La Suprema Corte, con sentenza pronunciata in data 4 maggio 2016, ha statuito che, con riferimento alla liquidazione del danno subito da una società in conseguenza della condotta degli amministratori, l’applicazione del criterio equitativo, in particolare della differenza tra attivo e passivo fallimentare, determina la piena legittimità del giudizio in relazione al presumibile esito delle insinuazioni tardive e delle opposizioni allo stato passivo.
La Corte ha, inoltre, precisato che, l’affermazione secondo cui nell’ambito della valutazione equitativa si debba dare la prova specifica dell’ammontare è chiaramente in contraddizione con il ricorso a detto potere discrezionale, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 1227 c.c., il cui esercizio, a conferma dell’orientamento consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, presuppone: (a) la prova dell’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare; (b) l’onere in capo alla parte interessata della prova non solo dell’“an debeatur” del diritto al risarcimento, ove contestato, ma anche di ogni elemento di fatto utili alla quantificazione del danno e di cui la parte interessata possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, sì da consentire al giudice il concreto esercizio del potere di liquidazione in via equitativa, che ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso.