Con la sentenza in esame il Tribunale di Campobasso si è pronunciato su alcune interessanti questioni in materia di recesso.
In particolare, nel caso posto all’attenzione del giudice di merito, a mezzo di atto introduttivo, alcuni soci di una banca chiedevano che fosse accertata la legittimità del recesso esercitato ai sensi dell’art. 2437, comma terzo, c.c., stante il termine di durata della società partecipata fissato al 31 dicembre 2100, ovvero ben oltre qualsiasi aspettativa di vita e, dunque, sostanzialmente equiparabile ad una società costituita a tempo indeterminato.
Sennonché nelle more del procedimento, la banca convenuta deliberava la modifica della durata del contratto sociale, riducendola all’anno 2050 e, congiuntamente, si prevedeva in statuto la limitazione, in tutto o in parte e senza limiti di tempo, del rimborso delle azioni di eventuali soci recedenti.
Indi, con la prima memoria ex art. 183, comma sesto, c.p.c. gli attori rappresentavano che: (i) la modifica della durata della società legittimava l’esercizio del diritto di recesso ai sensi dell’art. 2437, comma primo, lett. e) c.c., dal momento che la riduzione del termine determinava il venir meno di una causa di recesso; e (ii) le limitazioni concernenti il rimborso delle azioni rendevano ancora più gravoso il conseguimento di quanto loro spettante in forza dell’esercizio del diritto di recesso, sino praticamente ad eliminare le loro possibilità di soddisfacimento, in violazione del disposto del comma sesto dell’art. 2437 c.c.
Nell’accogliere la domanda attorea, emendata in corso di causa, il giudice di merito si è pronunciato, innanzitutto, sulla richiesta come originariamente proposta, ovvero di accertare la legittimità dell’esercizio del diritto di recesso ai sensi dell’art. 2437, comma terzo, cci. Presupposta in astratto l’applicabilità della disposizione citata al caso di specie, stante il richiamo contenuto nell’art. 2519 c.c., che estende alle società cooperative l’applicazione delle norme in materia di s.p.a. in quanto non diversamente disposto, il Tribunale ha ritenuto infondata la domanda attorea. Il giudice ha, infatti, condiviso l’orientamento, fatto proprio sia dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 4716/2020) che da quella di merito (Trib. Milano 5972/2019), secondo il quale il comma terzo dell’art. 2437 c.c. legittimerebbe all’esercizio del diritto di recesso soltanto nell’ipotesi (letterale e tassativa) in cui la società sia contratta a tempo indeterminato. Tale interpretazione, restrittiva, risulta d’altro canto suffragata sia dalla differente disciplina dettata per le società di persone (v. art. 2285 c.c.), sia dall’esigenza di certezza cui è improntata tutta la normativa delle società di capitali, funzionale peraltro anche alla tutela dei creditori sociali, i quali facendo affidamento soltanto sul patrimonio sociale, hanno interesse al mantenimento della sua integrità.
In secondo luogo, il giudice ha affrontato gli ulteriori motivi di recesso rappresentati dagli attori per mezzo della prima memoria ex art. 183, comma sesto, c.p.c., affermando in primis che essi rappresentano una emendatio libelli e non una mutatio libelli e, pertanto, sono da considerarsi ammissibili. Il Tribunale adito ha mostrato così di dare applicazione ai principi di diritto espressi, in proposito, dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite (12310/2015), a mente della quale: “le domande modificate non possono essere considerate «nuove» nel senso di «ulteriori» o «aggiuntive», trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali – o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in un rapporto di alternatività”. Fermo restando, peraltro, che come evidenziato dalla Suprema Corte, l’ammissibilità di tali modifiche è resa possibile anche in considerazione del momento in cui le stesse possono essere legittimamente compiute, ovvero prima dell’inizio della trattazione della causa. Tali “correzioni di tiro” e cambiamenti finanche rilevanti sono, infatti, funzionali a “massimizzare la portata dell’intervento giurisdizionale richiesto, così da risolvere in maniera tendenzialmente definitiva i problemi che hanno portato le parti dinanzi al giudice, evitando che esse tornino nuovamente in causa in relazione alla medesima vicenda sostanziale”.
Alla luce di tali principi, nonché di quelli di conservazione degli atti e di economia processuale, il giudice adito ha quindi ritenuto irragionevole che le stesse parti fossero costrette ad adire nuovamente la giustizia al fine di ottenere una pronuncia sullo stesso rapporto sostanziale dedotto in giudizio e su questioni in riferimento alle quali la parte convenuta aveva avuto termini e modi per prendere posizione e difendersi.
Indi, il giudice ha affermato l’infondatezza della domanda di recesso esercitato ai sensi dell’art. 2437, comma primo, lett. e), c.c., per le medesime ragioni per le quali aveva rigettato la domanda principale. La riduzione della durata del contratto di società non ha determinato, infatti, il venir meno di alcuna causa di recesso, dal momento che lo stesso non ricorreva il presupposto richiesto (società costituita a tempo indeterminato) dal comma terzo dell’art. 2437 c.c. e la cui modifica avrebbe, viceversa, legittimato l’esercizio del diritto di recesso ai sensi della lett. e) del comma primo della medesima norma.
Infine, il Tribunale ha ritenuto di dover accogliere la domanda di recesso fondata sulla modifica concernente modalità e tempi di rimborso delle azioni.
In particolare, con delibera assembleare si era modificato lo statuto prevedendo la facoltà del C.d.A. di “limitare o rinviare, in tutto o in parte e senza limiti di tempo il rimborso delle azioni del socio uscente e degli altri strumenti di capitale computabili nel CET1…tenendo conto della situazione prudenziale della banca, in conformità alle disposizioni della Banca d’Italia”. In proposito, la banca convenuta aveva affermato di aver proceduto all’obbligatorio adeguamento dello statuto ai dettami dell’art. 28 comma II ter TUB e al Regolamento UE n. 575/13, artt. 28 e 29, nonché alle disposizioni di attuazione emanate dalla Banca d’Italia, sicché detta modifica non integrava l’eliminazione di alcuna causa di recesso.
Sennonché, il giudice adito ha accolto la domanda attorea di recesso, avendo ritenuto di condividere l’orientamento espresso in altro giudizio di merito (Trib. Napoli, 26 marzo 2016), ad avviso del quale “non è possibile in alcun modo ritenere vincolato il Tribunale alle disposizioni di Banca d’Italia, soprattutto quando, come nel caso in esame, appaiano non conformi al dettato legislativo”. La normativa primaria, infatti, “prevede che il diritto di recesso possa essere soltanto limitato, mentre il contenuto dell’articolo dello statuto modificato dalla delibera impugnata consente in realtà la completa soppressione dell’effettivo contenuto giuridico ed economico del recesso”. Per tale ragione, ad avviso del Tribunale adito la disposizione statutaria introdotta in effetti si pone in contrasto con il disposto dell’art. 42 della Costituzione, dal momento che si sostanzia in un esproprio del diritto di proprietà del socio. Conseguentemente, “anche a voler ammettere la possibilità di espropriare al socio proprietario il diritto di decidere di liquidare, seppur entro certi limiti, la propria quota di proprietà, occorrerebbe comunque indennizzarlo secondo i criteri ermeneutici stabiliti dalla Corte Costituzionale, cioè sulla base del valore reale della quota da liquidargli nell’immediatezza”.
Il giudice adito, inoltre, ha mostrato di condividere l’orientamento espresso proprio dalla Corte Costituzionale (99/2018), in merito alla legittimità della previsione che limita il diritto del socio al recesso della società. In particolare, ad avviso del Giudice delle leggi tale limitazione sarebbe possibile “solo se, nella misura e nello stretto tempo in cui ciò sia necessario per soddisfare le esigenze prudenziali. Essa impone così agli amministratori il dovere di verificare periodicamente la situazione prudenziale della banca e la permanenza delle condizioni che hanno imposto l’adozione delle misure limitative del rimborso e di provvedere ove esse siano venute meno. Più precisamente, nel caso di rinvio del rimborso, una volta che si sia accertato il venire meno degli elementi che hanno giustificato il differimento, il credito del recedente si deve considerare esigibile”.
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