Secondo la Cassazione, le transazioni infragruppo tra due società residenti nel territorio dello Stato, effettuate ad un prezzo diverso rispetto al “valore normale” ai sensi dell’art. 9 del TUIR, non sono, ex se, indice di una condotta elusiva, ma rappresentano un elemento aggiuntivo, di eventuale conferma, rispetto alla valutazione sull’elusività dell’operazione.
Con l’Ordinanza n. 11053 del 2021, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla Agenzia delle entrate avverso la sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale per le Marche (C.T.R. Marche) riteneva illegittima la ripresa a tassazione ai fini IRPEG (ora, IRES) e IRAP contenuta in un avviso di accertamento per l’anno 2000, emesso nei confronti di una società sulla base dell’applicazione del criterio del “valore normale” con riferimento ai fitti attivi di un immobile, concesso in locazione ad una controllata, che risultavano di importo largamente inferiore rispetto agli oneri sostenuti dalla contribuente in relazione al contratto di leasing avente ad oggetto il medesimo cespite.
A giudizio della C.T.R., in particolare, non si ravvisava alcun risparmio di imposta da parte della società contribuente, in quanto costantemente in perdita negli anni precedenti; inoltre, il quantum pattuito con la controllata aveva probabilmente determinato un maggior prelievo fiscale in capo a quest’ultima (stanti, evidentemente, i minori oneri sostenuti).
In particolare, come unico motivo di ricorso, l’Ufficio deduceva la violazione dell’art. 9, comma 3 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (d’ora innanzi, TUIR) e dell’art. 2697 del codice civile.
Rispetto alla violazione e falsa applicazione dell’art. 9 del TUIR, l’Agenzia delle entrate riteneva correttamente rideterminato – in applicazione del criterio del “valore normale” – l’importo del canone attivo di locazione corrisposto alla società contribuente da una controllata per l’utilizzo di un immobile, poiché eccessivamente differente rispetto al canone di leasing versato dalla società contribuente ad una società terza.
A giudizio dell’Ufficio, inoltre, la disciplina dei prezzi di trasferimento non dovrebbe circoscriversi ai soli rapporti internazionali, in quanto clausola antielusiva di carattere generale. Nel caso di specie, la società contribuente, convenendo con la controllata canoni esigui per il godimento dell’immobile, avrebbe sostanzialmente trasferito quote di utili a quest’ultima.
Al riguardo, la Suprema Corte ritiene il motivo infondato, in quanto la disciplina del transfer pricing (TP) internazionale non trova applicazione anche con riferimento alle transazioni infragruppo effettuate tra società fiscalmente residenti nel territorio dello Stato (c.d. TP interno o domestico).
Pertanto, è stato considerato erroneo il rimando operato dalla Agenzia delle entrate alla disciplina di cui all’art. 110, comma 7 del TUIR (all’epoca dei fatti, art. 76, comma 5) con riferimento alle citate operazioni domestiche.
Nel giungere a tale conclusione, gli Ermellini ripercorrono l’evoluzione del rapporto tra disciplina applicabile al TP interno e internazionale. In un primo momento la disciplina sui prezzi di trasferimento non si riteneva applicabile ai rapporti infragruppo puramente interni, in quanto le duefattispecie erano concepite come distinte (Cfr. Cass. n. 23551/2012),
Successivamente, la disciplina è stata ritenuta applicabile anche con riferimento ai rapporti infragruppo domestici, come sostenuto da Cass. n. 17955/2013 e Cass. n. 13475/2014, in quanto riconducibile ad una clausola antielusiva generale che troverebbe indistinta applicazione.
Infine, tale orientamento ha ceduto alle indicazioni del legislatore che, con norma di interpretazione autentica di cui all’art. 5, comma 2 del D. Lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. Decreto Internazionalizzazione), ha cristallizzato la non applicabilità della disciplina di cui all’art. 110 al TP domestico.
Di conseguenza, eventuali transazioni intercompany poste in essere tra società residenti ad un prezzo diverso rispetto al “valore normale” (art. 9 del TUIR) non indicano, di per sé, la presenza di una condotta elusiva.
Detto scostamento dal prezzo di mercato rappresenta, semmai, un elemento aggiuntivo, di eventuale conferma, della valutazione di elusività della operazione, senza applicazione analogica della disciplina del TP internazionale (art. 110 del TUIR).
Con riferimento all’art. 2697 del codice civile, seconda norma di legge la cui violazione viene dedotta dall’Agenzia delle entrate nel proprio ricorso, la Corte non ravvisa, nel caso di specie,, un’espressione di antieconomicità della condotta imprenditoriale nello scostamento dal “valore normale”, elemento potenzialmente idoneo a costituire elemento indiziario, utile ai fini dell’art. 39, comma 1, lett. d) del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (c.d. accertamento analitico-),
L’Amministrazione finanziaria, peraltro, non aveva considerato i possibili effetti compensativi, in termini di maggior reddito, tra le due società, tali da potere, in astratto, escludere il pregiudizio erariale, come affermato dalla Cass. SS. UU. n. 6538/2010.
Inoltre, la Cassazione mette in evidenza come non sussista omogeneità tra i canoni di leasing sostenuti dalla contribuente e quelli percepiti dalla controllata per la locazione dell’immobile. La ragione è da rinvenire nella diversa finalità perseguita dai due contratti e, in particolare, del fatto che con il contratto di leasing finanziario – secondo i criteri esposti nel principio contabile IAS 17 e fatti propri dal legislatore prima con il D.lgs. 28 febbraio 2005, n. 385 e, successivamente, con la L. 4 agosto 2017, n. 124 – si possa realizzare sostanzialmente un finanziamento per l’acquisto di un bene strumentale (i.e. leasing finanziario).