Con l’ordinanza in oggetto, la Corte di Cassazione si è espressa sui presupposti per l’esercizio della legittimazione suppletiva del fallito a fronte del disinteresse della curatela.
Il giudizio de quo ha avuto ad oggetto il ricorso proposto da una società a responsabilità limitata dichiarata fallita avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Milano, confermando la pronuncia di primo grado, ha dichiarato inammissibile la domanda, proposta dalla stessa fallita, tesa a ottenere la dichiarazione di nullità di un atto di divisione sottoscritto dal curatore e tre aggiudicatarie di immobili sottoposti a vendita competitiva.
A fondamento della decisione, la Corte territoriale aveva chiarito che “la società fallita avrebbe avuto il potere di agire in surroga del curatore solo nel caso in cui questi fosse rimasto inerte, e sempre che la sua inattività fosse stata indotta da un totale disinteresse”.
Sul punto, la società fallita ha lamentato l’errore in cui sarebbero incorsi i giudici di merito laddove hanno omesso di verificare se, a prescindere dalla sottoscrizione dell’atto impugnato da parte del curatore, quest’ultimo avesse manifestato o meno il proprio disinteresse quanto ai diritti presi in considerazione da tale atto.
Al riguardo, la Suprema Corte ha richiamato innanzitutto il proprio consolidato orientamento, per cui “se l’amministrazione fallimentare rimane inerte, il fallito conserva, in via eccezionale, la legittimazione ad agire per la tutela dei suoi diritti patrimoniali, sempre che l’inerzia del curatore sia stata determinata da un totale disinteresse degli organi fallimentari e non anche quando essa consegua ad una negativa valutazione circa la convenienza della controversia”.
Nel caso di specie, osserva la Cassazione, la società ricorrente ha lamentato l’atteggiamento di asserito disinteresse tenuto dalla curatela con riguardo alla possibile impugnativa del contratto di divisione sottoscritto con le aggiudicatarie.
Il punto però non assume rilievo ai fini della legittimazione surrogatoria del fallito, giacché a tal fine “quel che conta è il disinteresse manifestato dagli organi fallimentari rispetto ai diritti patrimoniali del fallito”.
Ad avviso della Corte, “un conto, infatti, è che il fallito agisca in giudizio per far valere un proprio diritto patrimoniale rispetto al quale possa astrattamente configurarsi, secondo la citata giurisprudenza di questa Corte, quella eccezionale legittimazione processuale suppletiva che trae origine dall’inerzia degli organi fallimentari; altro conto è che agisca per ottenere la declaratoria di invalidità di un atto di disposizione del suo patrimonio che il curatore ha concorso a porre in essere”.
Dinanzi ad atti negoziali conclusi dalla curatela sui beni del fallito, chiarisce la Corte, la legge riconosce al fallito una specifica legittimazione, diversa dalla legittimazione suppletiva azionata dalla ricorrente: quella della proposizione, in nome e nell’interesse proprio, del reclamo.
In dette ipotesi, “non si tratta infatti di evitare al fallito il pregiudizio derivante dal disinteresse manifestato dagli organi della procedura nei confronti di diritti patrimoniali che, benché sottoposti ai poteri di disposizione e amministrazione della procedura, restano pur sempre nella titolarità di tale soggetto; si tratta, invece, di assicurare, attraverso il sistema di tutele incidente sugli atti degli organi fallimentari, il controllo della regolarità della procedura concorsuale”.
Sulla base di simili considerazioni, confermando il proprio orientamento la Suprema Corte ha dunque concluso che “deve ritenersi che la legittimazione suppletiva del fallito operi allorquando vengano in questione diritti patrimoniali del detto soggetto di cui si disinteressino gli organi fallimentari, e non allorquando si faccia questione dell’impugnativa di atti della procedura, rispetto ai quali è dato lo speciale rimedio del reclamo fallimentare”.