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Giurisprudenza

Lecito il contratto di mutuo fondiario a ripianamento di precedenti passività

3 Dicembre 2013

Avv. Filippo Maria De Stefano Grigis

Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, 29 ottobre 2013

Di cosa si parla in questo articolo

Massima

Banca e cliente non fallibile, in presenza di una preesistente esposizione debitoria, di natura chirografaria, possono stipulare un contratto di mutuo fondiario a ripianamento delle medesime passività, senza che possa, poi, contestarsi alla Banca la simulazione del contratto di mutuo né la illiceità della sua causa.

Inoltre, ove la Banca risolva il contratto di mutuo, l’obbligazione di rimborso del capitale conserva il suo titolo contrattuale, dal che gli interessi maturano al tasso di mora convenuto; la risoluzione, infine, può avvenire anche per cause ulteriori rispetto all’ipotesi già prevista dall’art. 40, comma 2, D.Lgs. n. 385/93, cause ulteriori che le Parti sono libere di stabilire nel contratto.

Commento

E’ sempre più attuale la situazione in cui la Banca deve fronteggiare l’incapacità, quantomeno temporanea, del proprio cliente di restituire le somme prese a prestito sotto svariate forme (mutuo chirografario, apertura di credito ordinaria, portafoglio commerciale). La soluzione che, ove possibile, viene immediatamente prospettata al cliente è quella di implementare le garanzie, confidando che la sua capacità di rimborso possa progressivamente migliorare; così da evitare la segnalazione “a sofferenza”; ciò nell’interesse tanto del cliente quanto della Banca. Certo è che, se l’incapacità del cliente di fare fronte alle proprie obbligazioni persiste, la Banca deve procedere alla corretta classificazione di tale credito, segnalandolo “a sofferenza” e dando, infine, corso alle azioni di rigore per il suo recupero.

In questo quadro, venendo al caso che ci occupa, il cliente proponeva opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., con contestuale istanza di sospensione ex art. 624 c.p.c., sostenendo, tra i vari motivi di opposizione, che il contratto di mutuo sarebbe stato simulato o, comunque, la relativa causa sarebbe stata illecita e, che, in ogni caso, essendo stato risolto, il contratto sarebbe ormai totalmente caducato, con la conseguenza che non sarebbe più esistito un valido titolo esecutivo ai fini del pignoramento dell’immobile.

Il Tribunale rigettava tutti i motivi di doglianza esposti dall’opponente. Innanzitutto, fermo che, nel caso di specie, non dovevano affrontarsi i diversi ed ulteriori profili enucleati in sede fallimentare, non poteva affatto parlarsi di un contratto simulato: era, infatti, pacifico tra le parti che la somma mutuata era stata erogata dalla Banca su c/c intestato al mutuatario; dal che, stante la natura reale del contratto, il mutuo si era perfezionato. Ma vi era anche di più: perché in atto il mutuatario aveva conferito mandato irrevocabile alla Banca (ex art. 1723, comma 2, cod. civ.) per pagare le preesistenti esposizioni, utilizzando la detta somma erogata sul c/c. Non era dubbio, insomma, che la volontà delle parti fosse stata proprio quella di stipulare e, quindi, di eseguire il contratto di mutuo fondiario in contestazione; a fronte del quale il mutuatario aveva concretamente disposto della somma erogata, conferendo, per l’appunto, mandato irrevocabile alla Banca per pagare le già contratte esposizioni.

Quanto, invece, alla presunta illiceità della causa, richiamava il Tribunale, in primo luogo, che la ragione economico-sociale del mutuo è quella di finanziamento, vale a dire quella di accordare al mutuatario la disponibilità di una certa somma e di poterla rimborsare in forma rateale; in secondo luogo, che, per costante giurisprudenza di legittimità, il mutuo, ancorché fondiario, non è un mutuo di scopo (Cass. civ, 20 aprile 2007, n. 9511), dal che il mutuatario non è affatto vincolato nella finale destinazione della somma presa a mutuo. D’altro canto, non errava il Tribunale là dove sottolineava che, nel caso di un’esposizione debitoria immediatamente esigibile, la circostanza che: a) la Banca ne accordi un ripianamento con rimborso rateale; 2) sia all’uopo stipulato un contratto di mutuo fondiario; 3) la somma erogata sia utilizzata ad estinzione della stessa esposizione debitoria; 4) il mutuatario debba restituire la somma mutuata secondo un piano di ammortamento, ebbene, tutti questi passaggi integrano senz’altro la causa del finanziamento. Vale solo la pena di aggiungere che, in tal modo, il Tribunale non faceva altro che accertare la causalità in concreto del contratto stipulato e, all’esito di questo accertamento, di ritenerla sussumibile nella causa tipica del contratto di mutuo, anche fondiario.

Tanto chiarito, il Tribunale ribadiva l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la risoluzione del contratto di mutuo non implica affatto la sua totale caducazione, motivando che, trattandosi di un contratto di durata, la risoluzione opera soltanto per il futuro ex art. 1458 cod. civ.; dal che il mutuatario è obbligato a restituire immediatamente il residuo debito capitale, sul quale, se restituito in ritardo, maturano interessi al tasso di mora contrattualmente previsto, sulla scorta dell’art. 1224, comma 1, cod. civ. (Cass. civ. 21.10.2005, n. 20449). Su questa pur autorevole interpretazione resta, però, qualche dubbio. A parere di chi scrive, se è vero che la risoluzione, in un contratto ad esecuzione continuata o periodica, opera per le prestazioni future e non già per quelle eseguite, è altrettanto vero che, una volta risolto il contratto, non soltanto non esistono più prestazioni future da eseguirsi (dovendosi restituire il debito capitale residuo in un’unica soluzione), ma non esiste più neppure alcuna valida pattuizione contrattuale cui quella restituzione dovrebbe soggiacere. La risoluzione, infatti, implica la rinuncia della parte che l’ha invocata all’adempimento del contratto, essendo la risoluzione e l’adempimento tra di loro alternativi; dal che non può immaginarsi che la disciplina contrattuale sopravviva in parte qua, sol perché più favorevole alla parte adempiente. Non perdurando, quindi, l’operatività del contratto, sul debito capitale residuo matureranno interessi al solo tasso legale; salvo valutarsi l’applicabilità dell’art. 1124, comma 1, secondo capoverso: “Se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura”.

Ritenersi viceversa che, nonostante la risoluzione del contratto, sul residuo debito capitale continuino a maturare interessi al tasso di mora in quanto, – come statuito dalla Suprema Corte – l’obbligazione di rimborso del capitale “conserva [nondimeno] il suo titolo contrattuale”, ebbene, questa riflessione meriterebbe quantomeno che l’ultrattività della clausola relativa agli interessi di mora fosse esplicitata nel contratto di mutuo fondiario.

D’altro canto, non appare convincente il ragionamento espresso in merito dal Supremo Collegio:

Del resto, l’opposta tesi, la quale, muovendo dall’attribuzione di efficacia retroattiva per inadempimento del mutuo, o dal disconoscimento del titolo contrattuale alla conseguente obbligazione di integrale rimborso del mutuatario, conclude per la maturazione degli interessi moratori al solo tasso legale, finisce con l’essere ingiustificatamente pregiudizievole per il mutuante, costretto a servirsi del rimedio della risoluzione per riottenere il capitale dal mutuatario inadempiente […], e ingiustificatamente premiale per quest’ultimo, che può continuare a godere, di fatto, del capitale a un interesse più vantaggioso di quello cui si era obbligato”.

Non è, infatti, assolutamente vero che la Banca sia “costretta” a servirsi del rimedio della risoluzione, bastando la dichiarazione di decadenza dal beneficio del termineex art. 1186 cod. civ.; con l’effetto di esigere immediatamente il residuo debito capitale, ma senza compromettere la perdurante operatività dei patti contrattuali, specie in punto del tasso di interesse applicato in caso di mora del debitore.

Pienamente condivisibile è, invece, la riflessione finale sulle cause di risoluzione del contratto di mutuo fondiario, che ben possono, sempre per espressa previsione contrattuale, esorbitare i limiti angusti dell’art. 40, comma 2, D.Lgs. n. 385/1993, il cui dato letterale si riferisce – esattamente – soltanto all’ipotesi di “ritardato pagamento quando lo stesso si sia verificato almeno sette volte, anche non consecutive”, ritardato pagamento che sia compreso “tra il trentesimo e il centoottantesimo giorno dalla scadenza della rata”, mentre nulla dice circa l’ipotesi – ahimè più grave e frequente – non soltanto che il ritardo superi quel lasso temporale, ma addirittura, che non ci sia alcun pagamento per l’irreversibile incapacità del mutuatario di fare fronte ai propri impegni. Non potrà certo negarsi che questa ipotesi possa costituire, ancor più del semplice ritardo, una causa di risoluzione del contratto – beninteso, se contrattualmente convenuta –, in quanto essa pregiudica in misura senz’altro maggiore l’interesse della Banca all’adempimento dell’obbligazione restitutoria.

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