L’ordinanza prende in esame il decreto della Corte d’appello di Brescia con il quale era stata rigettata la domanda di equa riparazione ex legge n. 89/2001 (Legge Pinto) azionata in relazione ad una procedura fallimentare chiusa dopo oltre 14 anni, nel cui ambito gli istanti erano stati creditori ammessi al passivo.
In particolare, i giudici di merito avevano ritenuto sia che i ricorrenti non avessero formulato specifiche allegazioni in ordine al pregiudizio concretamente patito ai fini del risarcimento ai sensi della Legge Pinto, sia che la durata fosse giustificata dalla particolare complessità della procedura fallimentare.
La Suprema Corte prende in esame la costante giurisprudenza di legittimità in tema di equa riparazione ex Legge Pinto per la violazione del termine di durata ragionevole del processo, formatasi alla luce delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui «la durata delle procedure fallimentari notevolmente complesse – a causa del numero dei creditori, della particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare, della proliferazione di giudizi connessi o della pluralità di procedure concorsuali interdipendenti – non può comunque superare la durata complessiva di sette anni», restando inteso che «per i creditori ammessi al passivo, il termine dal quale decorre il computo della ragionevole durata di una procedura fallimentare decorre dal decreto di ammissione».
Superato il richiamato termine di 7 anni, il danno non patrimoniale riconosciuto ai sensi della Legge Pinto, continua la Corte di Cassazione «si intende come conseguenza normale, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a causa dei disagi e dei turbamenti di carattere psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca alle parti del processo; ne consegue che una volta accertata e determinata l’entità della stessa durata irragionevole, il giudice deve ritenere tale danno esistente, sempre che non risulti la sussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente».
Considerata la richiamata giurisprudenza, la Suprema Corte conclude affermando che, contrariamente a quanto statuito dalla Corte d’appello di Brescia «per dichiarare insussistente il pregiudizio da irragionevole durata del processo occorre accertare la sussistenza, nel caso concreto, di circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dalle parti interessate».