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Editoriali

Les jeux sont faits: la roulette russa all’esame della Cassazione

9 Agosto 2023

Giuseppe Rescio

Professore Ordinario di Diritto Commerciale, Università Cattolica del Sacro Cuore

Di cosa si parla in questo articolo

Una nota vicenda, oggetto di due sentenze romane pluricommentate, giunge all’attenzione della Corte Suprema[1] e diviene l’occasione per un’analisi dei patti parasociali con finalità antistallo, imperniati sulla reciproca concessione, al verificarsi di un dato evento, del diritto di acquistare l’altrui partecipazione (o vendere la propria) con il rischio di perdere la propria (o dover acquistare quella altrui) allo stesso prezzo offerto da chi ha dato inizio al duello.

Il meccanismo utilizzato, che ha per obiettivo la rottura della base sociale, è quello caratteristico di una delle configurazioni più diffuse della clausola detta “roulette russa”, perché chi fa ruotare il tamburo proponendo, ad es., di acquistare la partecipazione dell’altro socio o degli altri soci, con l’idea di eliminare colui o coloro con cui non vi è più armonia e comunanza di vedute, può essere eliminato a sua volta se l’antagonista decide di capovolgere i ruoli e divenire l’acquirente della partecipazione del primo, estromettendolo dalla società.

La variante, nella fattispecie giudicata, è inclusa in un patto parasociale stretto tra i due soci al 50% di una s.p.a. e prevede, al verificarsi di uno degli eventi stabiliti, libertà assoluta nella determinazione del prezzo da parte di chi muove per primo chiedendo di farsi acquistare la partecipazione, nell’assenza di criteri di determinazione del prezzo e di soglie da rispettare, e altrettanto assoluta reciprocità, lasciando a chi muove per secondo il potere di evitare l’acquisto vendendo al primo la propria partecipazione per lo stesso prezzo.

Il giudice di legittimità affronta il tema sotto il profilo della liceità del patto e, dopo ampia illustrazione della tematica tra spunti comparatistici, massime notarili (Milano e Firenze), domestici studi e commenti alle decisioni di merito della stessa vicenda, ne conferma la validità, escludendo che possano rappresentare ostacoli al riguardo le norme in tema di condizione meramente potestativa (art. 1355 c.c.), di determinabilità dell’oggetto del contratto (art. 1349 c.c.), di divieto del patto leonino (art. 2265 c.c.), di equa valorizzazione della partecipazione (artt. 2437-sexies e 2437 c.c.).

Invero, non è dubbio: che i sacrifici economici a cui sono soggette le parti che intendano forzare l’acquisto o la vendita escludano che l’efficacia del patto o la determinazione delle prestazioni siano rimesse alla mera potestà o al mero arbitrio di una delle parti; che il patto non impedisce la partecipazione dei soci agli utili o alle perdite; che il principio di equa valorizzazione agisce all’interno della sfera sociale e perciò attiene alla regolamentazione dei soli rapporti sociali, non anche dei rapporti contrattuali esterni alle regole del gruppo, posto che nei loro rapporti personali singoli soci possono addivenire ad ogni accordo compatibile con i principi generali e con le specifiche norme dettate in tema di patti parasociali.

Proprio in relazione a queste ultime norme, tuttavia e in primo luogo, sarebbe stata interessante una presa di posizione focalizzata sulla natura degli eventi che possono giustificare il divorzio attraverso il meccanismo descritto e sulla loro compatibilità con la disciplina legale. Come si evince dalle sentenze di merito, infatti, nel caso di specie l’iniziativa volta a forzare l’uscita di uno dei soci dalla società non si ricollegava in via diretta alla rilevazione di stalli decisionali in ordine alle deliberazioni degli organi sociali, bensì derivava dalla mancata disponibilità di uno dei soci al rinnovo del patto parasociale giunto a scadenza: fatto che nella convenzione parasociale era identificato come evento autonomamente idoneo ad attivare la clausola in esame.

La questione di fondo consiste nel chiedersi se la disposizione, contenuta nell’art. 2341-bis c.c., secondo cui “i patti sono rinnovabili alla scadenza”, sia da interpretare – anche per dare un significato ad un’affermazione altrimenti ovvia – nel senso che la rinnovazione del patto debba essere frutto di una negoziazione libera, non coartata o condizionata da meccanismi che espongano chi non rinnova a sacrifici economici o altre conseguenze incidenti sulla propria sfera giuridico-patrimoniale. In altre parole, il rinnovo non dovrebbe essere motivato dall’assolvimento né di un obbligo né di un onere: mentre nella fattispecie la parte riluttante a rinnovare il patto aveva l’onere di rinnovarlo per evitare di dover acquistare o cedere una partecipazione nella società. Ma il problema descritto, sebbene concerna la validità del patto traducendosi in un’ipotesi di nullità parziale, non ha ricevuto alcuna attenzione[2].

L’esame dell’evento innescante la roulette russa sarebbe stato interessante anche sotto altro profilo. I giudici di legittimità si riportano alle sentenze di merito ove si nega che le difficoltà finanziarie, in cui si era venuto a trovare il socio che ha subito gli effetti del patto, conducano ad un vizio del medesimo, in quanto esse attengono non al piano genetico, ma a quello funzionale, ed in quanto su quest’ultimo piano sarebbe eventualmente configurabile un diritto al risarcimento del danno. Se però si considera che nella fattispecie il trigger event consisteva nel rifiuto di accettare il rinnovo di un patto parasociale che avrebbe posto la parte divenuta finanziariamente debole in balia dell’altra sin dalla genesi del nuovo patto, le conseguenze avrebbero potuto ravvisarsi non tanto sul piano del diritto al risarcimento del danno, quanto su quello dell’opponibilità – fondata sul principio di buona fede – di un’eccezione idonea a paralizzare la pretesa della parte finanziariamente forte a vendere o comprare al prezzo da lei stabilito, anche al di là del sopra ipotizzato conflitto con le regole sul rinnovo dei patti desumibili dall’art. 2341-bis c.c.

A parte quanto precede, non è difficile prevedere che i commentatori della sentenza in oggetto si soffermeranno sul passo della motivazione in cui, nel contestare la nullità del patto per asserito contrasto con il principio di equa valorizzazione, la Corte Suprema non si limita ad esporre il corretto argomento secondo cui tale principio opera all’interno del rapporto sociale e quindi con riguardo ad eventuali clausole statutarie vincolanti i soci presenti e futuri della società, ma prova ad aggiungerne un altro. Non si tratta della giusta, ancorché qui trascurata, osservazione per la quale l’eventuale rispetto di quel principio non passerebbe affatto attraverso il giudizio di nullità di una clausola che non predetermina in alcun modo il prezzo per la compravendita della partecipazione: e ciò perché basterebbe far sì che l’esecuzione del patto, e quindi la formulazione del prezzo di chi attiva la clausola, sia sindacabile con quel criterio, con conseguente paralisi di una pretesa iniqua o correzione del prezzo offerto. Si tratta del passo in cui viene ad abundantiam rilevato che “nella russian roulette clause non si è in presenza di una situazione di soggezione pura all’altrui diritto potestativo che configuri un effetto espropriativo (del valore differenziale) a base dell’applicazione del principio in discussione, bensì in presenza di una facoltà di scelta da parte del soggetto oblato, la quale è incompatibile con tale effetto”.

Se isolata dal contesto, questa frase autorizzerebbe la conclusione secondo cui anche la clausola statutaria riproduttiva del medesimo patto sul piano sociale si sottrarrebbe al raggio di azione del citato principio (in ordine, si ripete, non alla validità della clausola così congegnata, bensì alla imposizione di un prezzo incongruo), posto che la “facoltà di scelta” in discorso è una caratteristica tipica della clausola de qua.

In proposito mi sembra opportuno suggerire prudenza e frenare troppo rapide estensioni: un punto è aggiungere un poco produttivo ulteriore argomento favorevole ad una conclusione già sufficientemente argomentata per altra via, senza ponderarne a dovere la portata; tutt’altro è desumerne conclusioni affrettate affidandosi in toto ad un ragionamento così formalistico, peraltro suscettibile di essere invocato anche al di fuori della roulette russa.

Se al fine predetto – mettere fuori gioco il principio di equa valorizzazione nel rapporto sociale quando si rischia di dover uscire dalla società per iniziativa altrui – bastasse l’esistenza di una mera facoltà di scelta per sottrarsi al potere altrui a prescindere dal “costo” della scelta stessa, sarebbe allora piuttosto semplice aggirare il dettato normativo e il principio che se ne induce, concedendo formalmente vie d’uscita dal pedaggio assai salato o proibitivo per chi venga gravato dall’onere di imboccarle.

Ad esempio, per giustificare l’imposizione di un prezzo incongruo, basterebbe, in una clausola di riscatto, concedere al riscattando la scelta di liberarsi dal vincolo subendo penali e/o altre sanzioni previste in statuto oppure acquistando a prezzo variamente determinato o determinabile tutte le partecipazioni degli altri soci. Ancora, nella clausola di drag-along il problema cesserebbe di porsi purché – come normalmente accade – lo statuto conceda ad ogni socio il diritto di prelazione, dal momento che davanti all’offerta di acquisto delle partecipazioni sociali da parte di un terzo ogni socio potrebbe evitare di essere trascinato dai consoci favorevoli alla cessione, acquistando egli stesso le partecipazioni degli altri a quel prezzo o al diverso prezzo determinabile mediante i criteri stabiliti dalla clausola.

In buona sostanza, e indipendentemente dal consenso unanime o maggioritario alla base della introduzione in statuto di una clausola che esponga un socio al rischio di perdita della partecipazione per volontà altrui, sarebbe piuttosto ingenuo ritenere che, per disapplicare l’art. 2437-sexies c.c. e il principio di equa valorizzazione di cui è espressione, basti che la clausola di volta in volta configurata conceda al socio una qualsiasi possibilità formale di mantenere invariato il proprio investimento, indipendentemente dal “costo” da sopportare e con la sola invocazione correttiva dei principi generali per la prevenzione o repressione di scorrettezze e abusi. Principi generali che evidentemente non sono stati giudicati sufficienti da chi, scrivendo l’art. 2437-sexies c.c., ha richiamato i criteri di valorizzazione delle azioni in sede di recesso e non ha invece ritenuto di accontentarsi di quei presidi lasciando ai diretti interessati totale libertà di regolamentazione al riguardo.

 

[1] Cass., 25 luglio 2023, n. 22375.

[2] Per approfondimenti rinvio a quanto scritto in G.A. Rescio, Stalli decisionali e roulette russa, in Patrimonio sociale e governo dell’impresa. Dialogo tra giurisprudenza, dottrina e prassi in ricordo di G.E. Colombo, a cura di G.A. Rescio e M. Speranzin, Torino, 2020, p.  370 ss.: studio probabilmente sfuggito all’ampia opera di ricostruzione dello “stato dell’arte” della quale la decisione mostra di giovarsi.

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