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Editoriali

Le radici della BREXIT: per una rivisitazione critica della conventional wisdom sulla relazione tra il Regno Unito e l’Europa

15 Settembre 2016

Rainer Masera

Di cosa si parla in questo articolo

I.* Il Regno Unito e il processo di integrazione in Europa

1. Secondo la visione tradizionale, suggerita dai media “continentali” e quasi unanimemente condivisa, la Gran Bretagna ha sempre avuto un atteggiamento negativo/critico/di superiorità e di diversità rispetto all’Europa. “Fog in Channel, Continent cut off”, come avrebbe scritto in un’occasione lo stesso The Times.

2. Il Regno Unito non avrebbe mai creduto nel processo di integrazione in Europa. L’adesione, con ritrosie, ritardi e molte richieste alla Comunità e poi all’UE, sarebbe stata motivata da considerazioni opportunistiche: godere dei vantaggi del mercato integrato (un porto franco ai margini dell’Europa), assicurare alla City un ruolo pivot nei mercati bancari e finanziari europei e mondiali, mantenere il ruolo di cerniera tra Stati Uniti e UE. Comunque, si affermava, l’opinione pubblica era sempre stata contraria al processo di integrazione. Al riguardo, si trascurava tuttavia che il primo referendum popolare della storia del Regno Unito, tenuto il 5 giugno del 1975 con il Premier laburista Harold Wilson, aveva chiesto all’elettorato ​«Do you think that the U.K. should stay in the European Community?». Il sì aveva vinto con quasi il 70%.

3. Coerentemente con questa visione convenzionale di sospetto e di sfiducia, l’ipotesi Brexit prima e l’uscita dopo venivano viste con preoccupazione, ma nel convincimento che gli effetti negativi si sarebbero ritorti sul Regno Unito. In ultima analisi, l’uscita della “perfida Albione” avrebbe aiutato a fare chiarezza nell’Unione anche sotto il profilo politico.

4. L’intento di queste brevi note è offrire una prospettiva diversa, attraverso alcuni flashback, sul ruolo del Regno Unito per l’Europa e sulle ragioni profonde dell’uscita. Occorre ricordare che la Grande Londra, il mondo della finanza e, in generale, i ceti più abbienti hanno sostenuto il legame con l’UE. L’uscita, con margine comunque molto esiguo, rispecchia dunque un radicato voto popolare che – secondo qualificati commentatori – riflette sfiducia e avversione sia alla burocrazia di Bruxelles sia alle politiche, non solo economiche (soprattutto quella migratoria, sulla base degli artt. 79 e 80 del TFUE), dell’Unione.

III. 1939­-1949: il ruolo chiave del Regno Unito per l’Unione europea

1. Il flashback da cui prendo le mosse parte dal 1939 e dall’avvio della seconda guerra mondiale. Il 23 agosto di quell’anno, Ribbentrop e Molotov firmano un “patto di non aggressione tra Germania e Russia”. In realtà, un patto segreto aggiuntivo tra i due Paesi prevedeva la divisione dell’Europa in due zone di influenza, sotto il controllo appunto della Germania nazista e dell’Unione sovietica comunista. La strumentalità del patto per la Germania fu subito evidente. Una settimana dopo la firma, il 1° settembre 1939, Hitler invade la Polonia e di fatto ne avvia l’annessione. La Polonia aveva firmato un patto di difesa reciproca con il Regno Unito e con altri Paesi europei. È l’Inghilterra a mantenere fede agli impegni: nonostante gli evidenti rischi e pericoli, il 1° settembre chiede alla Germania di rispettare lo Stato polacco. La richiesta rimane senza risposta: il 3 settembre la Gran Bretagna alle 11e15, e poco dopo la Francia, dichiarano guerra alla Germania. Il 17 settembre ha inizio l’invasione da est della Polonia da parte della Russia sovietica.

La campagna di annessione termina il 6 ottobre. La Germania e l’Unione sovietica si spartiscono la Polonia con il Trattato di frontiera sovietico­tedesco. Plaudono in Italia i giornali conformisti, spiegando ai lettori che «all’edificazione e alla liberazione (!) dell’Europa l’Italia non sarà estranea». Suggerisco su questi drammatici eventi la lettura del libro “Failure of a Mission: Berlin 1937­-39” (pubblicato nel 1940) dell’allora Ambasciatore britannico a Berlino Sir Nevile Henderson.

È solo l’impavida risolutezza delle resistenza britannica – quando agli inizi della guerra, dopo la resa francese, il Regno Unito, di fatto da solo, si oppose e combatté Hitler – che consentì di salvare l’Europa. Chamberlain e Churchill, i successivi Primi Ministri, ebbero un ruolo fondamentale.

2. Il secondo flashback ci porta negli Stati Uniti fra il 1° e il 22 luglio del 1944 (quindi prima della fine della seconda guerra) al Mount Washington Hotel, nella città di Bretton Woods. La United Nations Monetary and Financial Conference aveva riunito 730 delegati di 44 nazioni alleate: i principali progetti per la ricostruzione del sistema monetario e dei cambi posti in discussione erano quelli di White (USA) e di Keynes (Regno Unito). Aldilà del modello di Banca internazionale (con il Bancor) rispetto a quello di Fondo monetario (con versamenti e diritti di prelievo) la differenza fondamentale tra i due schemi stava nella simmetria richiesta da Keynes tra i Paesi in surplus e quelli in deficit. Il “problema secolare internazionale” da risolvere consisteva, appunto, nell’evitare le forze mercantiliste volte a esportare la disoccupazione e a forzare l’aggiustamento sui Paesi in deficit. Sarebbe stato necessario imporre penalizzazioni anche per i Paesi in surplus cronico, inclusa la rivalutazione forzata della loro moneta. Questo non significava trascurare i fattori reali e strutturali di competitività, ma assicurare simmetria nel processo di aggiustamento. Il cambio – il prezzo più importante per un’economia aperta – veniva sottoposto a vincoli precisi, ma poteva/doveva essere aggiustato in caso di squilibri fondamentali (cambi fissi ma aggiustabili). Gli Stati Uniti, che si ritenevano allora – sbagliando – un Paese strutturalmente in avanzo, accettavano l’idea di aiuti finanziari ai Paesi in deficit anche se sconfitti (ribaltando il principio dei pagamenti dei danni di guerra, come avrebbe mostrato il Marshall Plan), ma non volevano il principio di simmetria. Il paradosso è, naturalmente, che oggi sono gli Stati Uniti a riprendere quei concetti applicando la richiesta di simmetria alla Germania per il suo crescente, enorme surplus strutturale di parte corrente (all’avvio dell’euro nel 1999 il conto corrente aveva un saldo in equilibrio, nel 2016 si prevede che sarà il più elevato del mondo, ovvero 280 miliardi di euro, pari al 9% del PIL).

Comunque, l’approccio sopraricordato ha improntato e continua a improntare la posizione britannica sul processo di unificazione monetaria in Europa e sull’esigenza di non forzare gli aggiustamenti reali prevalentemente attraverso la moneta unica. Ricordo che queste erano anche le posizioni espresse a suo tempo da Margaret Thatcher, la quale aveva peraltro riconosciuto che l’adesione ai principi europei era stata fondamentale per la sua vittoria elettorale. Chi scrive non può nascondere simpatia per quest’approccio. È ragionevole il timore che l’uscita della Gran Bretagna farà affievolire ulteriormente queste voci nell’UE.

3. Il terzo flashback si colloca fra il 1946 e il 1949 e vede Winston Churchill come grande protagonista a favore dell’Europa. Siamo all’Università di Zurigo il 19 settembre del 1946. Per la prima volta dopo la guerra un grande statista propone la creazione degli “Stati Uniti d’Europa” e spiega l’importanza e l’urgenza di questo obiettivo: «If we are to form a United States of Europe… we must begin now». Il discorso ebbe ampia risonanza. Il Regno Unito sostenne l’istituzione di un Consiglio d’Europa come primo passo concreto verso un’Europa confederale. Nel 1948 si tenne all’Aja una grande riunione ufficiale con circa 800 delegati di tutti gli Stati europei. Churchill partecipò come Presidente onorario di questo primo grande Congresso dell’Europa. Si prese la decisione di creare il Consiglio, traguardo realizzato il 5 maggio 1949.

Le successive tappe del processo di integrazione furono la Conferenza di Messina del 1955 e il Trattato di Roma del 1957. Ma il Regno Unito non è fra i 6 Paesi fondatori. Perché pochi anni dopo la leadership assunta, culminata con la creazione del Consiglio, il Regno Unito non rientra tra i Paesi firmatari del Trattato? È un quesito che richiede approfondimenti; la risposta appare complessa e non è univoca. Non si può qui cercare di risolvere il problema. Si offrono solo alcuni spunti di riflessione.

Il modello di integrazione proposto negli anni ’50 da Francia e Germania – basato sul modello pragmatico del funzionalismo di Jean Monnet – non soddisfaceva i principi delineati dal Regno Unito e, in particolare, l’approccio di un’Europa confederale. È il caso di ricordare che questo approccio (e, addirittura, quello dell’Unione politica) è stato successivamente sostenuto, con forza, ma senza successo, dal Cancelliere Kohl e dal Presidente Mitterrand nel 1990. Si può comprendere – senza giustificare – l’orgoglio (e forse la presunzione) del Paese che era il vincitore della guerra e che era ancora al centro del Commonwealth nel resistere alla leadership di fatto assunta sul progetto europeo dai Paesi sconfitti e da quelli (Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo – incorporato nella Germania nazista) che si erano arresi alla Germania. Per quanto riguarda l’Italia, ricordo che il modello di Europa confederale esposto da Churchill era naturalmente meno forte di quelli federali sviluppati da Spinelli a Ventotene e da Einaudi nell’esilio svizzero (che evidentemente non avevano avuto peso sufficiente a livello ufficiale).

Accanto a queste considerazioni rivestono importanza elementi anche soggettivi, in particolare nei rapporti della Gran Bretagna con la Francia di Charles de Gaulle. Nel giugno 1940 de Gaulle si era trasferito a Londra come rappresentante del Governo in esilio della Francia Libera anche per esaminare la proposta di una Unione franco-­britannica. L’ipotesi era stata inizialmente appoggiata dal Gabinetto Churchill, ma ritenuta non più realistica dopo l’invasione tedesca della Francia e la creazione del Governo collaborazionista di Vichy. È tuttavia ragionevole supporre che il solco fosse diventato incolmabile come conseguenza della Operation Catapult dell’Ammiragliato britannico. Molte navi da guerra francesi si erano sottratte ai vincoli dell’armistizio, riparando in Algeria.

Temendo per un loro passaggio sotto il controllo tedesco, l’Ammiragliato si era rifiutato di fornire sostegno e aveva anzi attivato Catapult per neutralizzare la flotta, con il pieno supporto di Churchill. Il “danno collaterale”, mai accettato dai francesi che consideravano e considerano l’operazione come un tradimento, fu la morte di quasi 1.300 uomini della Marine Nationale il 3 luglio 1940 nella Battaglia di Mers-el-Kebir.

Ancora fra il 1963 e il 1967 è ragionevole l’impressione che la Francia di De Gaulle abbia ostacolato di fatto i negoziati tra Europa e Regno Unito. Il superamento delle difficoltà deve aspettare la Presidenza Pompidou.

III. Alcune osservazioni conclusive

È forse troppo presto per una valutazione compiuta dell’impatto Brexit sul Regno Unito, sull’UE e a livello globale non solo sotto il profilo economico, ma anche politico. L’attivazione della clausola contenuta nell’art. 50 del Trattato di Lisbona, che darà formalmente inizio al negoziato sulla Brexit fra UE e Regno Unito non avverrà prima dell’anno prossimo, come ha recentemente indicato il governo di Theresa May. È comunque fondamentale che il negoziato avvenga in uno spirito collaborativo e costruttivo. Mi permetto, quindi, di chiudere con tre semplici osservazioni.

1. Le apocalittiche previsioni della vigilia sulle conseguenze catastrofiche che avrebbe avuto l’uscita per il Regno Unito non si sono verificate. Eppure, ancora a fine agosto (30.08.2016) sul sito ufficiale della Commissione si scrive al riguardo «attualmente la situazione nel Paese è critica». Anche per la saggia condotta monetaria e del cambio della Bank of England e per l’accorto orientamento di politica fiscale del nuovo Governo, l’impatto appare relativamente contenuto e gestibile. Sono saltate alcune bolle – segnatamente nel settore immobiliare – che comunque rappresentavano un pericolo per la stabilità.

2. Il Fondo Monetario Internazionale prevede oggi, diversamente da quanto aveva fatto prima dell’uscita («Before the EU referendum vote the IMF chief Christine Lagarde warned Brexit could devastate the British economy», 17 giugno 2016, Finanz im Dialog, Vienna), che l’economia britannica crescerà più rapidamente sia di quella tedesca, sia di quella francese (per non parlare di quella italiana!) (WEO Update, luglio 2016). A titolo personale aggiungo che il Regno Unito è nelle condizioni oggi di uscire dalla trappola dei tassi di interesse negativi che sta attanagliando l’Euroarea.

3. Riporto, infine, i risultati dell’indice di fiducia Ifo in Germania per il mese di agosto 2016: l’indice è sceso a 106,2 punti da 108,3 in luglio. Si tratta della più forte caduta in più di 4 anni, che riporta l’indice sui livelli più bassi dal dicembre 2014: «The German economy has fallen into a summer slump», secondo il Presidente dell’Ifo Clemens Fuest, «German businesses have suddenly woken up to Brexity reality».

 


* Nota predisposta per il Convegno Paradigma “Incontro con il mercato sugli effetti della Brexit”, Milano, 12 settembre 2016. Sono grato ai partecipanti e al Prof. Francesco Capriglione per le osservazioni ricevute. La responsabilità delle tesi sostenute e di eventuali errori è, naturalmente, esclusivamente mia.

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