempo, riduce il rischio che i benchmark comportino una regolamentazione dei prezzi (cfr. il Considerando n. 13aa della MiFID II European Parliament), anche se rimane opportuno precisare che la comparazione con i “gruppi di pari” e la vigilanza tramite i benchmark non dovrebbero avere questo effetto (cfr. il Considerando n. 13a della MiFID II Council)[14]. Imporre alle imprese di investimento di utilizzare gli input forniti da ESMA limita, da ultimo, la loro discrezionalità e favorisce così una maggiore standardizzazione dei “gruppi di pari”, prevenendo allo stesso tempo possibili comportamenti opportunistici delle imprese di investimento; le economie di scopo di cui gode ESMA rendono peraltro il processo più efficiente.

Particolarmente significativa risulta, in questo ambito, la modifica dei rimedi da attuare in caso di deviazione dal confronto con gli altri prodotti. Secondo un’impostazione introdotta dal Parlamento europeo, la deviazione di un prodotto dal “gruppo di pari” comporta un obbligo di motivazione aggiuntivo, a cui si aggiunge, nella variante del Consiglio, l’obbligo per l’impresa di investimento di «take appropriate actions to ensure value for money», documentate da un compliance report (art. 16-a(1), co. 6, MiFID II Council)[15]. Si supera in questo modo il vistoso “blocco” suggerito dalla Commissione europea, secondo cui se non era dimostrata la giustificazione e la proporzionalità dei costi rispetto al valore, il manufacturer non poteva approvare il prodotto e l’impresa di investimento non poteva offrire né raccomandare il prodotto (art. 16-a(1), co. 3, (4), co. 4, MiFID II European Commission). Il Consiglio elimina inoltre il potere attribuito – nella versione del Parlamento europeo (cfr. art. 69a(2) MiFID II European Parliament) – all’autorità competente di rimuovere il prodotto dal mercato in caso di devianza dal benchmark senza adeguata spiegazione e senza conseguente correzione.

La preferenza del Consiglio verso strategie normative improntate a misure organizzative, anziché a blocchi all’attività, alleggerisce l’obbligo di comparare i prodotti, con conseguente riduzione della tutela dell’investitore, lasciando allo stesso tempo incertezze interpretative su come colmare la lacuna relativa all’enforcement pubblico. In un tale contesto, particolarmente significativo risulta verificare il rispetto dell’obbligo di motivazione.

4. L’obbligo di servire al meglio l’interesse dei clienti

La complessità dei mercati finanziari rende difficile per gli investitori al dettaglio comprendere i prodotti e i servizi di investimento offerti, compresi i loro costi, rischi e benefici[16]. La troppo bassa alfabetizzazione finanziaria nell’Unione europea aumenta, inoltre, tale complessità per molti investitori[17]. In un tale contesto, risulta ragionevole affidarsi a un intermediario che presti consulenza finanziaria, così da consentire all’investitore di superare gli ostacoli che si frappongono alla sua scelta di investimento[18]. L’intermediario, a sua volta, potrebbe “abusare” della fiducia in lui riposta perseguendo il proprio interesse a scapito di quello del suo cliente. Forse per tale ragione, secondo una recente indagine, solo il 38% degli investitori intervistati è certo che la consulenza finanziaria che riceve è principalmente nel suo miglior interesse, mentre il 45% di essi dichiara esplicitamente di non fidarsi. Il livello di fiducia degli investitori sulla consulenza finanziaria varia a seconda dello Stato membro di appartenenza, dal 60% di fiducia riscontrato in Finlandia, fino al 20% e 19% di fiducia riscontrato, rispettivamente, in Grecia e Cipro[19]. A risolvere il problema dovrebbe provvedere, di per sé, l’obbligo imposto alle imprese di investimento di agire «in modo onesto, equo e professionale, per servire al meglio gli interessi dei loro clienti» (art. 24(1) MiFID II). Per la vaghezza di cui è connotata, tale norma non ha ricevuto un’interpretazione particolarmente cogente, e non sembra, pertanto, sufficiente a impedire comportamenti opportunistici.

In un tale contesto, il Consiglio intende precisare il contenuto dell’obbligo di servire al meglio l’interesse dei clienti. Più nel dettaglio, quando presta il servizio di consulenza, l’intermediario deve considerare anzitutto un ampio range di strumenti finanziari, selezionati sulla base di criteri fissati dalla legge, quali, ad esempio, tipologia, prodotti sottostanti e caratteristiche. In secondo luogo, è tenuto a raccomandare lo strumento finanziario più efficiente, in considerazione di alcuni criteri normativi, quali, ad esempio, performance, livello di rischio e costi (art. 24(1a) MiFID II Council).

L’intervento è da accogliere con favore. Da un lato, promuovendo una maggior scelta tra prodotti – in linea con la Commissione e il Parlamento europeo – il Consiglio riduce il rischio di scelte predeterminate e ricorrenti. Per altro verso, precisando i criteri per individuare il prodotto più efficiente – rispetto alla Commissione e in modo simile al Parlamento europeo – non “appiattisce” il confronto sul lato del costo e, in ogni caso, tutela l’investitore perché riduce la discrezionalità dell’intermediario nella scelta di un prodotto tra quelli adeguati.

Non rilevante appare, di contro, la conferma da parte del Consiglio circa l’impostazione del Parlamento europeo che aveva eliminato un ulteriore requisito introdotto dalla Commissione europea: nella versione originaria della Commissione, l’intermediario doveva, infatti, raccomandare uno o più prodotti privi di caratteristiche supplementari che non sono funzionali al conseguimento degli obiettivi di investimento del cliente e che comportano costi aggiuntivi (art. 24(1a) MiFID II European Commission). Tale obbligo è, infatti, “recuperatodal Consiglio nella precisazione della norma di condotta dell’adeguatezza (art. 25(2), co. 2, MiFID II Council: per un approfondimento, infra, par. 6). Vistosa risulta, viceversa, l’eliminazione ad opera del Consiglio di un obbligo di astensione introdotto dal Parlamento europeo: nella nuova versione, infatti, manca il riferimento all’obbligo per l’intermediario di astenersi dal prestare il servizio di consulenza nel caso di strumenti finanziari per i quali non è in grado di «servire al meglio l’interesse dei clienti» (art. 24(1c) MiFID II European Parliament). La maggior libertà concessa agli intermediari si accompagna a una possibile minor tutela degli investitori.

5. Gli inducement

Il rapporto tra intermediario e cliente assume i tratti di una agency relationship, con rischi di comportamenti opportunistici dettati da conflitti di interesse[20]. Una particolare ipotesi di potenziale conflitto di interessi sorge nel caso di distribuzione di Oicr, dove accanto al modello in cui l’intermediario è pagato direttamente dall’investitore (c.d. fee-based model), è possibile il modello in cui l’intermediario non è pagato direttamente dal cliente, bensì dal produttore dello strumento finanziario, tramite inducement (c.d. commission-based model). Ad esempio, gli incentivi potrebbero influenzare la scelta di un determinato prodotto (c.d. product bias)[21]. La principale risposta tradizionale al problema consiste in una disciplina di trasparenza, in ossequio alla quale l’intermediario è tenuto a comunicare al cliente la percezione dell’incentivo (la legge prevede inoltre il duplice requisito secondo cui gli incentivi «abbiano lo scopo di accrescere la qualità del servizio fornito al cliente» e «non pregiudichino il rispetto del dovere dell’impresa di investimento di agire in modo onesto, equo e professionale nel migliore interesse del cliente: art. 24(9), co. 2, MiFID II). La divulgazione degli incentivi riduce la lacuna informativa, ma non sembra in grado di influenzare sostanzialmente la scelta degli investitori e sono una minoranza di essi comprende effettivamente il concetto[22]. In un contesto in cui i sistemi finanziari nazionali hanno differenti preferenze circa i modelli di business da adottare, l’adozione di una strategia normativa per affrontare tali conflitti di interesse comporta effetti distributivi e si scontra dunque con evidenti ragioni politiche[23]. Come riconosciuto dalla stessa Commissione europea, «un divieto totale degli incentivi» influirebbe «in misura rilevante sui sistemi di distribuzione esistenti»[24]. Non sorprende, pertanto, l’ampia eco delle diverse posizioni assunte da Commissione, Parlamento europeo e Consiglio, in particolare con riferimento all’ambito di applicazione del divieto di inducement e alle condizioni che, invece, ne legittimano la percezione; meno controverso sembra, invece, l’intervento relativo alla trasparenza sugli incentivi.

Più nel dettaglio, avendo riguardo al primo punto, il Consiglio segue l’impostazione del Parlamento europeo ed elimina il “divieto parziale” di inducement introdotto, invece, dalla Commissione nel caso di servizi esecutivi (ad esempio, esecuzione di ordini per conto dei clienti) e di collocamento dei prodotti di investimento al dettaglio preassemblati (c.d. PRIIPS: art. 24a(2) e (4), co. 2, MiFID II European Commission). Secondo la Commissione, questo “divieto parziale” avrebbe avuto il duplice scopo di (1) eliminare «gli incentivi che motivano le imprese a dare maggiore rilievo a determinati prodotti nella loro offerta di prodotti», così da avvantaggiare gli «investitori al dettaglio che investono attraverso servizi di sola esecuzione»[25] (ad esempio, nel caso di gestori che commercializzano i propri prodotti attraverso piattaforme di negoziazione) e (2) garantire che la “deroga” al divieto di inducement «sia incentrata su strumenti fondamentali per la capacità degli emittenti di reperire fondi»[26]. Tali esigenze sono, di contro, affrontate dal Consiglio secondo una innovativa strategia di trasparenza: nel caso di servizi esecutivi prestati tramite strumenti digitali che prevedano un «filtering tool», il filtro deve consentire ai clienti di identificare i prodotti che non comportano inducement, salvo che manchino tali prodotti e di tale evenienza occorre informare il cliente (art. 24a(7) MiFID II Council). Relativamente al secondo aspetto, e cioè alle condizioni che legittimano la percezione degli incentivi, diversamente da Commissione e Parlamento europeo, il Consiglio introduce, oltre a principi generali sugli inducement (ad esempio, l’incentivo deve essere proporzionato al valore del prodotto o del servizio; l’inducement retrocesso da un’entità dello stesso gruppo è trattato allo stesso modo di uno fornito da una terza parte: art. 24a(2) MiFID II Council), il c.d. “inducement test. Sia pur consentendo deroghe[27], secondo questo test, l’intermediario deve, tra le altre cose, (i) considerare criteri qualitativi[28], (ii) rispettare il criterio del quality enhancement test – presente nel regime di MiFID II[29] ed eliminato, invece, nelle versioni della Commissione e del Parlamento europeo[30] -, (iii) provare che la struttura di costo del prodotto considera l’inducement nell’ambito della product governance, (iv) prevedere un meccanismo di reclamo da parte del cliente per ottenere l’inducement qualora l’intermediario violi le norme, (v) strutturare l’incentivo in modo che non preveda una componente variabile che dipenda dal volume di vendita, (vi) fondare l’inducement su un metodo di calcolo chiaro, trasparente e comprensibile, nonché (vi) consentire al cliente di identificare l’inducement separatamente da altri costi e commissioni (art. 24a(3) MiFID II Council). Il Consiglio, da ultimo, lascia inalterata la condizione di disclosure per percepire gli inducement (art. 24a(6) MiFID II Council), che, nel Retail Investment Package, è tuttavia incrementata (cfr. art. 24b MiFID II Council) così da superare l’impostazione di MiFID II, dove gli obblighi di trasparenza sono stati considerati insufficienti «a far fronte ai potenziali conflitti di interessi per i prestatori di servizi finanziari, data l’asimmetria informativa esistente tra gli investitori al dettaglio e tali prestatori»[31].

L’intervento del Consiglio mostra, all’evidenza, di preferire strategie normative che impongono requisiti organizzativi interni, piuttosto che blocchi potenzialmente draconiani all’attività. L’eliminazione del “divieto parziale” introdotto dalla Commissione preserva il modello distributivo esistente in molti Stati membri dell’Unione, mentre l’introduzione di regole sui “filtri” usati dalle piattaforme potrebbe aumentare la tutela dell’investitore, senza incrementare eccessivamente i costi di compliance per gli intermediari. Con l’introduzione dell’inducement test, il Consiglio aumenta la tutela dell’investitore perché: elimina alcune ipotesi in cui è più probabile l’emersione di un conflitto di interessi (ad esempio, con la struttura variabile dell’incentivo); impone requisiti organizzativi ulteriori per gestire potenziali conflitti di interesse (ad esempio, richiedendo una struttura di calcolo dell’incentivo chiara); favorisce un comportamento proattivo del cliente (ad esempio, con una maggiore trasparenza e con la possibilità di avvalersi del nuovo strumento del reclamo).

Allo stesso tempo, l’introduzione dell’inducement test non è priva di effetti distributivi. La necessità di effettuare un ulteriore test comporta infatti un costo per gli intermediari. Pertanto, questa strategia comporta un vantaggio indiretto per chi distribuisce strumenti finanziari senza percepire inducement (ad esempio, i consulenti indipendenti). Nondimeno, adempiere con efficacia a tale obbligo concorre al miglioramento effettivo dei processi distributivi e dei prodotti, con la duplice conseguenza di ridurre il rischio di dover apportare successive modifiche ai propri prodotti, nonché di immettere nel mercato prodotti con valore durevole.

6. La valutazione di adeguatezza

Norma di condotta di maggiore rilevanza nel caso dei servizi di investimento ad alto valore aggiunto (= consulenza in materia di investimenti e gestione individuale di portafoglio)[32], la verifica dell’adeguatezza dell’operazione di investimento costituisce il principale rimedio al rischio di mis-selling, comportando, allo stesso tempo, rilevanti costi di compliance per gli intermediari.

In un tale contesto, le istituzioni europee hanno aumentato il perimetro della verifica di adeguatezza e introdotto un regime di favore per la consulenza indipendente. Più nel dettaglio, come già previsto nella versione della Commissione, nel verificare l’adeguatezza di un prodotto con la situazione finanziaria del cliente, l’intermediario deve considerare anche la composizione di eventuali portafogli titoli e verificare il bisogno di una diversificazione di portafoglio. Tuttavia, secondo l’aggiunta del Parlamento europeo, confermata dal Consiglio, se il cliente non intende fornire informazioni sui propri portafogli detenuti da terze parti, l’impresa di investimento verificherà la diversificazione di portafoglio sulla base delle informazioni in suo possesso (cfr. il Considerando n. 34 e l’art. 25(2), co. 1, MiFID II Council). In secondo luogo, al fine di «incoraggiare la fornitura di consulenza indipendente»[33] – in un contesto in cui le regole introdotte da MiFID II si sono rivelate inefficaci a incentivare un cambiamento verso questo tipo di consulenza[34] -, nel caso di consulenza indipendente avente ad oggetto strumenti finanziari diversificati, non complessi ed efficienti in termini di costi non sarà necessaria una valutazione delle conoscenze e delle esperienze dei clienti e neppure della diversificazione del loro portafoglio (art. 25(2), co. 3, MiFID II Council).

La considerazione della diversificazione di portafoglio, spostando sul cliente l’onere di fornire le informazioni al riguardo, è da accogliere con favore, aumentando la tutela dell’investitore. Più delicata appare, invece, la scelta di favorire la consulenza indipendente: all’evidenza più praticabile, da un punto di vista politico, rispetto alla scelta di vietare gli inducement, tale scelta potrebbe non essere sufficientemente ponderata, trascurando i suoi effetti distributivi e le possibili conseguenze non volute.

Soprattutto, però, il Consiglio introduce nuovamente il criterio – previsto inizialmente nella versione della Commissione con riferimento alla nozione di “best interest” (art. 24(1a) MiFID II European Commission: supra, par. 4) e poi rimosso dal Parlamento europeo – secondo cui non è possibile raccomandare un prodotto che abbia caratteristiche supplementari non funzionali al conseguimento degli obiettivi di investimento del cliente e che comportano costi aggiuntivi (art. 25(2), co. 2, MiFID II Council).

La reintroduzione di questo criterio può avere impatti particolarmente significativi: accanto a un aumento della tutela degli investitori, tale norma potrebbe comportare una riduzione della redditività degli intermediari e incentiva questi ultimi a rivedere i propri processi di approvazione e distribuzione dei prodotti. Allo stesso tempo, una rigida interpretazione di questo criterio mal si concilia con l’impostazione politica adottata dal legislatore europeo di promuovere la finanza sostenibile: ci si potrebbe chiedere, infatti, se un prodotto con caratteristiche ESG possa essere raccomandato a chi abbia esplicitato di non avere preferenze di sostenibilità.

7. La valutazione di appropriatezza

Norma di condotta di minore rilevanza nel caso dei servizi di investimento esecutivi (= ad esempio, esecuzione di ordini per conto dei clienti)[35], la verifica dell’appropriatezza dell’operazione di investimento costituisce un diverso rimedio al rischio di mis-selling, comportando, allo stesso tempo, minori costi di compliance per gli intermediari.

Per aumentare l’efficacia di tale strumento e «rafforzare le garanzie che tutelano gli investitori al dettaglio da investimenti» inappropriati[36], la Commissione europea aveva modificato il regime di appropriatezza (art. 25(3), co. 1, MiFID II European Commission), secondo un intervento prima eliminato dal Parlamento europeo e ora ripristinato dal Consiglio: nell’ultima versione, la gamma delle informazioni sul cliente che gli intermediari devono ottenere e valutare, in caso di appropriatezza, è estesa alla capacità di sostenere perdite totali o parziali e alla tolleranza al rischio (art. 25(3), co. 1, MiFID II Council).

Tale intervento sembra capace di aumentare la tutela dell’investitore[37], peraltro in un contesto in cui la maggior difficoltà per gli intermediari a percepire inducement (supra, par. 5) comporta il c.d. advice gap, con un aumento dei servizi puramente esecutivi[38]. Tuttavia, lasciando inalterata la possibilità del cliente di richiedere all’intermediario di procedere con l’operazione in caso di valutazione negativa di appropriatezza[39] dubbi permangono quanto alla sua efficacia.

8. La classificazione della clientela

L’aumento generale della tutela degli investitori al dettaglio, obiettivo della RIS, non è esente da un aumento dei costi di compliance per gli intermediari. Allo stesso tempo, ha poco senso imporre oneri amministrativi aggiuntivi quando il destinatario della tutela non ha bisogno di un simile livello di protezione[40]. Coerentemente con questa impostazione, le istituzioni europee hanno inteso modificare la classificazione della clientela e i diversi regimi che si applicano a seconda della categoria di clienti.

Cominciando con la prima strategia normativa, per «garantire una classificazione più appropriata dei clienti e ridurre gli oneri amministrativi»[41], la Commissione ha “alleggerito” i criteri di identificazione dei clienti che possono considerarsi professionisti su richiesta. Il Consiglio ha confermato in buona sostanza questa impostazione, sia per quanto riguarda le persone fisiche, che per le persone giuridiche. Quanto alle prime, si propone di ridurre il criterio patrimoniale a 250.000 euro (Section II.1(5) Annex II MiFID II Council)[42]. Il Consiglio, inoltre, modifica il criterio dell’esperienza, richiedendo che il cliente abbia effettuato, in misura significativa, sul mercato rilevante almeno 15 operazioni all’anno negli ultimi tre anni (Section II.1(5) Annex II MiFID II Council)[43]. Avendo riguardo, invece, alle persone giuridiche, il Consiglio – al pari del Parlamento europeo – lascia loro inalterata la possibilità, introdotta dalla Commissione, di annoverarsi tra i clienti professionali su richiesta, se rispettano almeno due tra i criteri relativi al totale di bilancio di 10.000.000 euro, al fatturato netto di 20.000.000 euro, nonché ai fondi propri di 1.000.000 euro (Section II.1(5) Annex II MiFID II Council).

Venendo, invece, alla seconda strategia normativa, il Consiglio elimina le novità – introdotte dalla Commissione europea o dal Parlamento europeo – mantenendo, così, il regime attualmente previsto da MiFID II. In particolare, nel silenzio della Commissione, il Parlamento europeo aveva introdotto la possibilità di negoziare con clienti professionali un regime più leggero (per quanto concerne gli obblighi relativi ai principi di carattere generale e alle informazioni al cliente, con specifico riferimento alle informazioni sui costi, oneri e pagamenti da terze parti, previsti dagli artt. 24 e 24b) quando l’intermediario non presta servizi ad alto valore aggiunti e quando il servizio non ha ad oggetto uno strumento che incorpora un derivato (art. 29a(2a) MiFID II European Parliament). D’altro canto, con riferimento alle controparti qualificate che ricevono un servizio esecutivo, la Commissione – oltre a escludere che si applicasse la disciplina sugli inducement, coerentemente col divieto che aveva introdotto al riguardo – aveva previsto l’applicazione della disciplina sulle informazioni sui costi (art. 30(1), co. 1, MiFID II European Commission). Tali novità non trovano riscontro nella versione del Consiglio.

In un contesto in cui aumentano i costi diretti per gli intermediari e, per conseguenza, i costi indiretti per gli investitori, la possibilità di chiedere di essere considerati come clienti professionali su richiesta rappresenta un’opportunità, perché consente un risparmio di costi, e un rischio, perché diminuisce la tutela. Ampliando i casi in cui è possibile il “cambio categoria” e lasciando inalterata la relativa disciplina, il Consiglio ha provato a trovare un punto di equilibrio tra queste due diverse – e opposte – esigenze[44].

9. Conclusione. I principali temi di discussione

A valle dell’accordo raggiunto dal Consiglio il 12 giugno 2024, le tre istituzioni europee coinvolte nel processo di formazione della legge sono chiamate a cercare un accordo per definire il Retail Investment Package.

I negoziati possono avere esiti imprevedibili. Ciò nondimeno, è possibile fissare qualche punto che sembra comune, così come qualche aspetto di divergenza, nel confronto delle tre proposte di modifica di MiFID II[45].

Quanto ai primi, non particolarmente problematico sembra l’approccio sulle comunicazioni e pratiche di marketing, dove l’unico nodo da sciogliere è rappresentato dal regime relativo ai finfluencer. Del pari, non sembrano esserci particolari divergenze con riferimento al contenuto dell’obbligo di servire al meglio gli interessi dei clienti: semmai, rilevante appare l’eliminazione ad opera del Consiglio di un obbligo di astensione per l’intermediario introdotto dal Parlamento europeo nel caso di strumenti finanziari per i quali non è in grado di servire al meglio l’interesse dei clienti. Ancora, convergenti appaiono le posizioni delle istituzioni europee relative al perimetro della valutazione di adeguatezza e all’introduzione di un regime di favore per la consulenza indipendente; diverse sono, invece, le posizioni sull’introduzione di un criterio volto a escludere la raccomandazione di un prodotto con caratteristiche supplementari non necessarie, dove il Consiglio e la Commissione (sia pur nel diverso ambito del “best interest”) sono a favore, mentre il Parlamento europeo è contrario.

Relativamente agli aspetti di divergenza, un punto da discutere consiste nel V4M assessment process, poiché le novità del Consiglio riguardano i criteri da utilizzare per identificare i prodotti equivalenti, le procedure per il confronto con gli altri prodotti, gli input da utilizzare per creare i “gruppi tra pari”, nonché, da ultimo, le significative modifiche dei rimedi da attuare in caso di deviazione di un prodotto dal confronto con prodotti equivalenti. Altresì fonte di diversità è la disciplina degli inducement, dove il Consiglio ha adottato una posizione coerente con quella del Parlamento europeo con riferimento all’ambito di applicazione del regime (e, nel dettaglio, eliminando il “divieto parziale” di incentivi introdotto dalla Commissione), e, allo stesso tempo, ha inasprito le condizioni che legittimano la percezione di inducement, reintroducendo, all’interno del nuovo inducement test, il c.d. quality enhancement test, previsto nel regime attuale di MiFID II ed eliminato invece da Commissione e Parlamento europeo. Posizioni differenti si riscontrano con riferimento alla valutazione di appropriatezza, dove la Commissione europea e il Consiglio sono intenzionati a inasprire tale valutazione, mentre il Parlamento europeo vorrebbe mantenere l’attuale regime di MiFID II. Avendo riguardo alla classificazione della clientela, infine, le tre istituzioni europee – pur concordi, con lievi differenze, nel facilitare la possibilità di essere qualificati come clienti professionali su richiesta – discordano sul regime normativo che si applica a clienti professionali e controparti qualificate.

 

[1] Per un primo commento, F. Di Carlo – D. Gobbo, Retail investment package: il confronto su product governance, value for money e inducements, 10 luglio 2024, in dirittobancario.it.

[2] Così Commissione europea, Proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio che modifica le direttive 2009/65/CE, 2009/138/CE, 2011/61/UE, 2014/65/UE e (UE) 2016/97 per quanto riguarda le norme dell’Unione a tutela degli investitori al dettaglio, Bruxelles, 24.5.2023 COM(2023) 279 final, 1. La proposta di Retail Investment Package della Commissione europea si colloca all’interno della Retail Investment Strategy (RIS), con l’intento di affrontare i seguenti problemi specifici: (1) gli investitori al dettaglio faticano ad avere accesso a informazioni pertinenti, comparabili e facilmente comprensibili per effettuare decisioni di investimento informate; (2) gli investitori al dettaglio sono esposti al rischio di essere indebitamente influenzati dal pratiche di marketing sui social media e da nuovi canali di marketing; (3) il modo in cui i prodotti sono realizzati e distribuiti presenta carenze legate a conflitti di interessi che possono derivare dal pagamento di incentivi tra realizzatori e distributori dei prodotti; (4) alcuni prodotti di investimento non sempre offrono un valore agli investitori al dettaglio coerente con il loro prezzo [cfr. Commissione europea, Sintesi della relazione sulla valutazione di impatto, Bruxelles, 24.5.2023, SWD(2023) 279 final, 1 (d’ora in poi “Sintesi VdI”); per un approfondimento, European Commission, Impact Assessment Report, Brussels, 24.5.2023, SWD(2023) 278 final, 22 ss. (d’ora in poi “Impact Assessment”)].

[3] Pertanto, il Retail Investment Package, propone modifiche: alla direttiva 2014/65/UE (c.d. MiFID II), relativa ai mercati degli strumenti finanziari; alle direttive 2009/65/CE (c.d. UCITS Directive), relativa agli organismi d’investimento collettivo in valori mobiliari, e 2011/61/UE (c.d. AIFMD), sui gestori di fondi di investimento alternativi; alle direttive 2009/138/CE (c.d. Solvency II), in materia di accesso ed esercizio delle attività di assicurazione e di riassicurazione, e (UE) 2016/97 (c.d. IDD), sulla distribuzione assicurativa; nonché, da ultimo, al Regolamento (UE) n. 1286/2014 (c.d. PRIIPs Regulation), relativo ai documenti contenenti le informazioni chiave per i prodotti d’investimento al dettaglio e assicurativi preassemblati.

[4] Per un primo commento sulle versioni della Commissione europea e del Parlamento europeo, F. Mocci, Retail Investment Strategy, la strada è ancora lunga, 15 maggio 2024, in dirittobancario.it.

[5] ESMA, On the European Commission mandate on certain aspects relating to retail investor protection, Final Report, 29 April 2022 | ESMA35-42-1227, 10 e 14 (d’ora in poi “ESMA FR”).

[6] Impact Assessment, 12 s.; per un approfondimento, F. Annunziata, Retail Investment Strategy. How to boost retail investors’ participation in financial markets, STUDY Requested by the ECON Committee, June 2023, 22 ss.

[7] Per tutti, in via generale, H. Kripke, The Myth of the Informed Layman, in 28.3. The Business Lawyer (1973), 631, con specifico riferimento ai servizi di investimento, A. Perrone, Servizi di investimento e tutela dell’investitore, in Banca, borsa e titoli di credito, 2019, 4 ss., nonché, avendo riguardo all’irrilevanza delle diverse tipologie di warning, D. Uličná et al., Disclosure, inducements, and suitability rules for retail investors study, Final report, FISMA, May 2022, 25.

[8] Cfr., inoltre, ESMA FR, 9.

[9] EIOPA, Costs and Past Performance Report, 05 April 2022, 18; ESMA, Performance and Costs of EU Retail Investment Products, ESMA Annual Statistical Report, 5 April 2022 ESMA 50-165-1677, 6 e 37.

[10] Impact Assessment, 16.

[11] Così F. Di Carlo – D. Gobbo (nt. 1), 9.

[12] Alla rovescia, «benchmarking against a single parameter/test might lead to undue rigidities in the market»: così, sia pur con riferimento alla disciplina sugli inducement, F. Annunziata (nt. 6), 21, che, peraltro, aggiunge che «looking at costs per se is not sufficient: costs are strictly related to the nature, characteristics and risk/return profiles of the investments» (ibidem).

[13] Esprime perplessità al riguardo anche Efama, Council of the EU takes crucial step forward for retail investment, 12 June 2024, in www.efama.org.

[14] Ritengono, pertanto, che «dovranno essere individuate soluzioni che possano bilanciare al meglio l’esigenza di immettere sul mercato prodotti che generino un valore positivo per il cliente, da un lato, e la tutela della concorrenza e del libero mercato, dall’altro lato», F. Di Carlo – D. Gobbo (nt. 1), 10.

[15] Più nel dettaglio, si richiede che «the content of appropriate actions shall be determined by the manufacturer while taking into account the relevant features of the financial instrument and the interest of the client. The compliance report to the management body shall systematically include information on these additional testings and further assessments and their conclusions when financial instruments are at a significant distance from the average of the peer group, including on any actions to ensure value for money» (art. 16-a(1), co. 6, MiFID II Council).

[16] Impact Assessment, 7.

[17] MiFID II European Commission, 2.

[18] Col passaggio dalla concezione dell’investitore come homo oeconomicus a un soggetto dotato di limiti cognitivi e comportamentali può leggersi l’evoluzione della disciplina in materia: in questo senso A. Perrone, Servizi di investimento e regole di comportamento. Dalla trasparenza alla fiducia, in Banca, borsa, titoli di credito, 2015, 31 ss.

[19] European Commission, Monitoring the level of financial literacy in the EU, Flash Eurobarometer 525, Report, July 2023, 5.

[20] Per tutti, A. Perrone, Il diritto del mercato dei capitali4, Milano, 2024, 239.

[21] Impact Assessment, 16 ss.

[22] Impact Assessment, 17; solo il 36% degli intervistati ha risposto correttamente alla domanda sugli inducement posta da D. Uličná et al. (nt. 7), 22; ritiene che, pertanto, occorra migliorare l’effettività della disclosure ai clienti, F. Annunziata (nt. 6), 21.

[23] Sul punto, con un approfondimento degli elementi tecnici, sia consentito il riferimento a M. Arrigoni, La disciplina degli incentivi nella prestazione dei servizi di investimento all’interno della strategia per gli investimenti al dettaglio promossa dalla Commissione europea, in Riv. trim. dir. ec., 2023, 369. La considerazione degli effetti distributivi potrebbe spiegare la scelta del Consiglio di consentire agli Stati membri di proibire o limitare la percezione di inducement rispetto a determinati strumenti finanziari o servizi di investimento, nonché di inasprire l’inducement test (art. 29a(9) MiFID II Council): tale scelta potrebbe avere l’effetto di frammentare la disciplina, aumentando i casi di divieto di inducement (già sperimentati, ad esempio, in Olanda), e di creare le premesse per una successiva evoluzione della materia verso un divieto totale di inducement.

[24] Sintesi VdI, 3.

[25] MiFID II Commissione europea, 17.

[26] MiFID II Commissione europea, 17.

[27] Secondo il modello del comply or explain, in questo caso nei confronti dell’autorità competente: cfr. il Considerando n. 6a, co. 1, della MiFID II Council.

[28] «Possible examples of qualitative criteria reflecting compliance with applicable regulations could be the number of legitimate complaints, the results of internal controls or inspections or compliance with the target market» (così il Considerando n. 6a, co. 2, della MiFID II Council).

[29] Cfr. l’art. 11(2)(a) Directive (EU) 2017/593.

[30] Secondo la Commissione, il requisito di miglioramento della qualità ai sensi della MiFID II, porta a interpretazioni diverse tra Stati membri e imprese, nonostante gli sforzi di convergenza dell’ESMA (Impact Assessment, 17), e non è stato sufficientemente efficace «nell’attenuare i conflitti di interesse», sicché risulta opportuno «eliminare» questo criterio (così il Considerando n. 6 della MiFID II European Commission; cfr. art. 24a(7) MiFID II European Commission); ritiene ci sia spazio per un miglioramento di questa regola, o per considerarne l’eliminazione, F. Annunziata (nt. 6), 20 s.

[31] MiFID II Commissione europea, 7. Sebbene la qualità del servizio ricevuto sia più importante delle informazioni sugli incentivi (nello stesso senso, F. Annunziata (nt. 6), 20), la disciplina di trasparenza potrebbe avere il duplice effetto di incrementare la competizione sul lato dell’offerta e di favorire la consapevolezza del cliente in ordine alla bontà della raccomandazione ricevuta (in questo senso, D. Uličná et al. (nt. 7), 23).

[32] A. Perrone (nt. 20), 227.

[33] MiFID II Commissione europea, 21.

[34] D. Uličná et al. (nt. 7), 24.

[35] A. Perrone (nt. 20), 229.

[36] MiFID II Commissione europea, 21.

[37] Non mancano, per la verità, strategie normative differenti: l’intervento relativo agli strumenti finanziari, in modo da escludere che prodotti complessi e particolarmente rischiosi siano oggetto di servizi di investimento esecutivi in regime di appropriatezza, comporta che solamente gli investitori in grado di fare una scelta informata riguardo a prodotti complessi e con una sufficiente capacità di sopportare le perdite possono ricevere tali prodotti, nel caso in cui siano adeguati (in questo senso, D. Uličná et al. (nt. 7), 22).

[38] F. Annunziata (nt. 6), 18 s.

[39] Ritiene invece che la novità introdotta dalla Commissione sia un «ritorno al passato, al regime pre-MiFID», F. Mocci (nt. 4), 5; pur opportuna perché precisa il wording del dettato normativo, la modifica della Commissione non sembra, per la verità, particolarmente innovativa, potendosi ricavare la medesima conseguenza dalle indicazioni del sistema (cfr. art. 56(2)(b) Regulation (EU) 2017/565).

[40] È stato ritenuto fondamentale «rimuovere gli oneri burocratici non necessari» per «sostenere la ripresa» dopo la pandemia di COVID-19 (così il Considerando n. 1 della Direttiva (UE) 2021/338, c.d. MiFID II Quick Fix).

[41] MiFID II Commissione europea, 22.

[42] È stato, invece, eliminato un quarto criterio, introdotto dalla Commissione, relativo al possesso di istruzione o formazione pertinente, che prova la capacità del cliente «di comprendere i servizi e le operazioni previsti e di valutare adeguatamente i rischi» (Section II.1(5) Annex II MiFID II European Commission).

[43] Il Parlamento europeo attribuiva, invece, a ESMA il compito di determinare la frequenza e l’ammontare delle operazioni: Section II.1(5) Annex II MiFID II European Parliament.

[44] Non mancano differenti proposte: in favore di una nuova categoria di «“qualified” or “semi-professional investor”», sulla falsariga delle esperienze in Lussemburgo e Germania, F. Annunziata (nt. 6), 33.

[45] Per la verità, ulteriori aspetti potrebbero essere affrontati: propone, ad esempio, un “digital suitability” test, F. Annunziata (nt. 6), 23.

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