Il contributo approfondisce il tema delle imprese (società) benefit, che compongono la c.d. economia collaborativa o gig economy e si caratterizzano, oltreché per il perseguimento di obiettivi di profitto e socio-ambientali, per il legame inscindibile con la tecnologia sottostante, non solo funzionale allo svolgimento dell’attività, ma molto spesso determinante rispetto alle modalità e i vincoli secondo i quali detta attività viene svolta.
1. Premessa
Come eloquentemente osservato[1], la società post-industriale è caratterizzata dalla centralità della conoscenza, del sapere, delle competenze, e si distingue, in virtù di queste caratteristiche, sia dal modello di società industriale, basato sulla produzione, sia dal modello di società pre-industriale, caratterizzato da un capitalismo di carattere convenzionale e/o da un’economia estrattiva basata prevalentemente sullo sfruttamento delle risorse naturali.
Una delle conseguenze principali che deriva dalla centralità delle competenze e dal predominio dei servizi sulla produzione è l’importanza assoluta che assumono le relazioni tra stakeholders. Secondo Bell (1973), la società post-industriale e l’economia dell’informazione sono “un “game of people”. Si tratta di un contesto in cui la relazione e i rapporti di causalità tra capitale, innovazione tecnologica e stakeholders assumono un’importanza fondamentale.
Già quasi quarant’anni fa, Bell riusciva ad intravedere il delinearsi di un sistema economico incardinato sul capitale intangibile e sull’importanza della fiducia e caratterizzato da una veloce e costante evoluzione, ma soprattutto definito dalla relazione dinamica che esiste tra innovazione tecnologica e capitale. Secondo il filosofo americano, è proprio la relazione tra tecnologia e capitale che segna la linea di demarcazione tra il sistema capitalista e quello socialista. Da un punto di vista della teoria neo-istituzionale dell’impresa si arriva a conclusioni simili. È noto come il meccanismo dei prezzi funzioni, a meno della presenza di fallimenti del mercato, all’interno del mercato, mentre all’interno dell’impresa prevale una relazione di carattere gerarchico proprio per riuscire a contenere i fallimenti del mercato dovuti da incompletezza contrattuale. Se la sfiducia nei confronti del mercato si rivelasse totale, allora il sistema dei prezzi verrebbe meno e ci si troverebbe davanti a un’economia pianificata. Il caso storico dell’Unione Sovietica rappresenta di fatto un esempio di totale sfiducia nei confronti del mercato.
Si tratta di principi che ancora oggi rimangono attuali. Svilupperemo questi concetti nei seguenti paragrafi. A titolo di esempio, anche per illustrare la complessità e la delicatezza dell’argomento, si pensi all’evoluzione della rilevanza del dato. Dichiarare l’importanza e la centralità dell’accesso ai dati nell’economia moderna è un’affermazione comune e che all’osservatore frettoloso potrebbe apparire del tutto corretta. In realtà, a ben vedere, si nota che si tratta di un’affermazione per molti versi obsoleta e approssimativa. Più che l’accesso ai dati, ciò che rileva oggi è la capacità di leggere i dati, di selezionare quei dati capaci di fornire evidenze rilevanti al fine di supportare una determinata teoria, una determinata strategia o di scoprire un determinato pattern andamentale. Il dato[2], non deve essere trattato come veicolo neutrale di informazioni. Il dato è un veicolo di valori che va contestualizzato temporalmente. Una società decide di misurare e di creare dati in ragione dei valori che la animano e degli obiettivi che reputa rilevanti e perseguibili. Gli algoritmi che spesso guidano le scelte dell’impresa post-industriale non dovrebbero costituire un’eccezione. L’interpretazione dei dati e ancora prima la costruzione degli algoritmi riguarda la sfera dei valori e quindi la costruzione filosofica più che quella tecnica, visto che come ricorda Martin Heidegger nel celeberrimo discorso di Monaco di Baviera (1953) il valore sta “nell’impianto” (Gestell)[3].
In un contesto come quello appena descritto, i criteri di bilanciamento che verranno utilizzati per gestire l’equilibrio dinamico tra assetto sociale, economico e giuridico e innovazione tecnologica incideranno massivamente sul valore e sulla connotazione del capitale delle imprese, nonché sul loro assetto organizzativo e produttivo. La sostenibilità del modello di business dell’impresa post-industriale e la sua capacità di creare valore non possono prescindere dalla relazione che esiste tra innovazione e capitale.
Tuttavia l’indeterminatezza e la fluidità del concetto di capitale nell’economia post-industriale, nonché la traiettoria evolutiva dei modelli organizzativi dell’impresa post-industriale influenzata principalmente dall’innovazione tecnologica, rendono arduo il compito di chi volesse cimentarsi nell’attività di individuazione del perimetro dell’impresa, nonché nella definizione del suo capitale che, come vedremo, è in misura sempre crescente costituito da beni immateriali.
Partendo da un’analisi della configurazione dell’impresa post-industriale condotta tramite la lente del concetto di capitale, dei principi della teoria neo-istituzionalista dell’impresa e delle disposizioni contenute nel codice civile, l’articolo si propone di illustrare l’idoneità del concetto di benefit, quindi potremmo dire del bene comune, a fungere da strumento per re-interpretare la struttura operativa e organizzativa delle imprese che appartengono alla gig economy.
2. L’economia collaborativa e l’evoluzione dell’impresa post-industriale
L’economia collaborativa, comunemente definita gig economy, nasce come un movimento incardinato sulla volontà di contribuire alla creazione di un sistema economico e finanziario capace di produrre reddito, valore, ottimizzazione operativa, ma anche integrazione sociale e maggiori tutele per il capitale umano e ambientale[4]. Oltre a perseguire obiettivi di profitto e socio-ambientali, a differenza delle imprese benefit tradizionali, le imprese che compongono la gig economy sono spesso caratterizzate da un legame a doppio filo con la tecnologia sottostante, la quale non solo consente loro di svolgere la propria attività, ma molto spesso determina, a volte senza che questo rappresenti una scelta del tutto consapevole, le modalità e i vincoli secondo i quali detta attività viene svolta. Si tratta quindi di un modello di impresa ibrida oltremodo complesso.
Le vicende giudiziarie in cui sono stati coinvolti alcuni degli esponenti di maggior spicco della gig economy mettono in evidenza due macro aree di criticità. In primo luogo, persistono le difficoltà incontrate fino ad ora nel ricondurre il modello di business dell’impresa post-industriale all’interno dei modelli organizzativi e degli istituti giuridici tradizionali. In secondo luogo, l’analisi del nesso di causalità tra una concezione deterministica della tecnologia e la graduale diluizione della componente benefit, nonché il depotenziamento dei meccanismi di corporate governance a presidio della tutela degli stakeholders rimane ad oggi in gran parte trascurato.
3. Tecnologia senza governance: l’incidenza negativa sul capitale intangibile e la perdita della connotazione ibrida
Troppo spesso l’algoritmo sul quale si basano l’operatività dell’impresa, le scelte tattiche di breve termine, nonché la gestione dei rapporti e dei conflitti tra soggetti collegati all’impresa, sembra essere volutamente portatore degli interessi di una sempre più ristretta cerchia di stakeholders[5]. In questo modo vengono trascurati e quindi traditi, i principi che avevano inizialmente dato vita a questo modello imprenditoriale. La crescente e incontrollata rilevanza che riveste la tecnologia nell’impresa post-industriale sta facendo venir meno la connotazione ibrida dell’impresa post-industriale stessa.
Nella società della conoscenza e dell’innovazione[6], quindi in un contesto economico dove il capitale intangibile acquista un valore sempre maggiore, la fiducia che gli stakeholders ripongono nell’ impresa, nonché la comunanza di valori e principi tra impresa e stakeholders, diventa una componente fondamentale del patrimonio dell’impresa stessa. Il peso dei beni immateriali in rapporto alla capitalizzazione delle imprese è in costante aumento. Secondo Ocean Tomo, società specializzata nella consulenza nel settore della proprietà intellettuale, tra il 1995 e il 2015 il peso del capitale intangibile sulla valorizzazione dell’indice S&P 500 è salito dal 68% all’84%. Sempre secondo la stessa società, detto valore sarebbe salito a circa 90% nel luglio 2020. In Capitalismo senza Capitale, Haskel e Westlake (2018)[7] espongono i risultati della loro elaborazione dei dati contenuti in INTAN-Invest dimostrando che nel 2013 gli investimenti in beni intangibili rappresentavano il 10% del GDP complessivo europeo, mentre gli investimenti in beni tangibili rappresentavano circa il 12%. Secondo gli autori, l’attuale stagnazione economica, la crescente ineguaglianza sociale ed economica, il contributo crescente del settore finanziario alla crescita degli investimenti in beni intangibili, nonché l’evoluzione dell’assetto organizzativo e operativo dell’impresa post-industriale, sono dirette conseguenze del ruolo preponderante assunto dal capitale intangibile. La crescente rilevanza degli assets intangibili è stata anche soggetto della crisi del 2007-2008 in quanto molte banche e società industriali hanno dovuto svalutare rapidamente assets intangibili acquisiti a caro prezzo solo pochi anni prima che si rivelassero di nessun valore, anche a causa delle mutate prospettive economiche.
Le narrazioni, come eloquentemente sostenuto[8], sono un esempio della rilevanza del capitale intangibile, in quanto, consentendo di condividere valori, principi, aspirazioni, dimostrare, persuadere, dissuadere, consolare, ammonire, esortare e ammansire gli interlocutori. Si tratta quindi di uno strumento importante per la creazione di fiducia e quindi di valore. Si tenga anche presente che l’impatto di una narrazione pretestuosa o incoerente può incidere negativamente sul capitale intangibile dell’impresa. Come osservato[9] ogni volta che UBER soccombe in un procedimento avente ad oggetto la qualificazione della natura della propria attività o il rapporto che lega la società ai suoi fornitori di servizi, viene dato il forte segnale che la narrativa di UBER è incorretta. Le ripercussioni sul capitale intangibile e sul capitale economico in termini di danno reputazionale, risarcimento danni e costi legali non sono trascurabili. A questo proposito, si tenga anche presente che, per quanto riguarda il settore finanziario, l’impatto maggiore sul costo del capitale di rischio e anche del capitale di debito è quello che deriva dall’ESG controversies score, che è un indice che misura gli aspetti reputazionali e l’impatto di frodi e contenziosi con le autorità[10]. In altre parole un miglioramento dell’ESG controversy score provoca una riduzione di maggiore impatto sul costo del capitale rispetto ad un aumento analogo di E, S, o G.
Possiamo prescindere in questa sede da un’analisi approfondita delle tematiche connesse all’ individuazione e dalla valutazione del capitale intangibile[11], questioni peraltro ancora largamente dibattute in dottrina[12], ma non possiamo ignorare che, da un punto di vista sostanziale, appare molto difficile accordare fiducia ad un modello di impresa che non ha saputo rimanere fedele ai propri principi ispiratori e le cui scelte sembrano essere prive di un vero proposito e dipendono in via quasi esclusiva da un algoritmo che opera meccanicamente sulla base di codici, la cui conoscenza è un privilegio riservato ad una ristrettissima cerchia di individui.
Si tratta di un tema di importanza fondamentale, la cui portata si estende ben oltre il perimetro delle riflessioni relative alla mission dell’impresa e ai meccanismi giuridici che ne disciplinano il funzionamento, in quanto va a toccare[13] il delicatissimo tema della relazione tra intelligenza artificiale, etica e tutela, (quest’ultima ironicamente spesso anche garantita facendo ricorso ad armi pilotate da intelligenza artificiale), dei diritti che nella nostra società sono ritenuti fondamentali.
4. Intelligenza artificiale ed etica
Già nel 2019 l’OCSE[14] ha fornito delle raccomandazioni volte ad individuare i principi e le finalità a cui deve tendere l’utilizzo dell’intelligenza artificiale[15]. Si noti come al primo posto troviamo, pari passu, crescita inclusiva, sviluppo sostenibile e benessere. Uno studio pubblicato dall’UNESCO[16], sempre nel 2019, volto a valutare la meritevolezza dell’utilizzo di standards etici applicabili all’intelligenza artificiale, giunge a conclusioni sostanzialmente simili a quelle a cui giunge l’OCSE anche se, nel caso dell’UNESCO, si riscontra una maggiore enfasi sulla necessità di salvaguardare la diversità.
Le raccomandazioni dell’OCSE e lo studio pubblicato dall’UNESCO, oltre a fornire un’indicazione dei criteri ai quali dovrebbe informarsi l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, mettono in risalto, aspetto particolarmente rilevante ai fini della nostra esposizione, la necessità di ridare centralità alla tutela dei principi giuridici ed etici che rappresentano la pietra angolare del sistema giuridico e finanziario degli ordinamenti dei paesi di capitalismo avanzato[17]. In questo contesto, il concetto di benefit ed il modello di impresa con finalità ibrida si configurano come uno strumento ideale per garantire il rispetto sostanziale di principi giuridici fondamentali, nonché il perseguimento di obiettivi economici e finanziari imprescindibili, quali la redditività dell’impresa.
La capacità di prendere decisioni in tempo reale, di produrre innovazione su base continuativa e di acquisire, elaborare e distribuire informazioni e dati sono condizione imprescindibile per il successo del processo di transizione verso una maggiore resilienza e sostenibilità. È evidente, quindi, che la connotazione attuale della società post-industriale sia il frutto di un processo evolutivo intrapreso per aumentare resilienza e capacità di rispondere alle sollecitazioni che provengono dal contesto in cui l’impresa si trova ad operare. La gig economy e la struttura dell’impresa post-industriale sono, per definizione, in continua evoluzione, ma non hanno una natura transitoria. L’investimento intellettuale necessario per comprenderne il funzionamento e la traiettoria evolutiva, ed effettuarne l’inquadramento all’interno di modelli ed istituti già esistenti appare quindi indispensabile.
5. Il benefit come criterio per la determinazione del perimetro giuridico dell’impresa post-industriale
L’impresa post-industriale incarna un modello di impresa caratterizzato dalla scissione tra attività di impresa e società intesa, in senso atecnico, come il veicolo giuridico di cui l’imprenditore sceglie di dotarsi per svolgere una determinata attività economica.
Partendo da un’analisi giuridica si rileva innanzitutto che ci si trova dinnanzi ad un modello organizzativo che, almeno da un punto di vista formale, non sembra essere immediatamente riconducibile al disposto dall’art. 2247 c.c. il quale prevede che “con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili”. In molti casi la società post-industriale non è titolare dei mezzi di produzione e fornisce servizi diversi da quelli che hanno spinto all’aggregazione iniziale delle parti. Ad esempio, UBER vuole presentarsi, ed è da molti percepita, come una piattaforma informatica, capace di abbinare domanda e offerta. È noto, tuttavia, che UBER non offra semplici servizi informatici e nemmeno un tradizionale servizio pubblico di trasporto passeggeri su piazza, almeno stando a quanto veementemente rivendicato, con fortune alterne, dalla società stessa in forza di un’interpretazione piuttosto formale del proprio modello di business[18].
Il perimetro ed il concetto di impresa post-industriale vanno quindi riesaminati tenendo in considerazione le specifiche modalità secondo le quali esse svolgono la propria attività. Per individuare i beni dell’impresa, al criterio tecnico formale andrebbe quindi affiancato un criterio sostanziale capace di dare il giusto risalto all’attività effettivamente svolta dall’impresa, ai contributi forniti dai diversi stakeholders, e alla dipendenza della produzione o della fornitura di servizi da specifici beni o risorse. Questa valutazione andrebbe effettuata prescindendo dalla proprietà dei mezzi di produzione stessi, o dall’assetto formale che le parti coinvolte hanno deciso di dare alla loro relazione. E’ interessante notare che, già all’indomani della seconda guerra mondiale, una sensibilità simile emerse negli Stati Uniti a proposito della possibilità di coniugare profitto, crescita civile e culturale, soprattutto in America Latina e in alcuni paesi europei devastati dal conflitto. Si pensi ad esempio al caso di IBEC Industrial Basic Economy Conglomerate fondato da Nelson Rockefeller nel 1996.
A ben vedere, si tratta di un approccio metodologico compatibile -e per molti aspetti simile- a quello già utilizzato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, al fine di definire l’esistenza di una società di fatto o di una società apparente[19]. La Suprema Corte ha da tempo preso una posizione del tutto simile[20] .
I criteri utilizzati dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiana per verificare l’esistenza di una società di fatto o di una società apparente appaiono potenzialmente adeguati per individuare gli elementi costitutivi della società post-industriale.
Il perimetro dell’impresa post-industriale andrebbe quindi identificato attraverso il concetto di benefit ossia con riferimento al bene comune che l’impresa si prefigge di raggiungere. La definizione del perimetro giuridico dell’impresa post-industriale è un esercizio di fondamentale importanza, in quanto idoneo a evitare situazioni di incertezza capaci di generare costi di agenzia, asimmetrie informative e costruire le fondamenta giuridiche necessarie per favorire un utilizzo del capitale più efficiente, consentendo valutazioni di beni e imprese sempre più accurati. Si pensi ad esempio all’esternalizzazione dei costi connessi all’impatto ambientale della produzione. Il capitale ambientale di cui ogni impresa si avvale per svolgere la propria attività, molto spesso “uti dominus”, ma senza ovviamente averne la piena proprietà, è in tutte le sue forme un’esternalità negativa. Invece, il costo dell’impatto ambientale della produzione andrebbe -anche se ad oggi non sempre accade- incorporato pienamente nel costo dei prodotti messi sul mercato dalle aziende e nelle valutazioni delle aziende stesse, poiché ciò consentirebbe, tra le altre cose, di differenziare, in modo corretto, il valore dei prodotti e delle imprese a seconda del relativo grado di sostenibilità. Su questo tema è stata di grande rilevanza, anche per gli studi economici, l’Enciclica Laudato si’ (2015)[21].
Senza il recupero del concetto di benefit all’interno della propria mission, l’impresa post-industriale non è in grado di definire la propria identità e produrre valore, in quanto rischia di ridursi ad un insieme di codici e algoritmi privi di finalità e ragione. Partendo dal concetto di benefit inteso come l’insieme delle finalità, degli interessi e dei diritti che l’impresa si prefigge di raggiungere e salvaguardare – quindi prendendo in considerazione anche quei diritti e interessi caratterizzati da una valenza economica solo indiretta – è possibile definire il perimetro all’interno del quale si trovano quei soggetti e beni, il cui operato, e la cui continua e inalterata disponibilità, costituiscono il presupposto e la condizione per lo svolgimento di una determinata attività imprenditoriale e il raggiungimento di un determinato oggetto sociale. Tuttavia l’utilizzo del concetto di benefit non deve rendere opaco o indefinito il perimetro dell’impresa o la missione della stessa.
A tal proposito appare utile analizzare la motivazione della decisione della Corte di Giustizia Europea nel procedimento che vedeva coinvolti Asociacion Profesional Elite Taxi e Uber Systems Spain SL [22].
Alla Corte veniva chiesto di pronunciarsi circa la natura del servizio fornito dalla UBER, e, in particolare, se detto servizio dovesse essere classificato come “servizio della società dell’informazione” o “servizio nel settore trasporti”. Ai fini della nostra trattazione appare di grande importanza la motivazione della decisione. La Corte infatti sostiene che “il fornitore di tale servizio d’intermediazione crea al contempo un’offerta di trasporto urbano che rende accessibile segnatamente con strumenti informatici……e di cui organizza il funzionamento generale a favore delle persone che intendono avvalersi di tale offerta per uno spostamento in area urbana”. La Corte prosegue argomentando che “….emerge che il servizio di intermediazione della UBER si basa sulla selezione di conducenti….ai quali [Uber] fornisce un’applicazione senza la quale da un lato tali conducenti non sarebbero indotti a fornire servizi di trasporto e, dall’altro, le persone che intendono effettuare uno spostamento nell’area urbana non ricorrerebbero ai servizi del conducente…..” e conclude affermando che “Tale servizio di intermediazione deve quindi essere considerato parte integrante di un servizio complessivo in cui l’elemento principale è un servizio di trasporto e di conseguenza, non rispondente alla qualificazione di “servizio della società di informazione””. La corte infine aggiunge che “….un servizio di intermediazione …..avente ad oggetto la messa in contatto mediante applicazione per smartphone…..deve essere considerato indissolubilmente legato a un servizio di trasporto e rientrante pertanto nella qualificazione di servizi di settore”.
La Corte basa la propria decisione su una valutazione fattuale caratterizzata da un ragionamento di una linearità invidiabile. I servizi forniti da UBER vanno considerati come un unicum, sono indissolubili e inscindibili. Senza l’uno non potrebbe esistere l’altro, poiché entrambi sono finalizzati e strumentali al perseguimento del medesimo scopo. Il benefit, quindi, inteso come lo scopo ultimo di utilità ambientale e sociale che si prefigge di raggiungere la società post-industriale, dovrebbe essere il magnete che ricompone, attraendoli a se, gli elementi costitutivi di un’attività imprenditoriale, conferendo loro dignità d’impresa. I fattori della produzione ed i soggetti che contribuiscono al perseguimento di detto scopo rientrano, pertanto, nel perimetro dell’impresa, a prescindere dall’esistenza o meno di specifici vincoli giuridici, o dalla qualificazione che si intende dare a detti vincoli. Il benefit può quindi contribuire in maniera significativa a definire l’identità dell’impresa e la sua missione.
È in questo legame incardinato su una comunione, in alcuni casi inconsapevole, di intenti e di interessi che va ricercato il perimetro di un’impresa che potremmo definire “diffusa”[23], che da un lato non possiede né capitale finanziario, ne’ capitale umano ne’ capitale naturale, ma dall’altro è assolutamente dipendente dall’accesso a ciascuna di queste forme di capitale per lo svolgimento della propria attività. Ne consegue che l’impresa post-industriale, così come qualsiasi altra impresa, per essere in grado di creare valore deve dotarsi di tutti quei meccanismi e strumenti contrattuali e di corporate governance capaci di creare un affidabile e solido canale di accesso al capitale naturale, umano e finanziario. Forzature giuridiche, come quelle tentate da UBER, volte a qualificare uno specifico rapporto sulla base di tecnicismi, con la sola finalità di tutelare interessi particolari e ignorando gli interessi di lungo termine della pluralità degli stakeholders, appaiono, oltre che non meritevoli di tutela sotto un profilo giuridico, come confermato dalla giurisprudenza, semplicemente incompatibili con l’essenza di un’impresa incardinata sul concetto di benefit e orientata ad una creazione di valore in modo sostenibile e su un orizzonte temporale di lungo periodo.
6. Il benefit come criterio per la determinazione del perimetro aziendale dell’impresa post-industriale
Spostando il fulcro dell’analisi sul piano economico-finanziario, si nota che secondo Coase (1937)[24], l’impresa consiste in una struttura gestita da un imprenditore capace di allocare risorse e capitali in modo da creare efficienze di costo, tali da rendere preferibile l’attività d’impresa rispetto ad un’allocazione delle risorse basata unicamente sul meccanismo dei prezzi. Sempre secondo Coase, in un’economia di scambi specializzata, è vantaggioso creare un’impresa quando l’utilizzo del meccanismo dei prezzi di mercato comporta costi che potrebbero essere in tutto o in parte eliminati o ridotti, laddove l’attività imprenditoriale fosse esercitata sotto forma di impresa. L’internalizzazione di questo genere di costi quindi, a differenza di quanto accade per i costi connessi all’impatto ambientale, è qualcosa a cui l’imprenditore aspira, poiché l’internalizzazione di detti costi ne comporta una riduzione che dovrebbe contribuire ad accrescere il profitto dell’impresa.
La teoria di Coase ci aiuta nel nostro sforzo definitorio del concetto di impresa e facilita la comprensione delle differenze esistenti tra la concezione dottrinale prevalente e l’identikit dell’impresa post-industriale. Purtroppo però contribuisce solo parzialmente, all’individuazione della finalità dell’impresa. A questo proposito, ci vengono invece in aiuto le teorie neoclassiche[25] fino a poco tempo predominanti e incontestate, secondo le quali l’obiettivo principale dell’impresa è quello di massimizzare il profitto, pur in un contesto di ossequio alla legge esistente. Anche Friedman (1970)[26] afferma che la responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i propri profitti, pur nel rispetto della cornice giuridica esistente. Partendo da questo postulato, Friedman conclude che ogni forma di responsabilità sociale che si configuri come una tassazione occulta indebolisce la legittimità dell’impresa, o comunque la spinge verso percorsi che non le sono propri. Si delinea quindi una concezione dell’impresa che favorisce nettamente una shareholders vision a discapito di una stakeholders vision. Tale concezione, benché prevalente, non ha mai goduto di un supporto assoluto. È stato infatti sostenuto da Drucker[27] che il profitto non costituisce l’oggetto, la finalità dell’impresa, delle sue decisioni o strategie, ma è semplicemente lo strumento per valutarne la meritevolezza nel senso della sua capacità di creare valore o, almeno, di non dissipare risorse . Un’impresa, secondo l’economista, potrà contribuire al perseguimento di obiettivi con una valenza sociale solamente nel caso in cui sia profittevole.
La posizione di Friedman circa la responsabilità sociale dell’impresa non è molto distante da quella di Drucker, il quale tuttavia sostiene che l’impatto sociale è un prerequisito per la sopravvivenza dell’impresa. L’impresa, secondo questa teoria, esisterebbe solamente nella misura in cui l’ecosistema in cui opera la ritiene necessaria e utile. Per Drucker, gli amministratori dell’impresa hanno una responsabilità sociale, non in ragione di una responsabilità verso l’ecosistema in cui l’impresa opera, ma bensì in ragione dei loro obblighi e doveri nei confronti dell’impresa stessa. In altri termini, un’impresa sana non potrebbe esistere in una società malata o in una società che non la giudica necessaria. In realtà in un’ottica olistica la responsabilità sociale dell’impresa contribuisce a misurare alcuni dei fattori di rischio connessi all’esistenza stessa dell’impresa e, in questo modo, ad aumentare il valore della stessa.
La dicotomia tra shareholders vision e stakeholders vision è un argomento che ha da sempre appassionato gli aziendalisti e i giuristi di tutto il mondo. Se una società debba essere gestita anteponendo gli interessi dei soci a quelli di una categoria più ampia di stakeholders, o viceversa, ha un impatto fondamentale sulle regole di governance, sul profilo della responsabilità degli amministratori, ma anche sulla scelta delle strategie da adottare per la creazione di valore. La prevalenza di un modello rispetto all’altro dipende da retaggi storico-culturali, ma soprattutto dall’equilibrio dei rapporti tra azionisti e management. È stato osservato[28] che negli Stati Uniti, spesso in ragione della dispersione della titolarità del capitale, la stakeholders vision sembra prevalere. In Europa, invece, sempre per motivi culturali e storici, la shareholders vision appare dominante. La configurazione del rapporto di agenzia nei paesi di diritto civile presenta, quindi, significative differenze rispetto al rapporto che esiste nei paesi di common law.
Appare legittimo ritenere che la creazione di valore nel lungo periodo non possa prescindere dalla tutela delle condizioni propedeutiche allo svolgimento dell’attività imprenditoriale e da meccanismi efficaci di allineamento di interessi. La tutela del capitale naturale, una corporate governance trasparente e caratterizzata da un funzionamento il cui esito sia prevedibile e la tutela dei soggetti che con il loro contributo partecipano alla creazione di valore sono solo alcuni esempi. Ancora una volta si può quindi osservare come il benefit, inteso come presidio capace di individuare e tutelare valori e obiettivi comuni, si presti ad essere utilizzato per tracciare, anche da un punto di vista economico, i confini dell’impresa post-industriale, oltre che individuare le regole che ne disciplinano il funzionamento. Stakeholders con medesime finalità, che dipendono dallo stesso capitale naturale e che operano all’interno dello stesso mercato appaiono, sotto un profilo sostanziale, parte della stessa attività d’impresa e, come tali, sono dunque meritevoli di tutela da parte del legislatore.
7. Il benefit come capitale intangibile dell’impresa
Il principale elemento di comunanza tra il concetto di impresa contenuto nel codice civile e quello proposto dai teorici della teoria neo-istituzionalista risiede nella centralità del ruolo ricoperto dal capitale.
Tuttavia, in entrambi i casi non si riscontra nessuna indicazione precisa circa i fattori che contribuiscono a trasformare un bene, materiale o immateriale che sia, in capitale, ossia in qualcosa capace di generare altro capitale e quindi valore per gli azionisti e gli stakeholders. Qual’ è dunque l’elemento di differenziazione tra un bene e il capitale? Perché non tutti i beni costituiscono, da un punto di vista economico e finanziario, forme di capitale?
Come è stato acutamente rilevato[29], sono due gli elementi costitutivi del capitale. La presenza di un bene e la sua tutela normativa. Una volta che un bene è stato ritenuto meritevole di tutela dall’ordinamento, esso immediatamente ottiene lo status di capitale, acquisisce valore e diventa astrattamente idoneo a generare ulteriore valore. La tutela normativa consente questa transizione poiché attribuisce importanti caratteristiche al bene in questione che spesso si concretizzano in veri e propri privilegi per il relativo proprietario[30].
È noto che la tipologia di beni che di volta in volta l’ordinamento reputa meritevoli di tutela è soggetta a mutamenti che dipendono in gran parte dai valori che l’ordinamento intende proteggere. A questo proposito, nonché ai fini della presente esposizione, appare difficile pensare ad un esempio più calzante della riforma dell’ 8 febbraio 2022 dell’art. 9 e dell’art. 41 della Costituzione Italiana. A seguito di detta riforma, la Costituzione include per la prima volta tra i principi fondamentali dell’ordinamento la tutela dell’ambiente.
Come osservato in precedenza, l’avvento della società post-industriale incardinata sulla conoscenza, sui rapporti sociali volti allo scambio e all’accrescimento della conoscenza intesa come patrimonio collettivo, ha fatto emergere in modo inconfutabile il legame tra innovazione e capitale e, più precisamente, tra innovazione e capitale intangibile.
Il benefit, in ragione della sua idoneità a creare valore, sia sul piano finanziario che sul piano sociale, sembra essere meritevole di tutela da parte dell’ordinamento, non solo, come peraltro già accade in Italia e in altri paesi, come oggetto sociale dell’impresa, ma anche come una forma di capitale con dignità propria. Ecco quindi riemergere un concetto di impresa post-industriale caratterizzata dal ruolo centrale del capitale.
Laddove si condividesse il concetto di benefit come forma di capitale intangibile, e quindi di patrimonio che l’impresa post-industriale, come accade peraltro con qualsiasi altra forma di capitale, è tenuta a proteggere e valorizzare, sia nel proprio interesse che nell’interesse della totalità degli stakeholders, si potrebbe legittimamente concludere che è proprio l’attività svolta dall’impresa al fine di perseguire l’oggetto benefit e utilizzare il capitale benefit al fine di creare valore aggiuntivo che definisce i confini dell’impresa post-industriale e il suo valore.
Le conseguenze sarebbero molteplici e per essere comprese pienamente dovrebbero costituire l’oggetto di ulteriori studi e ricerche. A questo proposito, basti pensare che se il benefit fosse classificato come una forma di capitale diventerebbe necessario, non solo definirlo in maniera rigorosa da un punto di vista giuridico, ma anche determinarne il costo e il rendimento cimentandosi in un esercizio che può essere portato a termine con esiti positivi solamente disponendo di metriche valutative e competenze che oggi sono ancora in fase di definizione e difficilmente reperibili.
L’impatto sociale dell’impresa, nonché la sua impronta ecologica potrebbero erodere il capitale dell’impresa stessa, determinandone un incremento di rischiosità e di conseguenza l’aumento del costo del capitale e del debito. L’impatto delle esternalità a cui ci si riferiva in precedenza diventerebbe quindi immediatamente visibile e quantificabile.
Inoltre, la tutela di questa nuova forma di capitale si concretizzerebbe quasi certamente in specifici impegni, sia da parte dell’impresa che da parte degli stakeholders. La graduale perdita della connotazione ibrida, che ha caratterizzato fino ad oggi la gig economy, non potrebbe continuare, perché trascurare la componente benefit equivarrebbe in estrema sintesi ad erodere il capitale dell’impresa. Si verrebbe quindi a configurare un operato che gli azionisti non potrebbero tollerare e che l’impresa sarebbe tenuta ad evitare, adeguando i propri meccanismi di corporate governance e di risk management.
8. Conclusione
Come emerge da quanto sopra descritto, le imprese che costituiscono la gig economy si discostano dal paradigma tipico della teoria neoclassica dell’impresa, sia sotto il profilo giuridico e organizzativo, che dal punto di vista economico e finanziario.
L’impresa post-industriale, per potere esistere ed essere efficiente, deve poter fare affidamento su una complessa infrastruttura, prodotto delle complesse relazioni tra norme, tecnologia e valori. In questo contesto il concetto di bene comune rappresenta uno strumento idoneo, non solo ad affinare il concetto tradizionale di mission dell’impresa, ma anche a determinare il perimetro dell’impresa stessa.
La validazione di questa teoria impone ulteriori ricerche ed approfondimenti volti ad individuare nuovi indicatori di corporate governance incardinati sulla relazione[31] tra tecnologia e valori, nuove forme di capitale, nonché nuove componenti del valore.
Le componenti principali del valore sempre più spesso non sono rintracciabili nella proprietà o nella disponibilità diretta dei mezzi di produzione, ma bensì in un’articolata rete di relazioni ed equilibri dinamici. Per questi motivi, è auspicabile che la ricerca futura si preoccupi anche di effettuare un’analisi critica degli strumenti tipici dell’analisi finanziaria, nonché delle componenti delle grandezze contabili e delle correnti utilizzate per valutare la redditività e le prospettive di crescita dell’impresa. Ad esempio, un computo del ROA o del ROE che ignorasse l’impatto delle esternalità negative a cui ci si riferiva sopra o che omettesse di valutare le nuove forme di capitale intangibile dell’impresa, sarebbe destinato ad avere una rilevanza molto limitata per l’investitore che desiderasse conoscere il reale valore dell’impresa, la sua redditività e le sue prospettive di crescita.
La società post-industriale, con il suo assetto diffuso, con i suoi rapporti fluidi e in costante divenire, si trova nella condizione ideale per creare, recuperare e rafforzare una rete del benessere capace di creare valore per tutti gli stakeholders. Tuttavia, per fare questo dovrà prima recuperare la consapevolezza di se stessa, del proprio ruolo e della propria identità di impresa for benefit, respingendo un approccio deterministico all’innovazione tecnologica e facendo attenzione a non permettere alla tecnologia di impadronirsi di un ruolo che non le compete.
[1] D. Bell, The coming of Post-industrial Society. A venture in social forecasting, New York, 1973, xiii, “Broadly speaking if industrial society is based on machine technology, post-industrial society is shaped by an intellectual technology. And if capital and labour are the major structural features of industrial society, information and knowledge are those of the post-indistrial society”. A.Touraine, La societé post-industrielle, Parigi, 1969.
[2]L. Cassia, M. Kalchschmidt, S. Paleari, Un dato di fatto, uso e abuso del dato. Un viaggio tra realtà, rappresentazione ed emozione, Milano, 2021, 53
[3] Sul punto si veda anche M. Heidegger, La questione della tecnica, Firenze, 2017, 38-41 “La tecnica è un modo del disvelare….Essa disvela ciò che non si produce da se stesso e che ancora non sta davanti a noi e che per ciò può apparire e riuscire ora in un modo ora in un altro……Il disvelamento che governa la tecnica moderna ha il carattere dello Stellen del “richiedere” nel senso della provocazione. Questa provocazione accade nel fatto che l’energia nascosta nella natura viene messa allo scoperto, ciò che così è messo allo scoperto viene trasformato, immagazzinato e ciò che è immagazzinato viene a sua volta ripartito e il ripartito diviene oggetto di nuove trasformazioni. Mettere allo scoperto, trasformare, immagazzinare, ripartire, commutare, sono modi del disvelamento” e prerogative della tecnica e della tecnologia.
[4]J. Hamari, M. Sjöklint, A.Ukkonen, The sharing economy: Why people participate in collaborative consumption, Journal of the Association for Information Science and Technology, 2015.
[5] Sul tema F. Garibaldo, M. Rinaldini, Il lavoro operaio digitalizzato. Inchiesta nell’industria metalmeccanica bolognese, Bologna, 2021, 194-195 “ L’evidenza delle imprese digitalizzate […] ci racconta che è possibile entrare nel processo di adozione dell’artefatto tecnologico declinando l’uso della tecnologia secondo una prospettiva di miglioramento del processo di lavoro ponendo limiti all’intrusione della sorveglianza algoritmica laddove richiesto, ma anche favorendo e sollecitando l’utilizzo di nuova tecnologia avanzata se essa migliora l’ergonomia e la qualità del lavoro. […]. Perché ciò possa avvenire sono necessari investimenti intellettuali e politici […] che riconoscano come la creazione di conoscenza diffusa e capillare del processo di lavoro e dell’influenza dell’artefatto tecnologico sulle modalità con cui l’attività di lavoro si svolge e si modifica sia la conditio sine qua non possa avvenire la contrattazione sull’algoritmo”.
[6] P.F. Drucker, The Essential Drucker, New York, 2014, 21 “Next to changes in society, economy and market as factors demanding consideration in answering the question What should our business be? comes of course, innovation, one’s own and that of others. Just as important as the decision on what new and different things to do is planned, systemic abandonment of the old that no longer fits the purpose and mission of the business, no longer conveys satisfaction to the customer or customers, no longer makes a superior contribution”.
[7] J.Haskel, S.Westlake, Capitalism without capital. The raise of the intangible economy, Princeton, 2018, 157 “Soft infrastructure will also matter increasingly. The synergies between intangibles increse the importance of standards and norms, which together make up a kind of social infrastructure for intangible investment. And standards and norms are underpinned by trust and social capital, which are particularly important in an intangible economy”. Si veda anche P. Drucker, The Temptation to Do Good, Londra, 1984.
[8] R.J.Shiller, Narrative Economics, Princeton, 2019.
[9] C. Hagemeier, Catherine, A Commentary on Litigation Involving Uber Technologies, Inc., 2018. Economic Undergraduate Honors Theses. 25.https://scholarworks.uark.edu/econuht/25.
[10] C. Bellavite Pellegrini, M. Dallochio, E. Parazzini, La valutazione d’azienda nel mondo degli ESG, Milano, 2020.
[11] M. Nichita, Intangible assets – insights from a literature review, Journal of Accounting and Management Information Systems, Issue 2, 2019, 224-261.
[12] A. Damodaran, Narrative and numbers, The value of stories in business, New York, 2017.
[13] S. von Struensee, Analyzing Dilemmas Posed by Artificial Intelligence and 4IR Technologies Requires Using All Available Models, Including the Existing International Human Rights Framework and Principles of AI Ethics, 2021. Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=3874279 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3874279.
[14] OCSE, Recommendation of the Council on Artificial Intelligence, OECD/LEGAL/0449
[15] Sul punto si veda anche A.Roumate, Artificial Intelligence, Ethics, Ethics and International Human Rights Law, VOL 29, 2020, 422.
[16] UNESCO, Extended Working Group on Ethics of Artificial Intelligence (AI) of the World Commission on the Ethics of Scientific Knowledge and Technology (COMEST), Preliminary study on the technical and legal aspects relating to the desirability of a standard-setting instrument on the ethics of artificial intelligence” 2019.
[17] K.Pistor, The code of capital. How the law creates wealth and inequality, Princeton, 2019.
[18] M.Anderson, M. Huffman, The Sharing Economy Meets the Sherman Act: Is Uber a Firm, a Cartel, or Something in Between?, Columbia Business Law Review, 2017,859.
[19] A.Torrente, P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 2004: “si parla di società apparente quando in realtà una società non esiste, ma più soggetti (i presunti soci) tengono comportamenti tali da ingenerare nei terzi il convincimento incolpevole che una società fra loro effettivamente sussista: in tal caso, su detti soggetti grava la responsabilità illimitata per le obbligazioni assunte nell’esercizio dell’impresa…come se la società fosse stata davvero costituita”.
[20] Cass., 21 giugno 2004, n. 1149: “per poter considerare esistente una società di fatto,[…..], anche in sede fallimentare non occorre necessariamente la prova del patto sociale, ma è sufficiente la dimostrazione di un comportamento da parte dei soci tale da ingenerare nei terzi il convincimento giustificato ed incolpevole che quelli agissero come soci atteso che nonostante l’esistenza dell’ente per il principio dell’apparenza del diritto il quale tutela la buona fede dei terzi coloro che si comportano esteriormente come soci vengono ad assumere in solido obbligazioni come se la società esistesse.”.
[21] Santo Padre Francesco, Lettera Enciclica Laudato si’. Sulla cura della cosa comune, Città del Vaticano (2015).
[22] C.Giust.UE, 20 dicembre 2017, C-434/15.
[23] Sul punto, F. Garibaldo, La trasformazione del lavoro e la sua qualità, in Sociologia del Lavoro, 2012, 15-16 afferma che siamo dinnanzi “ad un processo di verticalizzazione e parallelizzazione contemporaneamente […] le imprese per un verso si verticalizzano e per un altro verso si parallelizzano, si decentrano. Si verticalizzano perché c’è una verticalizzazione di tutte le funzioni strategiche che […] emigrano il più in alto possibile nella struttura della rete e, d’altra parte, si ha la parallelizzazione delle funzioni di tipo manifatturiero.” Sul punto si veda anche M. Cherry, Beyond Misclassification: The Digital Transformation of Work, Comparative Labor Law & Policy Journal, 2016.
[24] R.H. Coase, The Nature of the Firm, Economica, New Series, Vol 4, No 16, 1937, 386-405.
[25] A. Marshall, Principles of Economics, Londra, 1950.
[26] M. Friedman, The social responsibility of business is to increase profits, New York Times, 1970, 122-126.
[27] P.F. Drucker, op.cit. 14 ss.
[28] M. Gelter, Taming or Protecting the Modern Corporation? Shareholder-Stakeholder Debates in a Comparative Light, 2010). Fordham Law Legal Studies Research Paper No. 1669444, ECGI – Law Working Paper No. 165/2010, NYU Journal of Law & Business, Vol. 7, Issue. 2, 2011, Available at SSRN: https://ssrn.com/abstract=1669444.
[29] K.Pistor op cit., 2 ss. “Fundamentally, capital is made from two ingredients: an asset and a legal code”.
[30] K.Pistor op cit, ss. “Priorità. La tutela normativa spesso attribuisce a una limitata cerchia di soggetti la facoltà di godere di un bene in via prioritaria e a volte esclusiva. Si pensi ad esempio al brevetto o ai diritti dei creditori privilegiati in sede fallimentare. Oppure si pensi semplicemente ai portatori dei titoli senior della struttura di capitale di un’operazione di cartolarizzazione. Durevolezza. Si tratta di diritti e privilegi che, come nel caso del diritto di proprietà, hanno una durata illimitata. I brevetti, invece, hanno durata limitata, coerentemente -a parere di chi scrive- con l’essenza della società post-industriale. Tuttavia, in molti casi, il titolare del brevetto riesce, durante il periodo in cui il brevetto conferisce diritti esclusivi, a creare delle barriere all’entrata in un determinato settore o categoria merceologica, che durano ben oltre il periodo di vigenza del brevetto stesso. Universalità. I diritti sono opponibili erga omnes. Convertibilità. Il bene può essere scambiato e/o convertito in denaro. I presupposti giuridici della commerciabilità di un bene costituiscono una delle condizioni essenziali e imprescindibili per la creazione e il buon funzionamento dei mercati”.
[31] Per poter utilizzare efficacemente il concetto di benefit, al fine di definire la mission dell’impresa post-industriale, sarà necessario, coerentemente peraltro con lo spirito della disciplina delle Società benefit introdotta nell’ordinamento italiano con la legge di stabilità del 2016, proseguire e completare “la transizione verso una nuova visione …non più incardinata sulla centralità della persona, [fisica o giuridica], ma sulla centralità della relazione….La nostra mente relazionale e la stretta relazione e interdipendenza tra i comportamenti individuali danno vita ad una vera e propria rete del benessere…”. C. Bellavite Pellegrini, R.Caruso, Società benefit. Profili giuridici ed economico-aziendali, Milano, 2020.