Le operazioni di acquisizione con indebitamento, comunemente definite nella prassi di settore con il termine leveraged buy out (o LBO), rappresentano una particolare forma di finanza strutturata, sviluppatasi nel contesto giuridico anglosassone negli anni ’80 del secolo scorso, che costituisce oggi uno dei principali strumenti di investimento degli operatori di private equity e venture capital [1]. La struttura dell’operazione consiste brevemente, da una parte, nel fare leva (i.e. leverage) principalmente sul debito concesso dal supporter finanziario che ha un costo significativamente inferiore rispetto a quello dell’equity (vale a dire dei mezzi propri forniti dai – futuri – soci) che sarebbe necessario alla società ai fini dell’acquisizione e, dall’altra, sul traslare (c.d. push down) il debito sulla società acquisita che si impegnerà a rimborsare l’indebitamento finanziario tramite i propri flussi di cassa (c.d. cash flow).
In passato, la legittimità della struttura delle operazioni di LBO era stata posta in dubbio stante la sua potenziale incompatibilità con il c.d. divieto di financial assistence sancito agli artt. 2358 (per le S.p.A.) e 2474 c.c. (per le S.r.l.), ai sensi dei quali è fatto divieto alle società di capitali, direttamente o indirettamente, di accordare prestiti o fornire garanzie per l’acquisto o la sottoscrizione delle proprie azioni [2].
La ratio posta alla base di tale normativa si rinviene, in via preminente, nella tutela dell’integrità del capitale sociale quale mezzo di protezione dei soci, per i quali il capitale sociale costituisce il mezzo per raggiungere lo scopo sociale (c.d. funzione produttivistica del capitale sociale) e dei creditori sociali, per i quali costituisce la principale garanzia (c.d. funzione vincolistica del capitale sociale), funzioni che potenzialmente potrebbero essere minate dalla traslazione sulla società target del debito contratto per la sua acquisizione.
In aggiunta a ciò, un ulteriore interesse meritevole di tutela è quello di evitare potenziali operazioni poste in essere in conflitto di interessi, tutelando la parità di trattamento degli azionisti e garantendo la neutralità della società rispetto alle vicende della propria compagine sociale, in quanto vincolata a perseguire l’interesse di tutti senza accordare vantaggi speciali ad alcuno. Tale scenario si potrebbe ad esempio verificare nelle operazioni di c.d. management leveraged buy-out, dove l’acquisizione del controllo della società target viene posta in essere direttamente dal management di quest’ultima e, ancor di più, nelle operazioni di c.d. cash-out, dove l’acquisizione viene posta in essere non per portare a termine un effettivo cambio di controllo, ma al solo fine di estrazione di valore non altrimenti distribuibile della società target da parte degli attuali soci di quest’ultima.
La portata sanzionatoria del divieto di financial assistence è significativa, tenuto conto che il suo mancato rispetto è classificabile come violazione di una norma imperativa e, pertanto, tutti i contratti connessi all’operazione di LBO (con particolare riferimento a quelli di finanziamento e le relative garanzie) sono passibili, secondo gli orientamenti dominanti, di nullità assoluta.
La disciplina degli artt. 2358 e 2474 del codice civile costituiva un rilevante disincentivo alle operazioni di leveraged buy out (in particolare nella forma del merger leveraged buy out nel seguito analizzato) che, tuttavia, in considerazione del loro sempre più ampio utilizzo anche nel contesto europeo a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, rischiava di isolare il mercato italiano dai significativi investimenti degli operatori di private equity, il cui ruolo positivo nella dinamica economica veniva riconosciuto con sempre maggiore vigore dalla dottrina di settore, in quanto consentiva, attraverso un dinamico mercato del cambio di controllo, l’emersione del valore inespresso delle società di capitali, così come l’espansione della crescita di queste ultime e il ricambio generazionale (importante in Italia, paese che presenta rigidità a tale riguardo legate ai diffusi assetti familiari nella proprietà dell’impresa).
Al fine di contemperare, da un lato, gli interessi meritevoli di tutela sottesi alla disciplina dell’articolo 2358 del codice civile e, dall’altro lato, i benefici economici derivanti dalle operazioni di merger leveraged buy out, (che si declina attraverso l’utilizzo dello strumento della fusione, da cui il nome di merger leveraged buy out o MLBO), la riforma del diritto societario operata dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, è intervenuta introducendo nel codice civile il nuovo articolo 2501-bis, specificamente dedicato alle operazioni di fusione a seguito di acquisizione con indebitamento [3]. Nello specifico, l’art. 2501- bis del codice civile ha individuato le seguenti tre fasi principali che, giuridicamente, si susseguono:
- costituzione da parte del soggetto intenzionato ad acquisire il controllo della società c.d. target di un veicolo societario di nuova costituzione (c.d. newco), che viene dotato, in un rapporto variabile (tipicamente, in Italia, del 40/50%), di mezzi propri a seguito di un aumento di capitale della newco e/o ad altre forme di versamento da parte degli acquirenti (c.d. equity o quasi equity) e debito bancario;
- utilizzo da parte di newco delle risorse alla stessa apportate (a titolo di equity e di debito) per pagare il prezzo di acquisizione delle partecipazioni di target e i costi di transazione collegati all’operazione;
- fusione entro un determinato termine (solitamente non superiore a 12 mesi) tra newco e target, con conseguente traslazione del debito assunto da newco nella società risultante dalla fusione (c.d. mergerco) e al cui rimborso è destinato il cash flow di mergerco e/o la dismissione di assets non strategici di quest’ultima (c.d. asset stripping).
La struttura finanziaria ‘classica’ del MLBO è solita distinguersi in due fasi, una fase a breve termine (la c.d. fase bridge), che interviene nel momento dell’acquisizione di target da parte di newco e la fase a medio-lungo termine (c.d. fase medium), che interviene nel momento della fusione. Nello specifico, la fase bridge, avendo una durata tipicamente inferiore ai 18 mesi, simula un periodo di pre-ammortamento, in quanto il finanziamento bridge è rimborsato propriamente nella fase medium, attraverso il rifinanziamento concesso dai lender (i.e. le banche o gli altri intermediari finanziari autorizzati all’esercizio del credito in Italia) alla società risultante dalla fusione. In questa fase, la newco utilizza il finanziamento per l’acquisizione della società target, rimborsando il finanziamento in un’unica soluzione alla prima tra la data di scadenza finale e la data di fusione e pagando esclusivamente gli interessi.Nella fase medium, che, invece, ha durata superiore ai 18 mesi, i lender concedono alla società risultante dalla fusione un nuovo finanziamento, di durata pluriennale, che ha lo scopo di ‘sostituire’, rifinanziandolo, il finanziamento bridge, e, in aggiunta, la mergeco ha l’obbligo di rispettare determinati impegni finanziari (c.d. covenants finanziari nel seguito approfonditi), la cui funzione è di ‘fotografare’ (annualmente, semestralmente o, in alcuni casi, trimestralmente) l’equilibrio economico, patrimoniale e finanziario della società, anche ai fini del servizio del debito, dato che il rimborso dello stesso avviene attraverso i propri flussi di cassa.
La bipartizione temporale delle fasi bridge e medium, nasceva dalla mancanza di una disciplina giuridica ad hoc delle operazioni di fusione con indebitamento che operasse quale “white wash” (i.e. “imbiancatura” o, in altre parole, eliminazione) del divieto di financial assistance; in particolare, la fase medium, consentiva di mantenere distinti i due finanziamenti e, conseguentemente, il debito della target non poteva più essere catalogato come finanziamento per acquisizione, ma bensì rimborsava un finanziamento già in essere contratto post fusione per rifinanziare precedente posizione e rimborsato dagli attuali soci di quest’ultima.
La nuova tendenza della prassi sulla struttura finanziaria del MLBOha peraltro visto un utilizzo sempre più frequente di una nuova struttura nella quale, da una parte,il finanziamento viene concesso fin dal principio con una struttura a medio-lungo termine (prevedendo una partecipazione al finanziamento della società target in immediato seguito alla sua acquisizione) e, dall’altra, viene previsto un impegno di estensione delle garanzie specifiche da concedersi da parte di target a seguito al perfezionamento della fusione.
Il Legislatore, tenendo fermo il principio generale stabilito dall’articolo 2358 del codice civile (riformato dal D.Lgs. n. 142 del 2008 per consentire, a determinate condizioni, una deroga al divieto di assistenza finanziaria), ha stabilito, con l’art. 2501- bis del codice civile, una informativa rafforzata per i soci e i terzi (di natura inderogabilee non rinunciabile) in occasione del perfezionamento della fase potenzialmente più delicata per tali soggetti, vale a dire l’operazione di fusione tra le società newco e target.
In articolare, sono previste le seguenti tutele informative che, ove rispettate, determinano la sostanziale legittimità delle operazioni di MLBO:
- il progetto di fusionedi cui all’articolo 2501-ter del codice civile deve indicare le risorse finanziarie previste per il soddisfacimento delle obbligazioni di mergerco che, nella prassi, si sostanzia nella necessità di predisporre un dettagliato piano economico-finanziario(il c.d. business plan) che indichi espressamente le modalità e i tempi di rimborso integrale del finanziamentoassunto per completare l’acquisizione;
- la relazione degli amministratori di cui all’articolo 2501-quinquies del codice civile deve indicare le ragioni che giustificano l’operazione di fusione;
- la relazione degli esperti sulla congruità del concambio di cui all’articolo 2501-sexies del codice civile (non necessaria in caso di fusione per incorporazione di società interamente posseduta) deve attestare la ragionevolezza delle indicazioni del progetto di fusione;
- al progetto di fusione deve essere allegata la relazione della società di revisione della società obiettivo o della società acquirente.
Effettuata una breve disamina, sotto il profilo tecnico,del MLBO, risulta utile approfondire anche l’aspetto più pratico e commerciale di tali operazioni, analizzandone i vari step evolutivi.
Innanzitutto è possibile individuare due macro fasi: una c.d. ‘fase preliminare’e una c.d. ‘fase di implementazione’. La prima è la più critica per i credit provider, dal punto di vista commerciale, dal momento che essi assumono dei ruoli ben definiti nell’operazione di finanziamento e, in base a questi, stabiliscono le condizioni della stessa e si giustificano diversi livelli di remunerazione. Le operazioni di finanziamento hanno generalmente inizio mediante il conferimento di un mandato (c.d. ‘lettera di mandato e committment’), da parte del beneficiario, in favore di una o più banche organizzatrici, le quali hanno il compito di strutturare l’operazione da un punto di vista finanziario e legale, nonché di predisporre i termini e le condizioni su cui verrà organizzato il finanziamento in favore del beneficiario.
I principali termini e le condizioni economiche del finanziamento sono invece contenuti in un documento separato denominato ‘term sheet’, che viene allegato alla lettera di mandato e committment. In questa fase, oltre al potenziale beneficiario, è possibile individuare ulteriori player: Il soggetto responsabile dell’avvio (ruolo di c.d. originator) e della strutturazione dell’operazione di finanziamento (ruolo di c.d. arranger), che tendenzialmente si garantisce la maggiore remunerazione,il soggetto incaricato di gestire la fase della eventuale sindacazione del finanziamento (ruolo di c.d. bookrunner) e la banca e/o istituzione finanziaria che si impegna, in un momento antecedente a quello del vero e proprio perfezionamento del finanziamento, a sottoscrivere, cioè a partecipare, all’operazione, mettendo a disposizione una quota di partecipazione al finanziamento medesimo (ruolo di c.d. underwriter).
La struttura contrattuale di questa fase, a seconda dell’operazione, può avere diversi gradi di impegno, si spazia dalla tipologia di c.d. “commitment” (i.e. impegno) maggiormente diffusa nella prassi italiana, ossia la concessione dell’intero finanziamento o quota di esso (se presenti più banche organizzatrici) nel momento in cui si realizzano determinate condizioni (il c.d. full underwriting commitment), all’impegno a fare tutto il possibile per organizzare il finanziamento senza però fornire alcuna garanzia circa il raggiungimento dell’intero ammontare del finanziamento.Inoltre, nella maggior parte dei casi, l’incarico è conferito alla banca arranger con una clausola di esclusiva a suo favore, in forza della quale il beneficiario si impegna a non stipulare accordi alternativi e/o similari per l’organizzazione del finanziamento, evitando così che l’acquirente negozi analoghi documenti con altre banche.
La fase dell’implementazione, invece, si estrinseca nella struttura e nei contenuti del contratto di finanziamento che rappresenta il cuore della disciplina del rapporto tra lender e borrower in un’operazione di acquisizione finanziaria. Tra le numerose disposizioni contenuti nei contratti di finanziamento, hanno assunto un ruolo centrale una varietà di clausole che mirano a garantire l’adempimento delle obbligazioni da parte del debitore nei confronti del finanziatore. Tra queste figurano i c.d. covenants, consistenti in un complesso di obblighi di comportamento, a carico del debitore, su cui modellare la gestione dell’impresa beneficiaria. In prima approssimazione è possibile distinguere tra ‘positive covenants’ e ‘negative covenants’. I primi indicano le iniziative che devono essere positivamente intraprese dal soggetto finanziato che assume degli specifici obblighi di fare, mentre i secondi, di contro, le azioni che non possono essere avviate nell’ambito della gestione dell’attività imprenditoriale. La ratio sottostante l’istituto dei covenants risiede nella tutela dell’interesse del finanziatore in ordine ad una corretta amministrazione dell’impresa debitrice, vincolandola a garantire e mantenere la propria solvibilità.
Nella prassi si è fatta largo anche l’ulteriore sotto-categoria dei c.d. ‘financial covenants’, i quali, pur rientrando nell’ambito più generale dei positive covenants, in virtù della previsione a carico del soggetto finanziato di un impegno attivo destinato al mantenimento di determinati parametri finanziari indicativi della propria solidità finanziaria, reddituale o patrimoniale, sono generalmente contraddistinti per esser riconosciuti dai lender quali principali indici di verifica dell’andamento aziendale.
Nel dettaglio, si possono annoverare tra i positive covenants particolari impegni assumibili dal soggetto finanziato quali, ad esempio, il mantenimento di congrue assicurazioni sui beni aziendali, l’osservanza di determinati indici di bilancio entro range stabiliti, la conformità dell’amministrazione aziendale alle disposizioni di legge, il pagamento regolare degli oneri tributari di qualsiasi natura nonché i numerosi obblighi di comunicazione e informativa, specifici e ulteriori, rispetto a quanto già previsto dalle norme di legge. In particolare, con riferimento a quest’ultima clausola di disclosure,nella pratica soventemente è stato attribuito un contenuto molto ampio per consentire al finanziatore di monitorare tutte quelle informazioni rilevanti per il rischio di credito.
Rientrano, invece, tra i principali negative covenants, aventi, come detto, contenuto negativo ovvero di non fare, il divieto di contrarre ulteriore indebitamento finanziario, l’impegno a non concedere ad altri garanzie reali su ulteriori finanziamenti senza l’autorizzazione della banca che per prima ha pattuito tale covenant (c.d. ‘negative pledge’), l’impegno a riconoscere la stessa posizione giuridica concessa agli altri (c.d. ‘pari passu’, evidentemente tesa al rispetto della par condicio creditorum), le restrizioni alle operazioni ordinarie della società, quali la distribuzione dei dividendi (ad esempio per importi inferiori a un determinato ammontare o per importi parametrati agli utili conseguiti e per prefissato numero di esercizi futuri), le limitazioni alla realizzazione di investimenti ed operazioni straordinarie come acquisizioni, cessioni di beni aziendali o operazioni con parti correlate.
La ratio sottesa ai negative covenants è speculare a quella dei positive covenants: i primi, infatti, sono imposti dal finanziatore al fine di evitare che il debitore riduca la propria garanzia patrimoniale attraverso atti di depauperamento, quantitativo o qualitativo, del patrimonio aziendale, mentre attraverso i positive covenants, il finanziatore pretende dal debitore un determinato livello di redditività aziendale, così da garantirsi, pressoché con certezza, il ripianamento dell’erogazione concessa.
Volgendo, infine, lo sguardo alla sottocategoria dei covenant finanziari di maggior importanza, è opportuno un riferimento alc.d. ‘leverage ratio’, al c.d. ‘gearing ratio’, al c.d. ‘debt service coverage ratio’ e al c.d. ‘interest coverage ratio’. Il primo indica il rapporto tra indebitamento finanziario netto e Earnings Before Interest Taxes Depreciation and Amortization (i.e. EBITDA), il cui valore rappresenta il grado di indebitamento finanziario sostenibile della società che, auspicabilmente, dovrebbe avere un valore il più basso ottenibile. Il gearing ratio è, invece, quell’indice di bilancio che, indicando il rapporto tra indebitamento finanziario netto e patrimonio netto, rappresenta la solidità patrimoniale della società poiché misura l’incidenza del capitale di prestito sul patrimonio dell’impresa, mentre il debt service coverage ratio, esprime il rapporto tra flussi di cassa operativi (c.d. ‘free cash flow’) e flussi necessari a rimborsare il debito, il cui valore non dovrebbe mai essere inferiore all’unità. Infine, l’interest coverage ratio definisce il grado di copertura che il risultato operativo del soggetto finanziato riesce a fornire al costo degli oneri finanziari.
L’insieme di questi covenant, positivi, negativi e finanziari, consente al finanziatore di mantenere un costante controllo sulla “salute” finanziaria del proprio debitore e di aumentare le chance di vederlo produrre flussi di cassa adeguati da destinare al servizio (i.e. rimborso) del debito, a seguito del quale l’operazione di leveraged buy out trova la sua naturale conclusione.
[1] Nel solo 2019 la raccolta private equity e venture capital in Italia è stata pari a 1.591 milioni di Euro, per un ammontare investito complessivo pari ad Euro 7.223 milioni e un numero complessivo di operazioni completate di 370 (Fonte: AIFI).
[2] Ex multis, si vedano in proposito Corte di Cassazione Penale n. 5503/2000, Tribunale di Ivrea 12 agosto 1995 e Tribunale di Milano 13 maggio 1999, in Le Società, 2000, p. 75.
[3] Per un quadro d’insieme della fattispecie, ex multis, CACCHI PESSANI, La tutela dei creditori nelle operazioni di merger leveraged buy-out. L’art. 2501-bis e l’opposizione dei creditori alla fusione, Quaderni di Giurisprudenza Commerciale, GIUFFRé, 2007; Carrière, Il leveraged financing e i project financing alla luce della riforma del diritto societario:opportunità e limiti in Rivista delle Società, 2003, p.1040; Morano, Il merger leveraged buy-out alla luce del nuovo art. 2501 bis cc.,in Le Società, 2003, p. 959.