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Giurisprudenza

Le Sezioni Unite sull’acquisto di swap da parte dei comuni

22 Maggio 2020

Avv. Vincenzo Cusumano, Dottore di ricerca, Università di Padova

Cassazione Civile, Sez. Un., 12 maggio 2020, n. 8770 – Pres. Petitti, Rel. Genovese

Di cosa si parla in questo articolo

Il caso

Un Comune dell’Emilia Romagna, tra il 2003 ed il 2004, concludeva con una banca diversi contratti di Interest Rate Swap, alcuni dei quali prevedevano il pagamento di un upfront da parte della Banca nei confronti dell’Ente. Tali contratti sarebbero stati conclusi a copertura di altrettanti contratti di mutuo stipulati dal Comune. In particolare, tali IRS erano stati posti in essere con atti della Giunta o con determina dirigenziale sulla base di una delibera del Consiglio comunale che prevedeva solo mere “linee di indirizzo”.

Il comune proponeva domanda giudiziale volta alla declaratoria della nullità, all’annullamento o all’accertamento della inefficacia sopravvenuta dei predetti negozi, oltre che al risarcimento del danno quantificabile in relazione ai differenziali negativi attesi.

La domanda veniva rigettata dal Tribunale di primo grado. La Corte d’Appello[1], invece, accoglieva il gravame dell’Ente e in riforma dell’anzidetta sentenza dichiarava la nullità e l’inefficacia dei contratti e disponeva la ripetizione degli importi di tempo in tempo corrisposti in adempimento dei contratti di Interest Rate Swap.

La Corte d’Appello, in sintesi, ha ritenuto che:

  1. il contratto di swap, ed in particolare ma non solo, quello che prevede un upfront iniziale, costituisce proprio per la sua natura aleatoria, una forma di indebitamento per l’ente, attuale o potenziale;
  2. l’indicazione del mark to market è un elemento essenziale del contratto e integrativo della causa tipica, da esplicitare necessariamente ed indipendentemente dalla finalità di copertura o speculativa;
  3. la clausola di upfront evidenzia la potenziale passività del contratto;
  4. le delibere di accensione degli swap debbano essere assunte dal Consiglio comunale in quanto prevedono spese che impegnano il bilancio per esercizi successivi;
  5. costituendo tali contratti un indebitamento deve risultare in maniera esplicita che gli stessi siano stati contratti per finanziare spese di investimento;
  6. è necessario che nei contratti di swap vi sia un puntuale riferimento ai mutui sottostanti onde evitare la mancata emersione della causa in concreto delle operazioni.

La Banca proponeva un ricorso per Cassazione affidato a cinque motivi che, di fatto, ponevano due questioni per vagliare la validità dei contratti Swap conclusi dai comuni in generale: a) la possibilità di qualificare l’assunzione dell’impegno dell’ente locale che stipuli il contratto avente ad oggetto il nominato derivato come indebitamento; b) l’individuazione dell’organo chiamato a deliberare una siffatta operazione.

La Prima Sezione civile della cassazione rimetteva la causa al Primo presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite[2].

La premessa

Le Suprema Corte, prima di mettere a fuoco i temi specifici oggetto di rimessione da parte della Prima sezione, riconosce la necessità di allargare lo sguardo al fenomeno sottostante: i contratti derivati.

Le Sezioni Unite rilevano che la materia dei derivati è oggetto dell’attenzione di dottrina e giurisprudenza da anni risultando controversa l’esistenza di una definizione unificante. Ciò si spiega con il fatto che tali ingegnerie contrattuali trovano genesi nella prassi finanziaria e solo dopo sono state recepite dal sistema giuridico.

La definizione di contratto derivato non si rinviene direttamente nel nostro ordinamento, infatti il Testo Unico della Finanza elenca in modo non tassativo i contratti derivati, che ricomprende tra gli strumenti finanziari, senza darne una compiuta definizione. Allo stesso modo la Banca d’Italia, in una propria circolare[3], coglie solo un aspetto dei derivati definendoli come quei contratti “che insistono su elementi di altri schemi negoziali, quali titoli, valute, tassi d’interesse, tassi di cambio, indici di borsa, ecc.” il cui valore deriva da quello degli elementi sottostanti. L’oggetto sarebbe quindi costituito dal differenziale tra il valore dell’entità di riferimento al momento della stipula e quello assunto dalla medesima entità al momento della data di esecuzione del contratto[4].

In realtà a seguito della direttiva 2013/34/UE, recepita dal D.Lgs. 139/2015, che ha imposto la rilevazione dei derivati nei bilanci delle imprese, è stata introdotta una sorta di definizione per relationem del concetto di “strumento finanziario derivato”. Infatti, l’art. 2426, co. 2, c.c., dopo la riforma del 2015, espressamente afferma che per la definizione si strumento finanziario derivato si debba fare riferimento ai principi contabili internazionali adottati dall’Unione europea.

L’OIC[5] ha dato la definizione di derivato valida ai fini dei principi contabili, ma senz’altro assimilabile anche in ambito giuridico, nel documento 32. Secondo l’OIC un derivato è uno strumento finanziario o un altro contratto che possiede tre caratteristiche: il suo valore varia come conseguenza della variazione di un determinato tasso, prezzo o indice (il c.d. sottostante); non richiede un investimento netto iniziale; è regolato a data futura. Quindi il derivato presenta un valore nominale (c.d. nozionale) la cui interazione con il sottostante determina l’ammontare del regolamento dello strumento finanziario[6].

Dal punto di vista più strettamente giuridico, si ritiene che i derivati debbano essere caratterizzati da astrattezza (rectius astrazione pura) e cartolarità. Con astrazione pura s’intende che il meccanismo costruttivo dello strumento muove da un’entità economica di base e perviene a creare un diverso oggetto (il differenziale), ma una volta creato tale oggetto, lo strumento perde ogni connessione con il titolo originario acquisendo un’autonomia perfetta[7]. Per cartolarità, come è noto, s’intende l’incorporazione al documento.[8]

È comunque necessario evidenziare che l’ordinamento annovera il contratto di Swap tra gli “strumenti finanziari derivati” (art. 1, comma 2°, d. legis. 24.2.1998, n. 58, che richiama l’allegato I, sez. C), omettendo di definirlo e di prevederne una specifica disciplina: trattasi pertanto di un contratto “nominato” dal legislatore, ma con struttura atipica e necessariamente aleatorio[9].

Lo swap, come è noto, è il contratto attraverso il quale due parti convengono di scambiarsi reciprocamente, secondo un programma di date prefissate, due somme di denaro calcolate applicando due parametri differenti (ad esempio tassi di interesse o tassi di cambio) a un capitale sottostante[10]. Nel caso di specie si trattava della più diffusa tipologia di swap – il plain vanilla – che secondo la definizione delle Sezioni Unite «si traduce nel dovere di un Tale di dare all’altro la cifra ∂ (dove ∂ è la somma corrispondente al capitale 1 per il tasso di interesse W) a fronte dell’impegno assunto dall’Altro di versare al Tale la cifra Y (dove Y è la somma corrispondente al capitale 1 per il tasso di interesse Z).

Tale tipologia di contratto, essendo elaborata sulle specifiche esigenze del cliente e non standardizzata, rientra nella categoria dei derivati c.d. OTC (Over The Counter), strumenti finanziari nei quali l’intermediario si pone come controparte diretta del proprio cliente.

Tale tipologia di contratto, come per molti altri derivati, non gode della c.d. negoziabilità, cioè della capacità di rappresentare una posizione contrattuale in forme idonee alla circolazione. Dalla mancata negoziabilità le Sezioni Unite sembrano far discendere una conseguenza che potrebbe essere dirompente: testualmente scrivono che “[il contratto derivato] tende a non divenire autonomo rispetto al negozio che lo ha generato».

Tale affermazione pone diversi dubbi circa la predetta astrattezza dei contratti derivati. Infatti anche la dottrina che aveva tentato di spiegare questa apparente contraddizione – dell’astrattezza assoluta e della natura, per l’appunto, “derivata” del contratto – con l’affermazione che la peculiarità propria di tali contratti stesse proprio nel costituire un’entità giuridica a sé stante che trova nella grandezza economica di riferimento una base genetica (necessaria ed insostituibile), dalla quale tuttavia il negozio si affranca immediatamente, assumendo un profilo proprio ed un’autonoma dimensione giuridica[11], sembra essere smentita dalle Sezioni Unite. Si potrebbe ritenere che il collegamento tra contratto derivato e l’underlying instrument permanga nella forma della causa in concreto del contratto, posto che senz’altro non rileva ai fini della opponibilità, anche successiva, delle eccezioni afferenti al rapporto fondamentale.

Gli elementi essenziali dell’Interest Rate Swap

Le Sezioni Unite passano poi ad elencare gli elementi essenziali dei contratti di Interest Rate Swap che la giurisprudenza ha individuato nel tempo:

  1. la data di stipulazione del contratto (trade date);
  2. il capitale di riferimento[12] (notional principal amount);
  3. la data dalla quale iniziano a maturare gli interessi (effective date);
  4. la data di scadenza del contratto (maturity date o termination date);
  5. le date di pagamento (payment dates)[13];
  6. i diversi tassi di interesse da applicare al nozionale (interest rate).

Gli IRS, ed in generale gli strumenti derivati, possono inoltre essere par o non par: «I contratti par sono strutturati in modo tale che le prestazioni delle due controparti siano agganciate al livello dei tassi di interesse corrente al momento della stipula del contratto; a tale data il contratto ha quindi un valore di mercato nullo per entrambe le controparti. I contratti non par, invece, presentano al momento della stipula un valore di mercato negativo per una delle due controparti, poiché uno dei due flussi di pagamento non riflette il livello dei tassi di mercato. In generale, i termini finanziari della transazione vengono riequilibrati attraverso il pagamento di una somma di denaro alla controparte che accetta condizioni più penalizzanti; tale pagamento, che dovrebbe essere pari al valore di mercato negativo del contratto, prende il nome di up front»[14].

Dunque, nei contratti non par la parte avvantaggiata – generalmente l’intermediario finanziario – dovrà corrispondere alla parte svantaggiata un importo monetario (definito “up front”) corrispondente al valore negativo del derivato al momento della avvenuta negoziazione. In difetto ci si troverebbe in presenza di costi impliciti ed ingiusti a carico della parte svantaggiata.

A contrario, quindi, si può sostenere che la presenza di una clausola di up front iniziale indica che il contratto ha un valore di mercato negativo per la parte che riceve l’up front.

Le Sezioni Unite affermano, poi, che il contratto può nascere non par così come può divenire tale nel tempo[15]. Nel caso in cui il contratto diventi non par potrebbe sorgere l’interesse della parte svantaggiata a liberarsi dal contratto. In questo caso assume «rilievo il c.d. mark to market (MTM) o costo di sostituzione (meglio, il suo metodo di stima), ossia il costo al quale una parte può anticipatamente chiudere il contratto o un terzo estraneo all’operazione è disposto, alla data della valutazione, a subentrare nel derivato: così da divenire, in pratica, il valore corrente di mercato dello swap (il metodo de quo consiste, insomma, in una simulazione giornaliera di chiusura della posizione contrattuale e di stima del conseguente debito/credito delle parti)».

La Cassazione dà una precisa definizione del Mark to Market definendolo «la stima del valore effettivo del contratto ad una certa data (anche se, in astratto, il mark to market non esprime un valore concreto ed attuale, ma una proiezione finanziaria). Il mark to market è, dunque, tecnicamente un valore e non un prezzo, una grandezza monetaria teorica calcolata per l’ipotesi di cessazione del contratto prima del termine naturale. Più precisamente è un metodo di valutazione delle attività finanziarie che si contrappone a quello storico o di acquisizione attualizzato mediante indici di aggiornamento monetario, che consiste nel conferire a dette attività il valore che esse avrebbero in caso di rinegoziazione del contratto o di scioglimento del rapporto prima della scadenza naturale

La Cassazione passa poi ad analizzare la annosa questione della causa del contratto di swap[16]. Le Sezioni Unite riconoscono che tale contratto abbia causa variabile perché suscettibile di rispondere ora ad una finalità assicurativa ora di copertura di rischi sottostanti; così che la funzione che l’affare persegue va individuata esaminando il caso concreto e che, perciò, in mancanza di una adeguata caratterizzazione causale, detto affare sarà connotato da una irresolutezza di fondo che renderà nullo il relativo contratto perché non caratterizzato da un profilo causale chiaro e definito (o definibile).

I derivati possono avere anche una funzione speculativa, ma ciò che la Corte – in ogni caso – esclude è che gli stessi abbiano la causa della scommessa tout court.

Infatti, il legislatore all’art 23 co 5 del TUF esclude nei confronti dei derivati l’applicazione dell’art 1933 cc.

Con l’art. 1933 c.c. il legislatore dimostra di non attribuire tutela al credito derivante dal gioco e dalla scommessa, salvo l’irripetibilità di quanto spontaneamente pagato, pertanto tale rapporto assume una rilevanza solo sul piano sociale. Il credito derivante dal gioco o dalla scommessa deriva da una scelta irrazionale e in quanto tale indifferente al legislatore che, come detto, non concede un’azione volta all’adempimento della scommessa, pur non ritenendo l’operazione priva di causa, tanto da non ritenere il pagamento spontaneo della scommessa un indebito ripetibile.

Da tale norma, marginale nei traffici giuridici, si ricava un principio generale dell’ordinamento: lo spostamento patrimoniale, per godere della tutela ordinamentale, non solo deve essere causale, ma deve anche essere razionale[17].

Ciò posto, i contratti derivati, dal punto di vista meramente strutturale sono assimilabili alla scommessa, eppure, la mancata applicazione dell’art. 1933 (e quindi la piena tutela ordinamentale), ci indica il discrimen con la scommessa stessa: la razionalità dell’alea.

I derivati sono quindi caratterizzati da razionalità: sono basati su un calcolo razionale delle previsioni sulla base delle informazioni disponibili, ciò significa che le parti fanno una previsione di quale potrà essere il mutamento del valore del bene nel tempo, sulla base delle informazioni disponibili. Ed è proprio tale razionalità che ha portato il legislatore a concedere a questi strumenti tutela giuridica. A tutti questi strumenti, giova ripeterlo, anche a quelli con funzione speculativa.

Pertanto, si può così sintetizzare:

  • la causa del contratto derivato è variabile (finalità assicurativa, di copertura o speculativa);
  • escludendo l’applicazione del 1933 il legislatore riconosce astrattamente la meritevolezza di tutela giuridica;
  • occorre verificare in concreto, in relazione al singolo contratto, se l’interesse perseguito dalle parti è meritevole di tutela;
  • il criterio per formulare tale giudizio di meritevolezza lo si ricava dalla norma la cui applicazione è esclusa: l’art. 1933 c.c. pertanto il contratto è meritevole di tutela solo se determina uno spostamento razionale di ricchezza.

Posta questa base, cioè che solo se il rischio negoziato è razionale, la causa è meritevole di tutela, le Sezioni Unite giungono a indicare quali sono gli elementi necessari affinché le parti assumano un rischio razionale.

Il rischio è razionale quando può essere calcolato: quando il contratto contiene gli elementi che consentono di valutare il rischio secondo uno scenario probabilistico.

In caso contrario il rischio è irrazionale ed il contratto è nullo in quanto non meritevole di tutela.

Afferma la Cassazione che «appare necessario verificare – ai fini della liceità dei contratti – se si sia in presenza di un accordo tra intermediario ed investitore sulla misura dell’alea, calcolata secondo criteri scientificamente riconosciuti ed oggettivamente condivisi, perché il legislatore autorizza questo genere di “scommesse razionali” sul presupposto dell’utilità sociale delle scommesse razionali, intese come specie evoluta delle antiche scommesse di pura abilità. E tale accordo non deve limitarsi al mark to market, ma investire, altresì, gli scenari probabilistici, poiché il primo è semplicemente un numero che comunica poco in ordine alla consistenza dell’alea. Esso dovrebbe concernere la misura qualitativa e quantitativa dell’alea e, dunque, la stessa misura dei costi pur se impliciti

Tale passaggio esplicita in modo chiarissimo che un derivato, per essere meritevole di tutela, deve indicare il mark to market e gli scenari probabilistici.

Non basta però che il contratto generi un rischio calcolabile. Infatti, anche quando il rischio è calcolabile il contratto è comunque assoggettato ad un secondo giudizio di meritevolezza sotto il profilo della natura unilaterale o bilaterale dell’alea.

Quell’alea, oltre che calcolabile, deve essere bilaterale. Cioè il rischio deve essere a carico di entrambe le parti del contratto, in caso contrario risulterebbe ancor meno meritevole di tutela della scommessa (ove quantomeno l’alea è bilaterale).

Pertanto, se il rischio di differenziali negativi è sbilanciato su di una parte contrattuale, come avviene in un derivato non par, con riferimento alle condizioni corrispettive iniziali, lo squilibrio così emergente esplicitamente dal negozio può essere riequilibrato con il pagamento, al momento della stipulazione, di una somma di denaro al soggetto che accetta le pattuizioni deteriori(up front).

Pertanto, il contratto non par esplicita il costo dello squilibrio nell’up front. Nel caso in cui un contratto non par non preveda la clausola di up front questo avrà nel valore iniziale negativo dello strumento il costo dell’operazione: nella prassi, il compenso dell’intermediario per il servizio fornito.

Le Sezioni Unite ritengono che l’intermediario finanziario sia tenuto «a fornire raccomandazioni personalizzate al suo assistito; anche attraverso la deduzione dei cd. costi impliciti, altrimenti riconducendosi ad essi lo squilibrio iniziale dell’alea, misurato in termini probabilistici, sull’assunto che ciò costituisca un incentivo affinché l’intermediario raccomandi all’investitore strumenti OTC, nei quali la remunerazione è occultata, piuttosto che strumenti da acquisire sul mercato, presso cui il compenso ha la forma della commissione da concordare.

Con la possibilità di riconoscere una ipotesi di conflitto di interessi fra intermediario e cliente, poiché nei derivati OTC, a differenza che in quelli uniformi, tale conflitto è naturale, discendendo dall’assommarsi nel medesimo soggetto delle qualità di offerente e consulente.»

I contratti derivati degli Enti locali

Nella seconda metà degli anni ‘90, gli Enti locali iniziano a stipulare i primi contratti derivati con finalità di copertura del rischio di cambio dei prestiti in valuta estera (i cd. Currency Swap). Successivamente, con la finanziaria per l’anno 2002[18], è stata estesa agli enti locali la facoltà di emettere titoli obbligazionari (e di contrarre mutui) con rimborso del capitale in un’unica soluzione alla scadenza – cd. titoli bullet – previa costituzione di un fondo di ammortamento del debito o conclusione di swaps per l’ammortamento del debito[19].

La L. n. 244 del 2007 (finanziaria per il 2008) ha chiarito la necessità che le modalità contrattuali, gli oneri e gli impegni finanziari in derivati siano espressamente dichiarati in una nota allegata al bilancio e che gli enti locali attestino di essere a conoscenza dei rischi e delle caratteristiche degli strumenti finanziari utilizzati. Tale ultima legge ha rafforzato il regime dei poteri di verifica esterni con un richiamo ad un obbligo di trasparenza, con disposizioni poi abrogate del D.L. n. 112 del 2008, art. 62, comma 10 (intitolato “Contenimento dell’uso degli strumenti derivati e dell’indebitamento delle regioni e degli enti locali”), per essere riformulate in termini più stringenti dalla L. n. 147 del 2013, art. 1, comma 572 (legge di stabilità per il 2014), che ha modificato l’art. 62, vietando definitivamente, salvo nei casi individuati dalla stessa norma, alle Province autonome di Trento e di Bolzano e agli enti locali di “3. (…) a) stipulare contratti relativi agli strumenti finanziari derivati (…); b) procedere alla rinegoziazione dei contratti derivati in essere alla data di entrata in vigore della presente disposizione; c) stipulare contratti di finanziamento che includono componenti derivate”.

La L. n. 147 del 2013 ha, quindi, stabilito che, salvo eccezioni, l’accesso ai derivati è precluso (a pena di nullità eccepibile dal solo ente) agli enti locali.

Così delineato il quadro normativo, le Sezioni Unite chiariscono che sulla base della disciplina vigente fino al 2013 e della distinzione tra i derivati di copertura e i derivati speculativi, in base al criterio del diverso grado di rischiosità di ciascuno di essi, l’ente locale poteva dirsi legittimato a procedere alla stipula dei soli derivati di copertura.

Il fatto che tali contratti dovessero essere di copertura però non esaurisce il problema. «Restano infatti aperti i problemi generali relativi alla determinatezza (o determinabilità) dell’oggetto del contratto; quelli secondo i quali la validità dell’accordo va verificato in presenza di un negozio (tra intermediario ed ente pubblico o investitore) che indichi (o meno) la misura dell’alea, calcolata secondo criteri riconosciuti ed oggettivamente condivisi, perché il legislatore autorizza solo questo genere di scommesse sul presupposto dell’utilità sociale di quelle razionali, intese come specie evoluta delle scommesse di pura abilità

Pertanto, nel contratto deve essere indicata la misura qualitativa e quantitativa dell’alea e, dunque, la stessa misura dei costi, pur se impliciti.

In estrema sintesi, quindi, i contratti derivati conclusi dagli Enti locali devono indicare: a) il mark to market; 2) gli scenari probabilistici; 3) i costi (anche se impliciti).

Sottolinea la Corte, che la necessità di una precisa misurabilità/determinazione dell’oggetto contrattuale, comprensiva sia del criterio del mark to market sia degli scenari probabilistici, sia dei cd. costi occulti, ha lo scopo di ridurre al minimo e di rendere consapevole l’ente di ogni aspetto di aleatorietà del rapporto. Ammettere, invece, che l’Ente pubblico possa concludere contratti senza una esatta determinazione dell’oggetto costituirebbe una rilevante disarmonia nell’ambito delle regole relative alla contabilità pubblica, introduttiva di variabili non compatibili con la certezza degli impegni di spesa riportati in bilancio.

La calusola di up front nei contratti degli Enti pubblici

Come anticipato, la clausola di up front può essere presente nei contratti non par e corrisponde al valore negativo del derivato al momento della avvenuta negoziazione. Pertanto, l’operazione attraverso la quale un Ente riceve del denaro oggi, impegnandosi a pagare dei flussi di denaro dovuti al probabile differenziale negativo del derivato, è assimilabile a un finanziamento[20].

Si badi che l’operazione va valutata nel suo complesso. «Se il denaro ottenuto con l’upfront è da considerare indebitamento, lo stesso non può dirsi degli IRS conclusi dagli enti pubblici, i quali, eventualmente, possono presupporre un indebitamento. Infatti, l’operazione di swap va guardata nel complesso, perché il suo effetto può, sostanzialmente, consistere in un indebitamento, com’è dimostrato da quegli enti locali che sono stati capaci di utilizzare gli IRS alla stregua di mutui e, tramite essi, in concreto, modificare e gestire il livello dell’indebitamento»

La competenza del Consiglio comunale

Le competenze in materia di spesa nell’ambito del Comune, sono disciplinate dall’art. 42 T.U.E.L. che, al comma 2, lett. i), assegna al consiglio comunale il compito di deliberare in ordine alle spese che impegnino i bilanci per gli esercizi successivi, escluse quelle relative alle locazioni di immobili ed alla somministrazione e fornitura di beni e servizi a carattere continuativo; ed alla lettera h) assegna al consiglio la contrazione di mutui e aperture di credito non previste espressamente in atti fondamentali del consiglio ed emissioni di prestiti obbligazionari.

La competenza del Consiglio si spiega con la necessità di rendere partecipi gli schieramenti assembleari di minoranza in scelte che comportino l’impegno di spesa per molti anni con risorse della collettività. Anche i contratti derivati, seppur pattuiti da un Comune con lo scopo di rinegoziare in termini più favorevoli i mutui precedenti, comportano spese per l’amministrazione che li stipula e tali spese gravano a carico degli esercizi successivi a quello di sottoscrizione del contratto.

Inoltre, si deve rilevare che, come detto, i Comuni possono stipulare solo derivati di copertura. Ciò comporta che vi sia un precedente contratto di mutuo che deve essere “coperto” dal derivato. La modifica delle condizioni dell’indebitamento, incidendo sui costi pluriennali di bilancio comporta senz’altro la competenza del Consiglio.

Si deve anche rilevare che la ristrutturazione del debito che viene a crearsi con la stipula di swap a copertura di finanziamenti comporta la necessità della gara pubblica. Dovendo la P.A. conformare la sua azione ai principi di economicità e convenienza economica, così come deve selezionare l’istituto di credito mutuante con una gara, dovrà seguire la medesima procedura per rinegoziare o ristrutturare quel mutuo.

Conclusioni

La sentenza in commento ha il pregio di fare chiarezza su uno degli argomenti più dibattuti del diritto finanziario. I contratti derivati, infatti, costituiscono un fenomeno diffusissimo nella prassi economica sul quale si avvertiva la necessità di un approfondimento giuridico.

È evidente che la portata di questa sentenza non possa essere confinata ai derivati stipulati dagli Enti pubblici, ma vada estesa a tutti i rapporti regolati con questi strumenti.

 


[1] App. Bologna, sent. 734 del 11.3.2014 rinvenibile su http://www.ilcaso.it/
giurisprudenza/archivio/fin.php?id_cont=10296.php

[2] Ordinanza 493 del 10.01.2019 rinvenibile su https://www.dirittobancario.it/giurisprudenza/banca-e-finanza/derivati/alle-sezioni-unite-la-possibilita-gli-enti-locali-di-concludere-uno-swap

[3] Circolare della Banca d’Italia, Disposizioni di vigilanza per le banche, 17 dicembre 2013, 285, in www.bancaditalia.it.

[4] Villa, I contratti derivati stipulati dalle amministrazioni pubbliche, in Giornale Dir. Amm., 2015, 5, p. 613.

[5] Organismo Italiano Contabilità.

[6] Quagli, Bilancio e principi contabili 2017, Milano, 2017, p. 285.

[7] Girino, I contratti derivati, Milano, 2010, p. 22.

[8] Cusumano, La clausola rischio cambio nei contratti di leasing, in NGCC, 2019, 2, p. 232.

[9] Calabrese, Mark to market tra causa e oggetto del derivato, in NGCC, 2018, 10, p 1381.

[10] Maffeis, voce “contratti derivati, nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., IX, Utet, 2010, p. 357

[11] Girino, I contratti derivati, Milano, 2010, p. 243.

[12] Il nozionale non viene scambiato tra le parti, ma serve esclusivamente per il calcolo degli interessi.

[13] Indicano i momenti in cui sono scambiati i flussi di interesse.

[14] Così come affermato dalla Consob nell’Audizione avanti alla VI Commissione Finanze e Tesoro del Senato del 18 marzo 2009

[15] Quando, in un dato momento sopravviene uno squilibrio fra i flussi di cassa futuri attualizzati.

[16] Per un’ampia trattazione del tema della causa dei derivati OTC si veda Sartori, Divagazioni in tema di causa del contratto municipale (alieno) derivato, in Riv. dir. priv., 2013, 4, p. 501.

[17] Si badi che irrazionale non è assolutamente un sinonimo di aleatorio.

[18] L. n. 448 del 2001, art. 41.

[19] Si tratta di uno swap che costringeva l’ente pubblico ad effettuare pagamenti alla controparte dello swap in una misura per cd. equivalente ad un ipotetico piano di ammortamento del debito contratto dall’ente medesimo

[20] Si badi che la questione si pone esclusivamente per i derivati conclusi prima del 2008. Infatti il D.L. n. 112 del 2008, art. 62, comma 9, come modificato dalla L. n. 133 del 2008, in sede di conversione e, successivamente, sostituito dalla L. n. 203 del 2008, art. 3 (finanziaria per il 2009), il quale ha stabilito che “sulla base dei criteri definiti in sede Europea dall’Ufficio statistico delle Comunità Europee (EUROSTAT), l’eventuale premio incassato al momento del perfezionamento delle operazioni derivate costituisce indebitamento dell’Ente”

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