Il presente contributo analizza la questione, recentemente sottoposta alla Corte di giustizia dell’Unione europea, relativa all’imposizione ad IRAP dei dividendi delle banche e delle holding finanziarie.
1. Introduzione
Alla Corte di giustizia dell’Unione europea (“CGUE”) è stata di recente sottoposta la questione pregiudiziale[1] della conformità dell’assoggettamento ad IRAP dei dividendi percepiti dalle banche e dalle holding finanziarie alle previsioni della Direttiva 2011/96/UE del Consiglio del 30 novembre 2011 concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi (“Direttiva Madre-Figlia”).
Il rinvio pregiudiziale è stato disposto nell’ambito di tre contenziosi pendenti davanti alla Corte di giustizia di secondo grado della Lombardia promossi da una banca avverso il rigetto delle istanze di rimborso IRAP.
Le istanze di rimborso erano dirette ad ottenere il rimborso dell’IRAP versata in diverse annualità per effetto dell’inclusione nella base imponibile IRAP dei dividendi distribuiti alla banca dalle proprie società figlie residenti in Irlanda, Lussemburgo e Spagna. In base all’art. 6, comma 1, lett. a), del d.lgs. 446/97, infatti, i dividendi percepiti dagli intermediari finanziari, tra cui gli istituti di credito, sono imponibili nella misura del 50%.
La banca in primo grado aveva impugnato i dinieghi di rimborso lamentando l’incompatibilità della previsione dell’art. 6 del d.lgs. 446/97 con l’art. 4 della Direttiva Madre-Figlia come interpretato dalla CGUE e invocando l’efficacia diretta dell’art. 4 medesimo. I giudici di prime cure[2] avevano rigettato i ricorsi, sostenendo che l’IRAP non costituisse un’imposta sui redditi e come tale non rientrasse nel campo di applicazione della Direttiva Madre-Figlia.
La CGT di secondo grado della Lombardia, in sede di appello[3] ha, invece, ravvisato i presupposti per effettuare il rinvio pregiudiziale alla CGUE, la quale si dovrà ora pronunciare, con efficacia erga omnes, in merito alla compatibilità dell’art. 6 del d.lgs. 446/97 con la Direttiva Madre-Figlia.
2. Il contesto normativo
Come noto, l’art. 4 della Direttiva Madre-Figlia prevede uno speciale regime di esenzione[4] per i dividendi di fonte intra-UE percepiti da società di uno Stato membro che possiedono partecipazioni non inferiori al 10% in società di altri Stati membri. In Italia la direttiva è stata attuata prevedendo l’esclusione dall’IRES del 95% del dividendo, restando il 5% del medesimo soggetto all’aliquota IRES ordinaria del 24%. La tassazione sul 5% del dividendo corrisponde, quindi, alla misura massima di imposizione consentita dalla direttiva[5].
Per le banche e gli intermediari finanziari[6] l’imposizione ai fini IRAP (parziale, in misura del 50% del provento) si aggiunge a quella ai fini IRES. Ciò pone evidentemente un tema di legittimità dell’imposizione IRAP sui dividendi ricadenti nell’ambito di applicazione della Direttiva Madre-Figlia.
Come anticipato, tra le motivazioni più frequenti delle sentenze che hanno finora negato l’esistenza di una violazione della Direttiva Madre-Figlia da parte dell’art. 6 del d.lgs. 446/97 c’è quella secondo cui l’IRAP non rientra nell’ambito di applicazione della Direttiva Madre-Figlia, la quale avrebbe soltanto la funzione di eliminare la doppia imposizione in materia di imposte sui redditi, imposta da indentificarsi, per quanto riguarda l’Italia, con l’IRES.
Tale ragionamento, invero errato, si fonda sul richiamo all’allegato I, parte B della Direttiva Madre-Figlia contenente l’elenco delle imposte alle quali deve essere sottoposta una società di uno Stato membro per qualificarsi come società madre o come società figlia ai fini dell’applicazione della direttiva stessa. Orbene, l’elenco non ha lo scopo di circoscrivere l’applicazione della Direttiva Madre-Figlia alle sole imposte elencate nell’allegato (e a qualsiasi altra imposta che venga a sostituire una delle suddette imposte), bensì ha lo scopo di garantire che non possa beneficiare della direttiva una società che non sia assoggettata, senza possibilità di opzione e senza esserne esentata, a una delle imposte elencate nell’allegato I, parte B.
Ciò è stato affermato con chiarezza dalla giurisprudenza della CGUE fin dalle sue prime pronunce in materia di Direttiva Madre-Figlia.
Tra queste basti ricordare la nota sentenza Epson, C-375/98 dell’8 giugno 2000, nella quale la CGUE ha chiarito che la Direttiva Madre-Figlia impedisce agli Stati membri di assoggettare i dividendi ad imposte anche diverse dalle imposte sui redditi (menzionate nell’allegato).
Il giudice nazionale in sede di rinvio pregiudiziale chiedeva se l’art. 5, n. 4, della direttiva nella versione vigente all’epoca dei fatti – che consentiva temporaneamente al Portogallo di applicare una ritenuta in uscita del 15% o 10% sui dividendi distribuiti a società madri di altri Stati membri – dovesse essere interpretato nel senso che tale deroga riguardasse solamente l’imposta sulle società (IRC, menzionata nell’allegato), oppure se detta disposizione comprendesse qualsiasi tributo, indipendentemente dalla sua natura o dalla sua denominazione, prelevato sugli utili distribuiti dalle società figlie portoghesi.
Oltre alla ritenuta alla fonte nella misura massima prevista dalla direttiva, il Portogallo applicava anche una imposta di successione e donazione (ISD) relativa al trasferimento a titolo gratuito di azioni di società e che colpiva, a ogni distribuzione di utili, i dividendi corrisposti da società aventi sede in Portogallo.
La circostanza che tale imposta, nonostante non fosse un’imposta sul reddito e non fosse menzionata nell’allegato della direttiva, fosse tuttavia una imposta gravante sui dividenti ha portato la CGUE a concludere che la stessa non potesse applicarsi in aggiunta alla ritenuta già prelevata nell’importo massimo consentito.
Afferma infatti la CGUE che l’ISD portoghese è una imposta “il cui presupposto è il versamento di dividendi o di qualsiasi altro rendimento dei titoli, che la base imponibile di tale imposta è il rendimento degli stessi e che il soggetto passivo è il loro detentore. L’ISD ha dunque lo stesso effetto di un’imposta sul reddito. In proposito è irrilevante che l’imposta sia denominata «imposta sulle successioni e sulle donazioni» e che sia riscossa parallelamente all’IRC”. Lo scopo della Direttiva Madre-Figlia sarebbe compromesso se gli Stati membri “potessero deliberatamente privare le società di altri Stati membri dell’agevolazione prevista dalla direttiva assoggettandole a tributi che hanno lo stesso effetto di un’imposta sui redditi, sebbene la loro denominazione li ricolleghi alla categoria delle imposte sul patrimonio”.[7]
Questa pronuncia della CGUE è stata ribadita, anzi rafforzata, dalla giurisprudenza successiva della CGUE cosicché sembra difficile poter sostenere che la sottoposizione ad IRAP dei dividendi non debba rispettare i limiti previsti dalla Direttiva Madre-Figlia, già “assorbiti”, peraltro, nel nostro ordinamento dall’imposizione IRES sul 5%.
Si tratta delle sentenze del 17 maggio 2017, nelle cause C-68/15 (X contro Ministerraad) e C-365/16 (AFEP), vertenti rispettivamente sulla fairness tax belga e sul contributo francese aggiuntivo del 3% all’imposta sulle società. Entrambi gli Stati all’epoca dei fatti avevano recepito la Direttiva Madre-Figlia in modo simile all’Italia, escludendo i dividendi dalla base imponibile dell’imposta sul reddito in misura pari al 95%.
La fairness tax belga era una imposta distinta dall’imposta sulle società e dall’imposta per i non-residenti, gravante sulle società residenti e non residenti in occasione della distribuzione di dividendi che, per effetto della fruizione di determinate agevolazioni fiscali, non erano inclusi nel risultato di esercizio imponibile. La fairness tax consisteva in un prelievo applicabile nei casi in cui i dividendi distribuiti da una società non residente alla società madre belga erano a loro volta distribuiti da questa alla propria controllante nell’esercizio successivo. L’applicazione della fairness tax comportava un livello di imposizione complessivo sugli utili superiore al limite massimo del 5% imposto dalla Direttiva Madre-Figlia.
Il contributo francese aggiuntivo del 3% all’imposta sulle società era anch’esso una imposta diversa dalla imposta sulle società che si applica al momento della redistribuzione degli utili da parte della società madre che li aveva percepiti e che determinava un superamento della soglia del 5%.
Le due sentenze del 17 maggio concludono per l’incompatibilità di entrambi i prelievi. Affermano i giudici del Lussemburgo che l’art. 4 della Direttiva Madre-Figlia vieta agli Stati membri di sottoporre ad imposizione gli utili della società madre ricevuti dalla controllata e distribuiti alla controllante, senza operare alcuna distinzione a seconda che il fatto generatore della imposizione sia la percezione degli utili o la loro redistribuzione. E concludono che “una tassazione di tali utili da parte dello Stato membro della società madre in capo a tale società al momento della ridistribuzione di questi ultimi, che produca l’effetto di assoggettare detti utili ad un’imposta eccedente, di fatto, la soglia del 5% prevista dall’articolo 4, paragrafo 3, della direttiva medesima, comporterebbe una doppia imposizione al livello di tale società, vietata dalla menzionata direttiva”.
Anche la successiva sentenza C-556/20 del 12 maggio 2022, Schneider Electric ha ribadito i medesimi principi, sempre in tema di redistribuzione degli utili ricevuti da una società madre francese. La sentenza ha stabilito che l’art. 4 della Direttiva Madre-Figlia osta a una normativa nazionale che, imponendo il versamento anticipato di imposte in caso di redistribuzione di utili non assoggettati all’imposta sulle società con l’aliquota ordinaria, quand’anche ci sia il riconoscimento di un credito d’imposta, comporti il superamento della soglia massima del 5% di imposizione.
L’esame della sentenza Epson del 2000 sull’imposta di successione e donazione portoghese e delle più recenti sentenze riguardanti il caso della imposizione di utili già assoggettati ad imposta nei limiti del 5% in occasione della loro redistribuzione da parte della società madre sembra lasciare pochi dubbi circa l’esito dei procedimenti ora pendenti davanti alla CGUE riguardanti l’IRAP italiana.
3. La posizione assunta finora dalla giurisprudenza di merito
Fino a questo momento, salvo qualche lodevole eccezione, la giurisprudenza di merito si è sempre pronunciata in termini sfavorevoli al contribuente che aveva richiesto il rimborso dell’IRAP versata sui dividendi[8].
La prima decisione favorevole al contribuente è quella della Commissione tributaria provinciale di Reggio Emilia n. 53/1/2022 del 23 marzo 2022 relativa a dividendi “domestici” percepiti da una holding bancaria.
Nel corso del giudizio la CTP di Reggio Emilia aveva posto alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 446/97 per violazione dell’art. 3 della Costituzione. In particolare la CTP aveva interpretato il parziale assoggettamento ad imposizione dei dividendi quale espressione della volontà del legislatore di attrarre a tassazione soltanto i dividendi derivanti dalla negoziazione di titoli, attività caratteristica delle banche e degli intermediari finanziari. In quest’ottica, a parere della CTP, risultava irragionevole nonché sproporzionato e, quindi, in contrasto con l’art. 3 della Costituzione che, nella costruzione dell’imponibile del tributo, la norma procedesse a una valutazione forfetaria e approssimativa (in misura del 50%) di un elemento economico che, invece, poteva essere individuato in modo preciso nella voce 70 del conto economico.
La CTP di Reggio Emilia in sede di rimessione alla Consulta non aveva, per contro, considerato rilevanti le questioni – pure sollevate dalla ricorrente – relative alla compatibilità dell’art. 6 del d.lgs. 446/97 con il diritto UE.
La Consulta con la sentenza 12/2022[9] ha rigettato la questione di legittimità costituzionale ma, al tempo stesso, ha osservato incidentalmente che il giudice a quo nell’escludere “del tutto assertivamente” che la Direttiva Madre-Figlia fosse applicabile all’IRAP non ha tenuto conto della giurisprudenza della GCUE[10] evocata nel giudizio principale dalla ricorrente e ha superficialmente ignorato la doglianza della ricorrente relativa alla “discriminazione al rovescio”.
In ambito unionale la discriminazione al rovescio è tipicamente identificata con il trattamento deteriore riservato da uno Stato membro ai soggetti nazionali rispetto al trattamento riservato ai soggetti di altri Stati membri.
Come accennato il caso esaminato dai giudici di Reggio Emilia concerneva dividendi puramente “domestici”, ossia distribuiti da una società italiana alla società controllante italiana. La discriminazione al rovescio potrebbe esistere in questo caso solo ammettendo che la Direttiva Madre-Figlia inibisca l’assoggettamento ad IRAP dei dividendi di fonte UE. Se così fosse, infatti, i dividendi intra-UE non subirebbero il prelievo (parziale) IRAP in capo al socio, mentre i dividendi domestici lo subirebbero, e tale disparità di trattamento sarebbe potenzialmente incompatibile con il principio unionale di non discriminazione e con l’esercizio delle libertà fondamentali nelle quali il principio si declina.
La CTP di Reggio Emilia, a seguito della riassunzione del giudizio, ha recepito il suggerimento della Consulta, e, in conseguenza di ciò, ha disapplicato l’art. 6 del d.lgs. 446/97 ritenendolo incompatibile con il diritto UE, e ha accordato il rimborso alla banca ricorrente. La ricostruzione della CTP può essere riassunta come segue: 1) la Direttiva Madre-Figlia inibisce la doppia imposizione ad opera di una normativa nazionale sui dividendi intra-UE, 2) la Direttiva si applica anche all’IRAP e non solo all’IRES, 3) sussiste il divieto di discriminazione al rovescio, in base al quale una norma nazionale non può imporre ad una fattispecie domestica un trattamento deteriore rispetto a quello conseguente all’applicazione della Direttiva Madre-Figlia ad una similare fattispecie intra-unionale, 4) l’art. 6 del d.lgs. 446/97 assoggetta i dividendi “domestici” erogati dalla controllata italiana ad una doppia imposizione inibita dalla Direttiva Madre-Figlia, applicabile alla fattispecie concreta dedotta in giudizio stante il divieto di discriminazione al rovescio.
La conclusione della CTP è piuttosto sorprendente, in quanto la questione del divieto di discriminazione al rovescio è tutt’altro che risolta nella giurisprudenza della CGUE con riferimento alle imposte non armonizzate. Senza dilungarsi sul tema che è molto vasto, basti ricordare che la discriminazione al rovescio causata da misure nazionali che si applicano a situazioni interne in ambiti non armonizzati (quali quello delle imposte dirette) non è espressamente vietata nel sistema del TFUE e ad oggi non si è consolidato un indirizzo giurisprudenziale della CGUE che consenta di ritenere pacifica l’esistenza del divieto di discriminazione al rovescio[11].
Mentre la sentenza di Reggio Emilia ha affrontato il tema della discriminazione al rovescio dei dividendi domestici, i giudici tributari di Milano si sono recentemente pronunciati in senso positivo al contribuente sul tema più immediato del contrasto diretto della normativa IRAP italiana con la Direttiva Madre-Figlia. In particolare, con la sentenza n. 1429 del 2 aprile 2024, la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Milano ha riconosciuto il diritto di un istituto di credito al rimborso dell’IRAP dichiarata e versata con riferimento ai dividendi corrisposti da una propria controllata con sede in Lussemburgo, in quanto eccedente i limiti consentiti dalla Direttiva Madre-Figlia.
Nella propria sentenza i giudici di Milano hanno sancito, richiamandosi anche alle sentenze della CGUE del 17 maggio 2017 “l’incompatibilità con la normativa comunitaria – pacificamente prevalente su quella nazionale in virtù del principio del primato del diritto UE – del regime italiano di tassazione ai fini IRAP degli utili in questione, posto che in ragione del relativo assoggettamento ad IRES risulta esaurito il relativo limite di imponibilità, fissato in misura non superiore al 5% dal citato art. 4 paragrafo 3. Ad una siffatta convinzione non osta la peculiare natura dell’IRAP – la quale si configura pur sempre come un’imposta sui redditi della società, al pari dell’IRES – come pure la sua mancata inclusione fra le imposte menzionate nell’Allegato I parte B della Direttiva madre-figlia: illuminanti in tal senso (e vincolanti, secondo quanto riconosciuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 12/22) appaiono le pronunce emesse dalla Corte di Giustizia UE nella cause nn. C-365/16 e C-68/15, emesse con riferimento ad imposte vigenti in altri Stati membri anch’esse non incluse nell’Allegato predetto”.
4. Il rinvio pregiudiziale alle Corte di giustizia dell’Unione europea: verso la soluzione della questione
Abbiamo visto ai paragrafi che precedono che la questione della compatibilità dell’IRAP con l’art. 4 della Direttiva Madre-Figlia può essere facilmente risolta sulla base dell’analisi della giurisprudenza della CGUE e che tale conclusione sia chiara anche nella mente della Corte Costituzionale che ha espressamente sollevato il punto, erroneamente trascurato dai giudici emiliani.
Stupisce quindi, in questo contesto, il numero di sentenze di merito di primo e secondo grado negative, ad ulteriore conferma, se necessario, delle difficoltà dei giudici di merito a gestire la materia del diritto UE.
Va quindi accolta con grande favore l’iniziativa, invero assai rara nel contesto della giurisprudenza di merito, di effettuare un rinvio pregiudiziale ai giudici del Lussemburgo ponendo le basi per una soluzione definitiva della questione ed evitando quindi il proliferare di cause di rimborso che nella quasi totalità dei casi proseguono fino in Cassazione.
Nelle tre ordinanze i giudici della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia affermano, dunque, che l’art. 6 del d.lgs. 446/97 potrebbe risultare incompatibile con il divieto di assoggettare gli utili che le società madri residenti in uno Stato Membro incassano dalle società figlie residenti in altri Stati Membri ad imposizione superiore al limite massimo del 5 per cento sancito dall’art. 4 della Direttiva madre-figlia, così come interpretato dalla CGUE nelle sentenze del 17 maggio 2017, causa C-365/16 e causa C-68/15.
È difficile ipotizzare che l’applicazione dei principi enucleati dalla CGUE possa condurre ad un risultato diverso dalla dichiarazione di incompatibilità dell’art. 6, comma 1, lett a), del d.lgs. 446/97 con l’art. 4 della Direttiva Madre-Figlia con riferimento ai dividendi ricadenti nell’ambito di applicazione della direttiva stessa.
Per quanto riguardi i dividendi “domestici”, la Corte Costituzionale e la sentenza emessa in riassunzione dalla CTP di Reggio Emilia hanno posto l’accento sulla possibile esistenza di una discriminazione al rovescio.
A parere di chi scrive la questione relativa al divieto di discriminazione al rovescio non è ancora matura nel settore delle imposte non armonizzate e faticherebbe a trovare spazio in sede di rinvio pregiudiziale alla CGUE.
Ciò non comporta, tuttavia, che l’esistenza di un trattamento oggettivamente discriminatorio non possa avere conseguenze giuridiche, segnatamente in punto di violazione del principio costituzionale di uguaglianza[12]. Come chiarito dalla stessa CGUE[13], infatti, la violazione di tale principio può essere fatta valere efficacemente avanti al giudice nazionale in tutti i casi in cui, come in Italia, il sistema giuridico nazionale contempli il rispetto del principio di uguaglianza.
Alla luce della posizione già assunta con la sentenza 12/2022, non si può escludere che la Corte Costituzionale, ove nuovamente interpellata, possa dichiarare fondata la questione di legittimità costituzionale in relazione al regime IRAP dei dividendi “domestici”.
Qualora la CGUE acclarasse l’incompatibilità dell’art. 6 del d.lgs. 446/97 con l’art. 4 della Direttiva Madre-Figlia, dunque, il legislatore si troverebbe probabilmente costretto a rimuovere l’imposizione IRAP sui dividendi, tanto di fonte UE quanto di fonte italiana.
Tale eliminazione, tuttavia, secondo le abitudini del nostro legislatore non avrebbe con tutta probabilità effetto retroattivo, ma soltanto ex nunc. In tale evenienza, non resta che augurarsi che per il passato l’Agenzia delle Entrate riconosca immediatamente le conseguenze della decisione dei giudici del Lussemburgo ed eroghi i rimborsi già in sede amministrativa, senza costringere i contribuenti ad affrontare il contenzioso, come invece sinora avvenuto nella prassi.
[1] In C-92/2024, C-93/2024 e C- 94/2024.
[2] CTP Milano sentenze nn. 1590-1591-1592/12/2022.
[3] Ordinanze interlocutorie nn. 1465, 1466 e 1467 del 2023.
[4] Si veda l’art. 4, par. 1 della Direttiva Madre-Figlia: “Quando una società madre o la sua stabile organizzazione, in virtù del rapporto di partecipazione tra la società madre e la sua società figlia, riceve utili distribuiti in occasione diversa dalla liquidazione della società figlia, lo Stato membro della società madre e lo Stato della sua stabile organizzazione:
- si astengono dal sottoporre tali utili a imposizione nella misura in cui essi non sono deducibili per la società figlia e sottopongono tali utili a imposizione nella misura in cui essi sono deducibili per la società figlia; o
- li sottopongono a imposizione, autorizzando però detta società madre o la sua stabile organizzazione a dedurre dalla sua imposta la frazione dell’imposta societaria relativa ai suddetti utili e pagata dalla società figlia e da una sua sub-affiliata, a condizione che a ciascun livello la società e la sua sub-affiliata ricadano nelle definizioni di cui all’articolo 2 e soddisfino i requisiti di cui all’articolo 3 entro i limiti dell’ammontare dell’imposta corrispondente dovuta.”.
[5] l’Italia, infatti, non diversamente da altri paesi fa concorrere a tassazione il 5% del dividendo in applicazione dell’art. 4, paragrafo 3, secondo periodo, della Direttiva Madre-Figlia che consente una forfetizzazione al 5% massimo delle spese di gestione relative alla partecipazione non deducibili dalla base imponibile della società madre che percepisce i dividendi.
[6] Il tema sostanziale si pone anche per le assicurazioni dal momento che l’art. 7, comma 1, del d.lgs. 446/1997 include nella base imponibile IRAP il 50% dei dividendi contabilizzati nella voce 33 del conto economico. Giova rammentare che anche le società di partecipazione finanziaria applicano le regole di determinazione IRAP degli intermediari finanziari.
[7] Conclude quindi la CGUE con riferimento alla ISD portoghese che: “Di conseguenza l’ISD, in quanto riguarda l’imposizione tributaria sui dividendi distribuiti da società controllate con sede in Portogallo a società capogruppo di altri Stati membri, rientra nella sfera di applicazione della direttiva. Pertanto la Repubblica portoghese, anche se può legittimamente conservare tale tributo, eventualmente in coordinamento con l’IRC, può farlo unicamente nei limiti fissati in via temporanea dall’art. 5, n. 4, della direttiva, vale a dire con un’aliquota di ritenuta che non può superare il 15% per gli anni dal 1992 al 1996 e il 10% per gli anni dal 1997 al 1999. Qualora tali limiti non fossero rispettati, la Repubblica portoghese godrebbe di una deroga ulteriore non prevista dalla direttiva.”.
[8] Si vedano, inter alia, le sentenze CGT Piemonte n. 440/3/2023 (che conferma il rigetto in primo grado), CGT Lombardia n. 3108/14/2023 (che conferma il rigetto in primo grado) e CTR Lombardia n. 1729/15/2021 (che conferma il rigetto in primo grado).
[9] Corte Costituzionale, sentenza 20 gennaio 2022, n. 12.
[10] Sentenza 17 maggio 2017, in causa C-365/16, AFEP e altri; sentenza 17 maggio 2017, in causa C-68/15, X.
[11] Con riferimento a norme italiane si può ricordare la sentenza della CGUE del 30 aprile 2020 nella causa C-565/18, Société Générale c. Agenzia delle Entrate, che ha ritenuto non configurabile la discriminazione a rovescio in relazione all’applicazione dell’imposta sulle transazioni finanziarie.
[12] Sul tema si veda E. Traversa, “Sanzioni tributarie, “discriminazioni a rovescio” ed esigenza di un intervento della Corte Costituzionale”, in Riv. Trim. Dir. Trib., 4, 2020, p. 955 ss.
[13] Ciò ha trovato conferma nella sentenza della CGUE del 16 giugno 1994, C-132/93, Steen.