WEBINAR / 23 Gennaio
La tutela dei dati personali dei clienti della banca

ZOOM MEETING
Offerte per iscrizioni entro il 20/12


WEBINAR / 23 Gennaio
La tutela dei dati personali dei clienti della banca
www.dirittobancario.it
Editoriali

L’imposta straordinaria sugli extra profitti delle banche

Tra discriminazione qualitativa, retroattività e incoerenza della struttura del tributo rispetto alla ratio giustificatrice

19 Settembre 2023

Andrea Giovanardi

Professore Ordinario di Diritto Tributario, Università di Trento

Di cosa si parla in questo articolo

1. L’“imposta straordinaria calcolata su incremento margine interesse”, introdotta dall’art. 26 del d.l. 10 agosto 2023, n. 104 (da ora in poi, anche il decreto), non è che l’ultimo tributo di settore (in questo caso sono colpite le banche) istituito a fronte dei c.d. extra profitti, guadagni cioè (ritenuti) eccessivi e quindi anomali che, proprio per questo, andrebbero assoggettati a un regime impositivo più severo di quello ordinariamente previsto[1]. Le imprese, in questa prospettiva, sarebbero sicure (per modo di dire) di non subire un prelievo ulteriore rispetto a quanto stabilito originariamente solo se il reddito conseguito rientri in un determinato range, individuato ex post dal legislatore anche in forza di un giudizio di non meritevolezza del guadagno eccessivo. Ci sarebbero quindi i profitti normali, meritati e quindi giusti, da tassarsi in linea con quelli conseguiti da tutti gli operatori a qualsiasi settore appartengano, e i sovraprofitti da sottoporre a un trattamento deteriore in quanto eccessivi e immeritati perché “riconducibili a situazioni eccezionali di carattere esogeno che non riflettono il merito o il rischio imprenditoriale, traducendosi in una sorta di windfall gains[2].

Si tratta di ragionamento particolarmente discutibile per tutta una serie di ragioni che qui di seguito si espongono.

2. In primo luogo va rilevato che il tributo sugli extra profitti, come categoria concettuale, non è (rectius, non dovrebbe essere) autonomo rispetto all’imposta sul reddito, quand’anche giuridicamente lo si configuri come tale: anch’esso, infatti, colpisce il “possesso del reddito” e, quindi, si somma, data l’identità del presupposto inteso in senso sostanziale, all’IRES[3].

Tuttavia, ciò accade solo per chi svolga attività di impresa in un settore che ha sovraperformato così tanto da entrare nel mirino del governo normalizzatore[4]. Il profilo di criticità sta quindi nella discriminazione qualitativa dei redditi conseguiti da una certa categoria di soggetti, esito questo, va rilevato, che non è stato ritenuto di per sé illegittimo dalla Corte costituzionale, la quale ha affermato, nella sentenza n. 10 del 2015, che: i) “non ogni modulazione del sistema impositivo per settori produttivi costituisce violazione del principio di capacità contributiva e del principio di eguaglianza”; ii) “tuttavia, ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione”; iii) compito del Giudice delle leggi è quello di verificare se “le distinzioni operate dal legislatore tributario, anche per settori economici, non siano irragionevoli, arbitrarie o ingiustificate” (sentenza n. 201 del 2014): cosicché in questo ambito il giudizio di legittimità costituzionale deve vertere “sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare la coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico, come pure la non arbitrarietà dell’entità dell’imposizione (sentenza n. 111 del 1997; ex plurimis, sentenze n. 116 del 2013 e n. 223 del 2012)”.

In definitiva, lo scopo di tassare i sovraprofitti delle imprese appartenenti a un settore a fronte di un anomalo andamento positivo generato da cause esogene è, secondo la Corte, lecito e la discriminazione qualitativa dei redditi che ne deriva non è di per sé illegittima[5]. Occorre tuttavia verificare se il sacrificio del principio di eguaglianza e di capacità contributiva risponda ai canoni della ragionevolezza, che è da ritenersi sussistente se il legittimo obiettivo che il legislatore si è posto risulti coerente rispetto alla struttura del prelievo utilizzato per conseguirlo[6].

Esiste, peraltro, anche un precedente specifico per le banche, quello dell’addizionale dell’8,5 per cento prevista per il 2013 dall’art. 2, co. 2, del d.l. 30 novembre 2013, n. 133, in riferimento alla quale la Corte ha ritenuto che “non appare in sé censurabile […] che il legislatore abbia assunto come presupposto dell’imposizione l’appartenenza dei soggetti passivi della nuova imposta al mercato finanziario (cui questi sono evidentemente riconducibili), ravvisandovi uno specifico indice di capacità contributiva”, in ragione dei “connotati di tipo oligopolistico, con la conseguenza che le imprese in esso operanti dispongono di un significativo potere di mercato, derivante anche da un certo grado (variabile in relazione ai servizi e ai settori) di anelasticità della domanda” (C. Cost. n. 288 del 2019). Si potrebbe quindi ritenere che, se le caratteristiche del settore, descritto peraltro in modo più che opinabile dai giudici costituzionali[7], hanno già indotto la Corte a ritenere legittima un’imposta straordinaria sugli enti creditizi e finanziari, non vi sarebbe bisogno di altro, non interferendo in alcun modo con la conclusione raggiunta il fatto che la Consulta non abbia ritenuto di ricondurre il tributo alle excess profit taxes. Detto in altri termini, se le banche possono essere tassate in misura maggiore in ragione del comparto cui appartengono, tanto più dovrebbe considerarsi legittimo l’aggravio impositivo (sempre che le caratteristiche di comparto non si siano modificate) in una situazione in cui hanno straordinariamente guadagnato: diventerebbe quindi, se valesse il presupposto di partenza, inutile ogni verifica di coerenza tra lo scopo e lo strumento utilizzato. Perderebbe di importanza in questa prospettiva anche il fatto che il decreto legge istitutivo, lo ha segnalato la Banca centrale europea, non sia stato accompagnato “da alcuna relazione illustrativa che ne spieghi la ratio[8].

3. Il secondo aspetto problematico attiene all’inevitabile retroattività dei tributi sugli extraprofitti, i quali, aggiungendosi all’IRES nella tassazione del reddito in un momento successivo a quello della realizzazione del presupposto, colpiscono fattispecie già, quanto meno in parte, realizzatesi. Così accade anche per l’imposta introdotta in pieno agosto, atteso che essa, istituita per l’anno 2023, è determinata, nel limite dello 0,1 per cento del “totale dell’attivo relativo all’esercizio antecedente a quello in corso al 1° gennaio 2023” (co. 3), “applicando un’aliquota pari al 40 per cento sul maggior valore tra: a) l’ammontare del margine di interesse di cui alla voce 30 del conto economico redatto secondo gli schemi approvati dalla Banca d’Italia relativo all’esercizio antecedente a quello in corso al 1° gennaio 2023 che eccede per almeno il 5 per cento il medesimo margine nell’esercizio antecedente a quello in corso al 1° gennaio 2022; b) l’ammontare del margine di interesse di cui alla voce 30 del predetto conto economico relativo all’esercizio in corso a quello in corso al 1° gennaio 2024 che eccede per almeno il 10 per cento il medesimo margine dell’esercizio antecedente a quello in corso al 1° gennaio 2022” (co. 2). È vero, è una sorta di retroattività impropria, perché l’anno 2023 è ancora in corso, sicché l’incremento del margine non si è ancora compiutamente realizzato alla data di entrata in vigore del decreto; eppure, il problema si pone ugualmente, perché l’art. 3, co. 1, primo periodo, di quella vera e propria vox clamantis in deserto che è lo Statuto dei diritti del contribuente, stabilisce, come è noto, che “[…] le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”. Se poi il prelievo sui guadagni eccessivi si configurasse come una “maggiorazione dell’aliquota dell’IRES” (si pensi alla Robin Hood tax, così qualificata dalla Corte nella citata sentenza n. 10 del 2015), si potrebbe ritenere violato, nella sostanza, anche il secondo periodo del medesimo comma, il quale prevede che “relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono[9].

Malgrado ciò, nulle mi sembrano le possibilità di ottenere una sentenza di accoglimento dalla Corte costituzionale che si fondi sulla retroattività del prelievo, ritenendo da sempre la Corte (cfr. sentenza n. 315 del 1994) che la norma impositiva retroattiva sia comunque legittima se, è anche il nostro caso, non risulti spezzato il nesso, per il troppo tempo trascorso, tra capacità contributiva e prelievo fiscale.

In un contesto ordinamentale in cui hanno diritto di cittadinanza i tributi sugli extra profitti, le imprese sono quindi fatalmente consegnate all’incertezza, potendo sempre verificarsi che si decida di intervenire con un inasprimento del prelievo qualora i risultati economici dell’attività svolta superino determinate soglie di normalità non preventivamente determinate. Né si può sperare nella valorizzazione del principio dell’affidamento nella fissità del presupposto (che, come si è visto, dovrebbe essere sempre lo stesso, il “possesso del reddito”) per tutto il periodo di imposta, nella convinzione che non si dovrebbe assistere, questo il senso della norma dello Statuto testé citata, alla sua modifica in dipendenza di eventi che, una volta realizzati, danno origine a una norma impositiva che entra a far parte dell’ordinamento successivamente all’inizio dell’esercizio. Se anche si ritenga, mi sembra impegnativo sostenere il contrario, che la libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost. sia veramente tale solo quando si possa contare su una situazione in cui i costi fiscali possano essere previsti senza sorprese e margini d’errore all’inizio del periodo di imposta, resterebbe che l’utilizzo costante dell’etereo principio di ragionevolezza consente al Giudice delle leggi di aggirare il problema facendo perno sulla straordinarietà della situazione (e, quindi, del prelievo) e sulla non meritevolezza dei profitti conseguiti perché non collegati all’abilità degli operatori o al rischio di impresa. In punto di prevedibilità, peraltro, si potrebbe addirittura sostenere, è evidentemente un paradosso, che la reiterazione dell’attacco ai (ritenuti) sovraprofitti dovrebbe indurre gli operatori ad attendersi che per le annualità particolarmente floride possa ordinariamente cadere sugli asseriti extra redditi la mannaia della tassazione aggiuntiva[10].

4. In terzo luogo, è il caso di segnalare che il governo legislatore non solo non ha dato conto delle ragioni per cui sussisterebbero le condizioni di straordinaria necessità e urgenza (vd. supra), ma ha anche violato l’art. 4 dello Statuto dei diritti del contribuente, il quale stabilisce che “non si può disporre con decreto legge l’istituzione di nuovi tributi né prevedere l’applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti”. Eppure, le norme statutarie costituiscono principi generali dell’ordinamento derogabili solo espressamente e mai da leggi speciali.

Va anche detto tuttavia che non si può colpevolizzare più di tanto chi ha assunto, nei confronti della disposizione statutaria richiamata, lo stesso atteggiamento di tutti quelli che sono venuti prima, in una situazione in cui la Corte costituzionale, con riferimento alla Robin Hood tax, ha avuto modo di affermare, ribadendo i suoi consolidati e tutt’altro che rigorosi principi (e quindi sdoganando definitivamente il decreto legge come fonte idonea all’introduzione di nuovi tributi), che “il sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del governo, di un decreto legge, va comunque limitato ai casi di «evidente mancanza» dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dall’art. 77, secondo comma, Cost. o di «manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa valutazione»”.

5. Chiarito che è possibile introdurre con decreto legge un tributo retroattivo che colpisca “l’eccezionale redditività dell’attività svolta in un settore che presenza caratteristiche privilegiate in un dato momento congiunturale”, non resta che soffermarsi sulle caratteristiche della nuova imposta in modo da verificare se, per utilizzare il linguaggio della Corte nella pluricitata sentenza n. 10 del 2015 (da cui è tratto anche il precedente virgolettato), la sua struttura si raccordi coerentemente con la “ratio giustificatrice” del prelievo. Tutto ciò sempre che si ritenga che a giustificare il prelievo non “bastino”, come si è invece discutibilmente sostenuto con riferimento alla ricordata addizionale dell’8,5 per cento per il 2013 (sentenza n. 288 del 2019), le sole caratteristiche del settore bancario (vd. sul punto, supra).

In questa prospettiva emergono ulteriori ed evidenti profili di criticità. I principali mi sembrano i seguenti.

Il primo. Si è più volte detto che le excess profit taxes colpiscono i sovraredditi ritenuti eccessivi e immeritati, con la conseguenza che i tributi così introdotti finiscono per condividere il presupposto con l’IRES. Nel caso di specie, invece, ma lo stesso è accaduto per il prelievo introdotto nel 2021 sulle imprese del settore oil, gas and energy (art. 37 del d.l. 21 marzo 2022, n. 21)[11], la base imponibile coincide, come si è visto, con l’incremento del margine di interesse e, quindi, con una grandezza che è diversa dall’incremento dell’utile-reddito imponibile derivante dall’esercizio dell’intera attività. Sorgono quindi evidenti problemi di equità intrasettoriale, atteso che, in (a me sembra) violazione dell’art. 3 e 53, co. 1, Cost., potrebbero essere costretti a identico esborso soggetti che hanno conseguito utili-redditi imponibili diversi. Detto in altri termini, il prelievo escogitato dal governo non sembra in grado di isolare gli operatori a cui possa effettivamente ascriversi una maggiore capacità contributiva. Né il limite previsto dal comma 3 dell’art. 26 (lo 0,1 per cento del “totale dell’attivo relativo all’esercizio antecedente a quello in corso al 1o gennaio 2023”) è in grado di rimediare all’evidenziata disparità di trattamento.

Il secondo. È tutto da discutere, anche a prescindere dal confronto tra i diversi operatori, che la scelta della base imponibile non sia irragionevole e arbitraria. Osserva correttamente la Banca centrale europea che, se è pur vero che “un reddito netto da interessi degli enti creditizi più elevato può inizialmente derivare dall’aumento dei tassi di interesse”, è del pari indubitabile che “l’aumento dei tassi di interesse può anche contribuire a un aumento dei costi di finanziamento e ad eventuali perdite sui portafogli dei titoli bancari in essere. Inoltre, in una prospettiva di lungo periodo, tassi di interesse più elevati possono incidere negativamente sulla situazione finanziaria dei beneficiari di prestiti, aumentando così il rischio di credito”. Di qui la conclusione: “tali effetti non sono presi in considerazione nel concepire l’imposta straordinaria, in quanto quest’ultima è calcolata sul margine di interesse netto e non sugli utili netti”[12], circostanza questa che induce la BCE a sollecitare le istituzioni italiane ad un’“analisi approfondita delle potenziali conseguenze negative per il settore bancario”, avendo a riguardo l’impatto dell’improvvida imposta sulla “redditività a lungo termine e sulla base patrimoniale, sull’accesso ai finanziamenti e sulla concessione di nuovi prestiti e sulle condizioni di concorrenza sul mercato e il suo potenziale impatto sulla liquidità”. Non servono ulteriori chiose: il test di coerenza tra la struttura del tributo e l’obiettivo che il legislatore si è posto non pare superato perché, se la tassazione degli extra profitti può, nella ricostruzione della Consulta, legittimamente mirare a ripristinare l’equilibrio tra aree del sistema economico diversamente performanti in particolari e straordinari contesti, non si potrà di certo ritenere che il perseguimento di tale obiettivo possa legittimare l’indebolimento strutturale di un settore cruciale come quello bancario.

Il terzo. Manca nella disciplina del nuovo tributo il divieto di rivalsa, sicché esso potrà essere trasferito ai clienti degli istituti di credito. Si verifica quindi una situazione non dissimile a quella già stigmatizzata dalla Corte con riferimento alla Robin Hood tax (sentenza n. 10 del 2015), che pure contemplava il divieto di rivalsa: “un ulteriore profilo di inadeguatezza e irragionevolezza è connesso alla inidoneità della manovra tributaria in giudizio a conseguire le finalità solidaristiche che intende esplicitamente perseguire”, dato che “il divieto di traslazione degli oneri sui prezzi al consumo […] non è in grado di evitare che l’«addizionale» sia scaricata a valle, dall’uno o dall’altro dei contribuenti che compongono la filiera petrolifera, per poi essere, in definitiva, sopportata dai consumatori sotto forma di maggiorazione dei prezzi”. Potrebbero essere quindi i correntisti, in un formidabile circolo vizioso, a pagare quel prelievo il cui gettito dovrebbe essere destinato a ridurre la pressione fiscale di famiglie e imprese (art. 26, co. 6, del decreto).

Il quarto. L’art. 26, co. 5, del d.l. n. 104 del 2023 stabilisce che “l’imposta straordinaria non è deducibile ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta regionale sulle attività produttive”, statuizione questa che impedisce la deduzione di un costo certamente connesso all’attività di impresa, in violazione del principio di inerenza da cui, come insegnato dalla Corte nella sentenza n. 262 del 2020[13], “il legislatore non può arbitrariamente prescindere”. Le deroghe all’art. 99 del t.u.i.r., il quale sancisce la deducibilità di tutti i tributi diversi da quelli sul reddito e da quelli per i quali è prevista la rivalsa, anche facoltativa, possono infatti ritenersi legittime da un punto di vista costituzionale a condizione che non si contravvenga alla “coerenza del disegno impositivo”, la quale si fonda, per espressa scelta del medesimo legislatore, sul criterio, per il reddito di impresa, di tassazione al netto[14].

6. Il tributo apparso all’improvviso in un decreto legge di mezza estate desta dubbi, perplessità, finanche sconcerto.

Sarebbe buona cosa, quindi, per la certezza dei rapporti giuridici (e, quindi, anche per l’attrattività del Paese), che si cercasse di porre fine all’utilizzo, sempre più frequente, delle excess profit taxes. Se proprio, per la precarietà delle condizioni della finanza pubblica, non si potesse farne a meno, sarebbe quanto meno auspicabile che non si tentasse più di discostarsi dal modello della Robin Hood tax, ovviamente emendato dei profili di irragionevolezza che la Corte costituzionale ha individuato nella sua fondamentale pronuncia del 2015. Occorrerebbe quindi che si configuri l’imposta in linea con gli insegnamenti, peraltro discutibili nell’impostazione di fondo perché fondati sull’evanescente criterio di ragionevolezza declinato come coerenza tra obiettivo e mezzo, della Corte costituzionale: una “maggiorazione dell’aliquota dell’IRES” che deve colpire, straordinariamente e in presenza di grandi e immeritati, nell’accezione dianzi esposta, guadagni, gli incrementi di reddito conseguiti rispetto agli anni “normali”, senza possibilità che il peso dell’extra prelievo venga traslato su altri.

Non ci si dovrebbe esimere inoltre da una seria analisi sugli effetti, anche di lungo periodo, del tributo introdotto: la dirigistica attenzione alla consistenza dei guadagni degli operatori di mercato tra normalità, eccesso e meritevolezza non dovrebbe esser tale da dare origine a situazioni che indeboliscono nel lungo periodo il comparto preso di mira, tanto più se quel settore è decisivo per il funzionamento dell’intera economia.

I tributi sugli extra profitti dovrebbero quindi configurarsi, per gli inconvenienti e i problemi che essi generano, come extrema ratio a cui fare ricorso in casi del tutto eccezionali. Il che si sarebbe forse verificato se la Corte costituzionale non avesse stabilito quel principio (sentenza n. 10 del 2015, ma anche sentenza n. 262 del 2020) per cui un’imposta illegittima per violazione dell’art. 3 Cost. potrebbe non dover essere restituita nel caso in cui il suo rimborso comporti una violazione del medesimo art. 3 Cost.: quest’ultima si connetterebbe infatti alla necessità costituzionale (art. 81 Cost) di garantire l’equilibrio di bilancio con il varo di tributi che, sostituendo l’imposta incostituzionale, potrebbero colpire soggetti meno abbienti rispetto ai ricchi imprenditori che si occupano di energia (o di attività bancaria). È del tutto fuori luogo pensare che la soluzione individuata dalla Corte abbia incentivato (e incentivi in futuro) il governo a considerare queste forme di tassazione come un ordinario strumento di politica economica? Perché, se è possibile o addirittura probabile che il maltolto non debba essere restituito, la politica non dovrebbe far quadrare il sempre più precario bilancio statale con forme di prelievo che, colpendo i cattivi petrolieri e le perfide banche, troveranno favorevole riscontro nella stragrande maggioranza degli elettori?

 

[1] In precedenza, sono stati introdotti nell’ordinamento: i) l’addizionale dell’8,5 per cento di cui all’art. 2, co. 2, del d.l. 30 novembre 2013, n. 133, prevista per gli enti creditizi e finanziari, Banca d’Italia e gli enti assicurativi per il solo anno 2013 (è importante ricordare, ma sul punto si ritornerà nel testo, che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 288 del 2019 ha ritenuto che la ricordata addizionale non potrebbe considerarsi un tributo sugli extra profitti); ii) l’addizionale del 5,5 per cento di cui all’art. 81, co. 16-18, del d.l. 25 giugno 2008, n. 212 per gli operatori del settore dell’energia (la c.d. Robin Hood tax), ritenuta illegittima dalla Corte con la celeberrima sentenza n. 10 del 2015; iii) il contributo straordinario sui produttori e rivenditori di energia di cui all’art. 37 del d.l. 21 marzo 2022, n. 21; iv) il contributo di solidarietà temporaneo nel settore energetico (art. 1, co. 115 e s., l. 29 dicembre 2022, n. 197).

[2] Così D. Stevanato, Extraprofitti: una tassa ingiusta, inutile e dannosa, in IBL Focus, 21 marzo 2022.

[3] La Robin Hood tax è stata qualificata a più riprese dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 10 del 2015 come “maggiorazione della aliquota IRES”.

[4] Ed infatti, ma lo si vedrà successivamente nel testo, ogniqualvolta il tributo sugli extra profitti cerca basi imponibili diverse, come è avvenuto per il contributo straordinario per il 2021 e per l’imposta qui oggetto di commento, l’inquadramento concettuale si fa più complicato (anche perché l’extra profitto è un extra reddito e non qualcosa di diverso) così come la valutazione di ragionevolezza, quella cioè in merito alla coerenza tra obiettivo perseguito (tassazione dei guadagni eccessivi) e struttura del prelievo (vd., in ogni caso, infra, nel testo).

[5] Questa conclusione non è messa in crisi dalle osservazioni di G. Fransoni, Tassazione degli extra profitti e Costituzione, Il Sole 24 Ore, 5 settembre 2023, secondo cui le imposte sugli eccessivi guadagni sarebbero censurabili dal punto di vista del principio di capacità contributiva perché sovvertirebbero la direzione del flusso progettuale dell’imposta, che dovrebbe sempre partire dalla individuazione e disciplina del presupposto, vero e proprio prius concettuale, e non anche dalla preventiva individuazione dei soggetti passivi; è quest’ultimo invece l’unico elemento strutturale del tributo che viene disciplinato, non anche il fatto generatore dell’obbligazione, che resterebbe pertanto nell’indeterminatezza, visto che “la base imponibile … non esprime nulla più che una misura dell’incremento della redditività rispetto al periodo di imposta precedente”, risultando quindi concettualmente “aspecifica” perché può “riguardare qualsiasi impresa”. Ed invero, se si considera, al di là delle forme che di volta in volta assume, l’imposta sui guadagni eccessivi per quel che nella sostanza dovrebbe essere, ossia un tributo che colpisce, al pari dell’IRES, il “possesso del reddito”, non si potrà che giungere alla conclusione che il presupposto è tutt’altro che indeterminato.

[6] Si tratta di griglie concettuali talmente sfuggenti ed eteree da conferire un immenso potere alla Consulta, la quale può riuscire, sol che lo voglia, a giustificare in forza del criterio della ragionevolezza (quasi) tutto quel che voglia giustificare.

[7] Ha rilevato l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) nell’audizione del 12 settembre 2023 avanti le Commissioni VIII (Ambiente, Transizione ecologica, Energia, Lavori pubblici, Comunicazione, Innovazione tecnologica) e IX (Industria, Commercio, Turismo, Agricoltura e Produzione agroalimentare) del Senato della Repubblica che la situazione di monopolio o oligopolio “è assente nelle banche, in forte concorrenza nell’intera area dell’euro. La concorrenza è ampliata per effetto dell’ingresso di competitori (anche fintech o big tech) non regolati come le banche che offrono prodotti e servizi bancari”.

[8] Banca Centrale Europea, Parere del 12 settembre 2023 relativo all’imposizione di un’imposta straordinaria sugli enti creditizi (CON/2023/26), reperibile in rete in EUR-Lex. Nel parere si legge anche che anche nella documentazione tecnica inviata al Senato non è contenuta alcuna spiegazione delle logiche sottese all’introduzione del nuovo tributo.

[9] La retroattività dei prelievi straordinari sui guadagni eccessivi è stata peraltro censurata anche dalla Commissione europea, la quale ha raccomandato che le imposte sugli extra profitti per le imprese dell’energia non dovrebbero essere retroattive e dovrebbero “recuperare unicamente una quota degli utili effettivamente realizzati” (Comunicazione “REPoweEU: azione europea comune per un’energia più sicura, più sostenibile e a prezzi più accessibili”, 8 marzo 2022). Per il vero, alla raccomandazione non sembra facile dar seguito, atteso che ben difficilmente gli extra profitti possono essere previsti prima che si realizzino, circostanza questa che dovrebbe indurre a prendere atto del fatto che i tributi sui guadagni eccessivi sono ontologicamente retroattivi.

[10] Conclusioni queste che non hanno impedito alla Banca Centrale Europea, Parere del 12 settembre 2023 relativo all’imposizione di un’imposta straordinaria sugli enti creditizi (CON/2023/26), cit., di rilevare, giustamente, che “l’introduzione di una imposta retroattiva ad hoc aumenta indebitamente l’incertezza sul quadro fiscale, danneggiando la fiducia degli investitori e influenzando potenzialmente anche il costo del finanziamento per le società non finanziarie. Inoltre, la sua natura retroattiva può aumentare la percezione di un quadro fiscale incerto e dar luogo a un ampio contenzioso, creando problemi di incertezza giuridica” (punto 4.4).

Ha stigmatizzato l’introduzione dell’imposta perché “ha prodotto un vulnus alla fiducia riposta sul mercato finanziario italiano” anche l’ABI nell’audizione del 12 settembre 2023, cit.

[11] La base imponibile scelta per il contributo straordinario contro il “caro bollette” (incremento del saldo tra operazioni attive e operazioni passive rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto) ha generato vibrate critiche, incentrate principalmente sul fatto che la base imponibile non è il reddito o l’utile di impresa e nemmeno l’eccedenza del reddito o dell’utile rispetto a quanto conseguito in esercizi precedenti e, quindi, ben difficilmente può considerarsi rappresentativo di un sovraprofitto.

Su tale tributo cfr. D. Stevanato, Extraprofitti: una tassa ingiusta, inutile e dannosa, cit.; F.S. Marini e G. Marini, Profili di dubbia costituzionalità del contributo sugli extraprofitti energetici, in Il fisco, 2022, p. 3745; R. Iaia, Prime riflessioni sistematiche in ordine al contributo straordinario sul c.d. “caro bollette”, in Riv. tel. dir. trib., 24 giugno 2022; M. Emma e R. Rinaldi, Il contributo straordinario sugli extraprofitti energetici: lineamenti e problematiche, in Il fisco, 2022, p. 2333 e s.; S. De Marco, Riflessioni in tema di tassazione degli utili extraprofitti delle imprese energetiche, in Dir. prat. trib., 2022, I, p. 2093 e s.

Va altresì ricordato che la Corte di Giustizia tributaria di I grado di Roma, Sezione 27, ord. 27 giugno 2023, n. 2437, ha rimesso gli atti Corte costituzionale, avendo ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del prelievo per violazione degli artt. 3, 23, 41, 42, 53, 117 della Costituzione e, in via mediata, dell’art. 1 del primo protocollo CEDU.

Sul successivo contributo di solidarietà temporaneo nel settore energetico (art. 1, co. 115 e s., l. 29 dicembre 2022, n. 197) e sui rapporti con il tributo introdotto nel 2021, cfr. R. Iaia, La disciplina del contributo di solidarietà temporaneo nel settore energetico (art. 1, commi 115 ss., L. n. 197/2022) nella prospettiva sistematica e comparatistica, in Riv. tel. dir. trib., 13 giugno 2023.

Più in generale, sull’adozione di una excess profit tax europea per il settore energetico (reg. n. 2022/1854), vd. G. Allevato, L’adozione di una excess profit tax europea tra opportunità e criticità, in Riv. tel. dir. trib., 6 dicembre 2022.

[12] Banca Centrale Europea, Parere del 12 settembre 2023 relativo all’imposizione di un’imposta straordinaria sugli enti creditizi (CON/2023/26), cit., punto 4.3. In senso analogo si è espressa anche l’ABI, la quale, nel corso dell’audizione del 12 settembre 2023, cit., ha rilevato che la base imponibile coincide con l’intero margine di interesse come rilevato nella voce 30 del conto economico, “senza verifica concreta sulla sua correlazione con gli asseriti «extra» profitti derivanti dall’«andamento dei tassi di interesse e dal costo del credito»”. A fronte delle riscontrate criticità, nella stessa occasione l’ABI ha altresì proposto di “escludere dal computo dell’imposta gli effetti reddituali (margine di interesse) e patrimoniali (attivo su cui calcolare il CAP massimo di imposta) dei titoli sovrani”.

[13] Sulla sentenza n. 262 del 2020 sia consentito rinviare ad A. Giovanardi, Ancora sul principio di capacità contributiva come proiezione in ambito tributario del principio di uguaglianza: il caso dell’irragionevole (solo per l’anno 2012) indeducibilità dal reddito di impresa dell’Imu sugli immobili strumentali, in Giur. cost., 2020, n. 6, p. 3128 e s.

[14] Analoghe le considerazioni dell’ABI nell’audizione del 12 settembre 2023, cit.

Di cosa si parla in questo articolo
Vuoi leggere la versione PDF?

WEBINAR / 23 Gennaio
La tutela dei dati personali dei clienti della banca

ZOOM MEETING
Offerte per iscrizioni entro il 20/12


WEBINAR / 06 Febbraio
AI Act: primi adempimenti per gli operatori


Presidi di governance e controllo per l'uso dell'Intelligenza Artificiale

ZOOM MEETING
offerte per iscrizioni entro il 17/01

Iscriviti alla nostra Newsletter