(*) Vorrei concentrare il mio breve intervento su tre aspetti:
a) il dibattito sulla legittimità costituzionale di alcuni snodi della nuova disciplina “a regime” sul risanamento e sulla risoluzione degli enti creditizi (vale a dire della disciplina introdotta con l’attuazione della direttiva 2014/59/UE) ovvero: quando il diavolo fa le pentole ma non i coperchi…
b) il tema del rapporto tra l’adozione della nuova disciplina così richiamata e il cd. “decreto salva-banche” (nato, morto e… “imbalsamato” prima del suo presumibile “funerale”…), vale a dire, in estrema sintesi, il tema della compatibilità costituzionale del modus procedendi seguito dal nostro Paese per lo scioglimento “eccezionale” di una questione rappresentata come del tutto particolare e transitoria ovvero: quando il diavolo continua a fare le pentole, tendando, tuttavia, forse assai ingenuamente, di fare anche i coperchi…
c) il valore paradigmatico di tutte queste vicende sul piano delle trasformazioni istituzionali che sono in atto da tempo e le cui conseguenze non sono ancora state metabolizzate con la piena consapevolezza che sarebbe dovuta, vale a dire, in modo molto conciso, l’affermazione assai diffusa di un modello di amministrazione che presuppone o, meglio, esige la forza dell’intervento legislativo immediato, rendendo, così, quasi ordinari fenomeni che – pur sempre ammissibili – dovrebbero essere assai circoscritti e che, di conseguenza, sono vieppiù suscettibili di uno strict scrutiny da parte del potere giudiziario ovvero: quando il diavolo fa le pentole e prova a metterci i coperchi, ma qualcuno (un giudice) può sempre intervenire per ricordare che c’è un limite…
Primo punto:
Da più parti si prospetta l’illegittimità costituzionale del modo con cui l’opzione per il bail in può essere praticata.
Si evocano, sul punto, diversi parametri di legittimità, su tutti il combinato disposto tra gli artt. 42 e 47 Cost. (e in proposito si richiama anche l’art. 117, comma 1, Cost., per via della sua capacità di rendere costituzionalmente cogente anche l’interpretazione dell’art. 1 del protocollo n. 1 alla Cedu, quale parametro interposto di legittimità costituzionale).
A conforto dei tanti dubbi sollevati in materia, si ricorda anche la nota e recente pronuncia del giudice costituzionale austriaco (nel caso Hypo Alpe Adria: sentenza del 3 luglio 2015), che, tuttavia, pur confortando i più critici circa l’astratta argomentabilità delle proprie opinioni, è interessante per un’altra e assorbente ragione.
Da essa si desume un insegnamento molto caro, da tempo, ai pubblicisti: è vero che ci sono diritti che non si possono comprimere; ed è vero che, in forza di tale ragione, per tali diritti esistono delle garanzie; ma è vero che, spesso, il divieto riguarda la non ragionevolezza complessiva della disciplina (e quindi, soprattutto, la violazione di principi di eguaglianza e proporzionalità) e che, pertanto, nonostante la compressione di prerogative costituzionali possa effettivamente predicarsi, essa non è automaticamente accertabile con asserita sicurezza, ma si nasconde nei dettagli, nelle modalità specifiche con le quali il legislatore prevede che determinate operazioni vengano compiute. D’altra parte, evocare la tutela del risparmio o della proprietà come se fossero entità univoche e monolitiche non appare corretto, anche nel contesto costituzionale italiano. Né è un caso, poi, che anche nella sentenza del Verfassungsgerichtshof austriaco la parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale della disciplina (pur differente da quella italiana) sia derivata dalla constatazione di un’irragionevole discriminazione tra diverse categorie di investitori, non già dalla verifica di un’assoluta incompatibilità dei meccanismi di bail in con le tutele costituzionali e sovranazionali stabilite a garanzia della proprietà.
Molto più problematica, invece, è, nella disciplina “a regime”, la parte dedicata alla tutela giurisdizionale. Il conflitto con le garanzie di cui agli artt. 24 e 113 Cost. sembra assai evidente.
Senza voler entrare nello specifico, può dirsi quanto mai complessa l’introduzione di un reticolo di accorgimenti che limitano un pieno spiegamento delle azioni dinanzi alle corti. Si pensi, solo ad esempio, alle disposizioni di cui all’art. 95 (commi 2 e 3) del decreto legislativo n. 180/2015, che pongono delle vere e proprie restrizioni al pieno dispiegamento, dinanzi al giudice amministrativo, di alcune forme di tutela (cautelare e risarcitoria) nei confronti di buona parte dei provvedimenti adottati in base alla nuova disciplina. Simili restrizioni, peraltro, paiono richieste anche dalla direttiva europea (2014/59/UE) di cui il decreto costituisce attuazione (v. art. 85.4), ponendosi così, in rapida successione, due potenziali problemi: uno di compatibilità (interna al diritto dell’Unione) con quanto stabilito dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; l’altro, immediatamente successivo al primo (e di natura interna al nostro ordinamento), di potenziale evocazione degli standard delle predette garanzie costituzionali quali “controlimiti” all’ingresso della disciplina sovranazionale.
Ma si veda anche quanto stabilito dall’art. 26 (comma 2) del medesimo decreto, in tema di parziale insindacabilità delle valutazioni (definitive o anche solo provvisorie) sullo stato delle attività e delle passività dei soggetti potenzialmente destinatari di decisioni di risoluzione. In questo caso, peraltro, occorre dire che la direttiva (v. art. 85.3, nonché punto 89 dei “considerando”) sembra dettare limiti meno stringenti di quelli introdotti dal legislatore nazionale, sottolineando, anzi, le medesime esigenze che da tempo hanno portato anche la Corte costituzionale italiana ad essere assai negativa rispetto a discipline capaci di ossificare e predefinire gli elementi istruttori che l’autorità giurisdizionale potrebbe naturalmente prendere in considerazione per dare la tutela chiesta in giudizio (v. sentenza n. 70/1961).
Secondo punto:
Poniamo attenzione, per un attimo, a questa successione di fonti, ormai universalmente nota in verità:
1. Emanazione del decreto legislativo (d.lgs. n. 180/2015), in attuazione della direttiva 2014/59/UE; 2. Emanazione del decreto legge (d.l. n. 183/2015); 3. Approvazione della legge di stabilità (l. n. 208/2015, art. 1, comma 854: “Il decreto-legge 22 novembre 2015, n. 183, è abrogato. Restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base del medesimo decreto-legge n. 183 del 2015”. V. poi i commi 855-861 sul Fondo di solidarietà).
Con la prima fonte (1.) lo Stato italiano ha attuato la nuova disciplina europea: essa (art. 130 della direttiva) avrebbe dovuto essere approvata entro il 31 dicembre 2014, ma la stessa prevedeva una sorta di tolleranza al 1° gennaio 2016, segnatamente “per conformarsi al titolo IV, capo IV, sezione 5” (rubricata “Strumento del bail in”). Sicché è lo stesso legislatore italiano che, nell’attuare sia pur tardivamente la nuova disciplina europea (art. 106, comma 2, del decreto legislativo), ne ha spostato l’operatività, in parte qua, proprio alla data predetta.
Con la seconda fonte (2.), intervenuta sei giorni dopo, il Governo ha dato vita ad un procedimento di prima applicazione parziale della nuova disciplina, in una fase temporale in cui, pur non potendosi applicare il bail in “a regime”, si ritiene di dover agire urgentemente, dal momento che, per un verso, non si può fare più ciò che si faceva un tempo (pena la “scure” del divieto di aiuti di Stato), per altro verso, occorre occuparsi delle conseguenze negative (e forse “contagiose” per tutto il sistema) di ciò che sta per accadere con riguardo a quattro banche. Sicché si è istituito con forza di legge un ente-ponte per ciascuna delle quattro banche in questione e si è introdotto un bail in parziale.
Con la terza fonte (3.) si è quasi anticipata una valutazione riservata al legislatore a fronte di decreti decaduti e si è cristallizzata la disciplina derogatoria introdotta una tantum, anche se in quel momento ancora non decaduta, fino al 1° gennaio 2016, e quindi prima dell’entrata in vigore del bail in “a regime” (evitandosi, cioè, il rischio delle mancata conversione in legge del decreto e dell’applicazione ora per allora del medesimo bail in a regime, e cercando altresì di limitare gli effetti – comunque – già contestati del bail in parziale).
A fronte di questa successione – e senza nulla aggiungere sulle notizie freschissime circa l’adozione, sempre con decreto legge (del 14 febbraio 2016), di una nuova disciplina delle banche di credito cooperativo – mi limito ad evidenziare innanzitutto questi interrogativi:
— non è forse vero che il ricorso al decreto legge, al di là dei profili connessi alla sussistenza concreta dei requisiti costituzionali di straordinaria necessità ed urgenza, rivela un peculiare “baco” del nuovo sistema? L’ente-ponte è evidentemente un ente pubblico (non vi può essere dubbio che lo sia…) e nella disciplina “a regime” nulla si dice su come lo si debba (o lo si possa legittimamente) istituire tempestivamente e in concreto[1]: ciò significa che, nell’inevitabile urgenza dell’ordinarietà delle potenziali situazioni di crisi, occorre ogni volta un decreto legge?
— ma non è forse vero, allora, che, così facendo, ciò che è, per la nostra Costituzione, strumento normativo eccezionale diventa, nel caso di specie, strumento operativo ordinario?
Oltre a ciò, va detto che è assai curioso il meccanismo – prescelto all’interno della legge di stabilità – volto ad abrogare il decreto legge operando, al contempo, un salvataggio di atti ed effetti prodottisi proprio sulla base di quel medesimo decreto. Delle due l’una, infatti: o la combinazione delle due previsioni non serve ad alcun scopo particolare (l’abrogazione non ha effetto retroattivo, sicché pare ovvio che atti ed effetti prodottisi in precedenza rimangano in vita…); o si vuole significare ciò che la disposizione, per così dire, “rafforzativa” sul salvataggio di atti ed effetti difficilmente potrebbe significare in modo legittimo (ossia che ciò che si è fatto non si può più rimuovere in alcun modo: ad esempio, l’espressione “Restano validi…”, in questo senso, potrebbe intendersi come una forma di legificazione di tutta l’attività svolta fino a quel momento, con sottrazione di quell’attività al circuito delle possibili sedi del sindacato giurisdizionale).
Terzo punto:
I due punti così rapidamente descritti inducono una riflessione di sistema; di più: essi confermano tendenze che si registrano da tempo e che molto hanno a che fare con la sostanziale tenuta del reticolo di garanzie istituzionali così come disegnate dalle costituzioni nazionali sulla base di presupposizioni che oggi vengono “rovesciate” anche in considerazione dell’influenza del diritto dell’Unione europea.
È da tempo, cioè, che il diritto nazionale, in molti settori, è soggetto ad un processo di funzionalizzazione, non solo dal punto di vista degli scopi, ma anche dal punto di vista degli strumenti. In questo quadro, ciò che, dati certi obiettivi, non riesce a fare la “legge” nazionale – e ciò che anche le amministrazioni e i privati, pur disponendo di quella “legge”, non riescono a fare – viene sopperito da interventi amministrativi “in forza di legge”, che – lungi dal restare espressioni eccezionali di un principio generale guardato da sempre, tuttavia, con grande sospetto (ossia: l’assenza di una riserva generale di amministrazione e la possibilità per il legislatore di “provvedere” anche in concreto) – si trasformano in modalità operative di un Esecutivo che tende a farsi legislatore del singolo momento o della singola fattispecie. E ciò anche in ambiti nei quali simile modus operandi è dubbio, sia dal punto di vista interno sia dal punto di vista europeo.
La tendenza, a fronte di questi fenomeni, a “riscoprire” il potenziale “antagonistico” delle garanzie costituzionali dei diritti e delle libertà è fisiologicamente naturale e molto forte, ma è anche vero che questa tendenza è consegnata – nel nostro ordinamento – all’assenza di un quadro positivo che definisca sempre in modo chiaro la cogenza di quelle garanzie, lasciando così alle “corti”, messe in tal modo sotto stress, il compito di una delicatissima razionalizzazione e consegnando cittadini e operatori ad una cornice di ricorrente e insostenibile incertezza.
(*) Tenutosi a Trento, 12 febbraio 2016.
[1] L’art. 42, comma 3, lett. a), del decreto legislativo n. 180/2015 chiarisce che è la Banca d’Italia ad approvare, con proprio provvedimento, atto costitutivo e statuto dell’ente in questione. Ma la relazione tecnica che accompagna e spiega le ragioni dell’adozione del decreto legge n. 183/2015 e che correda il relativo ddl per la conversione in legge da parte del Parlamento sottolinea che “la pubblicazione del provvedimento avente forza di legge tiene luogo delle formalità civilistiche di costituzione della società e di iscrizione nel registro delle imprese”.