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Lo spinoso tema della validità delle fideiussioni omnibus nel recente orientamento della Cassazione

20 Agosto 2018

Paolo Carrière, CBA Studio Legale e Tributario

Di cosa si parla in questo articolo

Sommario: 1. Una considerazione preliminare: cosa dice precisamente la Cassazione?; 2. L’antefatto; 3. Il principio di diritto enunciato nell’ordinanza; 4. Verifica critica di alcuni obiter dicta che possono leggersi nell’ordinanza; 4.1 La natura dell’accertamento dell’Autorità Antitrust e la sua valenza di “prova privilegiata”; 4.2 Il perimetro della “nullità” ex art. 2, c. 3 della Legge Antitrust in una prospettiva verticale: intese “a monte” ed effetti “a valle”; 4.3 Il perimetro della “nullità” ex art. 2, c. 3 della Legge Antitrust in una prospettiva “orizzontale”: nullità totale o nullità parziale; 5. Il presupposto indefettibile del giudizio di illiceità “antitrust” che non può essere eluso in sede giurisdizionale: l’attualità/permanenza di un intento collusivo tra le banche.

 

1. Una considerazione preliminare: cosa diceprecisamente la Cassazione?

Grande clamore sta provocando la recente ordinanza della Corte di cassazione, Sez. I, n. 29810 del 2017[1]. Secondo alcune delle primemassimazioni redazionali[2] dell’ordinanza in commento, così come per alcuni suoi primi commentatori[3], oltreché nelle prime applicazioni giurisprudenziali che di essa possono osservarsi[4], per effetto della pronuncia della Cassazione potrebbero infatti essere ritenute sostanzialmente nulle (o potenzialmente tali) tutte le fideiussioni prestate a garanzia delle operazioni bancarie (c.d. fideiussioni omnibus) conformemente allo schema di contratto predisposto già nel lontano 2002 dall’ABI. Le conseguenze di un tale orientamento (ove risultasse effettivamente tale) sarebbero evidentemente dirompenti, anche a livello di equilibri sistemici.

Con la citata pronuncia, tuttavia, la Suprema Corte, cassando la sentenza impugnata e indicando quindi come dovrà essere riorientato il nuovo esame della materia litigiosa così rimessa alla corte territorialmente competente (Corte d’Appello di Venezia), pare formulare e indicare alla corte territoriale il solo, seguente, “principio di diritto”: quello secondo cui “in tema di accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali vietate dalla L. n. 287 del 1990, art. 2, la stipulazione “a valle” di contratti o negozi che costituiscano l’applicazione di quelle intese illecite concluse “a monte” (nella specie: relative alle norme bancarie uniformi ABI in materia di contratti di fideiussione, in quanto contenenti clausole contrarie a norme imperative) comprendono anche i contratti stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa da parte dell’Autorità indipendente preposta alla regolazione o al controllo di quel mercato (…) a condizione che quell’intesa sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato come nullo, considerato anche che rientrano sotto quella disciplina anticoncorrenziale tutte le vicende successive del rapporto che costituiscano la realizzazione di profili di distorsione della concorrenza”. (par.12 evidenza aggiunta)

In buona sostanza, la Corte nell’esaminare i primi due motivi di ricorso, relativi al primo gruppo di censure proposto dal ricorrente e attinenti al rigetto della dichiarazione di nullità del contratto di fideiussione, pare aver qui indirizzato la sua analisi esclusivamente sul profilo “temporale”, (il secondo gruppo di censure, a cui si riferivano gli ulteriori mezzi di impugnazione e che atteneva all’assorbimento della domanda risarcitoria proposta nel primo motivo di censura, non vengano affrontati dalla Suprema Corte, in quanto ritenuti conseguenti alla soluzione che verrà data dalla corte territoriale alla preliminare questione della “nullità”). In particolare, preso atto che“Il fondamento sostanziale della contrarietà di alcune clausole tipiche alle norme imperative non è propriamente oggetto di discussione tra le parti, che non contestano il contenuto della pronuncia dell’Autorità indipendente” (par. 8.1), la Corte limita chiaramente il suo esame solo a “ciò che forma oggetto di discussione” e cioè “il fatto che, il contratto stipulato tra il fideiussore (il sig. B.) e la Banca (Unicredit) il 18 febbraio 2005, non potrebbe essere dichiarato nullo in forza di un dictum(dell’Autorità di garanzia) sopravvenuto al patto (il provvedimento della Banca d’Italia n. B423 del 2 maggio 2005” (par. 8.1, evidenza aggiunta). Conclude dunque la Corte: “la sentenza, pertanto, va cassata in parte qua e la causa rinviata – anche per le spese di questa fase – alla Corte territoriale a quo, per un nuovo esame della materia litigiosa, condotto alla luce del principio di diritto appena enunciato, in esso rimanendo assorbite le ulteriori denunce risarcitorie (pure non esaminate nella fase di merito) di cui ai restanti mezzi di cassazione, non essendo dubbio che la diversa decisione della domanda di nullità, indipendentemente dalla correttezza della denuncia sull’autonomia delle istanze risarcitorie, comporteranno ricadute anche su queste altre richieste. (par. 12.1, evidenza aggiunta). Può allora avanzarsi una prima considerazione: alla luce del principio di diritto così chiaramente formulato dalla Corte nella remissione della controversia alla Corte d’Appello di Venezia – la quale a quel principio dovrà quindi attenersi nel riesame che è chiamata a svolgere – non pare possano ritenersi in alcun modo “vincolanti” o anche solo “significativi”, alcuni obiter dictache nell’articolazione di quella argomentazione principale possono leggersi e su cui dovremo soffermarci più oltre al successivo paragrafo 4. In particolare, non paiono esser stati oggetto di alcuna specifica considerazione, né aver assunto alcuna valenza analitica nell’elaborazione di quell’enunciato “principio di diritto”, i profili attinenti alla configurabilità stessa e, nel caso, alla “natura” e alla “portata” della asserita nullità che pur dovesse derivare dalla più corretta applicazione di quel principio di applicazione “temporale” della norma. E ciò appare ben chiaro laddove la S.C. afferma che “ad ogni modo, la Corte territoriale, che è l’organo deputato all’accertamento in fatto, alla luce dei principi sulla prova privilegiata elaborati da questa Corte, non può (né potrà, ancora) escludere la nullità di quel contratto per il solo fatto della sua anteriorità all’indagine dell’Autorità indipendente ed alle sue risultanze” (v. par. 11.6, evidenza aggiunta).

L’ordinanza de quo pare quindi lasciare del tutto aperto per la Corte territoriale (e per gli interpreti) il tema della sussistenza, in primis, e quindi della “natura” e della “portata” della asserita “nullità”; in particolare nelle sue possibili declinazioni: nullità parziale o totale, nullità strutturale, nullità derivata, nullità virtuale etc., così come il tema dei suoi ulteriori effetti, anche risarcitori, che come la stessa Corte riconosce – omettendo di considerare il terzo e quarto motivo di ricorso – discenderanno dalla soluzione che si darà alla questione pregiudiziale della nullità. Come vedremo, allora e in particolare, la circostanza che l’ordinanza reiteratamente si riferisca alla nullità del “contratto di fideiussione”, risulterà qui, in base alla ricostruzione che svolgeremo dell’argomentazione sviluppata dalla Corte sul tema specifico al suo esame, poco più di una formula tralatizia, priva nello specifico di alcuna pregnanza giuridica.

Peraltro, giova sin d’ora sottolineare come sul merito di analoghe vicende si sia già pronunciata la giurisprudenza di merito[5]. In particolare devono qui richiamarsi la sentenza del Tribunale di Milano[6] che ha ritenuto che “ la contestazione relativa alla contrarietà della normativa antitrust delle clausole negoziali in questione non può essere accolta né in relazione alla pretesa nullità dell’intero contratto di fideiussione, che rispetto alle singole clausole, in sé prive di profili di nullità in quanto legittimamente derogatorie di norme codicistiche” ; e quella del Tribunale di Venezia[7] che invece ha dichiarato la nullità ma della sola singola clausola oggetto di censura da parte dell’attore.

Ciò premesso – e ridimensionandosi allora quella che potrebbe apparire, ad una prima superficiale lettura, una portata effettivamente potenzialmente dirompente dell’ordinanza – dobbiamo allora passare ad affrontare nel merito quello che comunque rimane il nodo centrale della vicenda: quello della “nullità”, (omettendo volutamente, qui e per ora, di esprimerci su cosa debba ritenersi oggetto specifico di tale sanzione civilistica, dovendo proprio indagarne attentamente “natura” e “portata”, sottraendoci nel far ciò ad una superficiale e acritica lettura dell’ordinanza e più in generale, evitando di adagiarsi in consolidati e comodi stilemi o inconsapevoli riflessi incondizionati).

2. L’antefatto.

La vicenda origina dal provvedimento della Banca d’Italia n. 55 del 2 maggio 2005 (il “Provvedimento”) – reso dall’Autorità di Vigilanza in virtù della sua funzione di Autorità garante della concorrenza tra istituti creditizi ai sensi della L. n. 287 del 1990, artt. 14 e 20, (in vigore fino al trasferimento dei poteri all’AGCM, con la L. n. 262 del 2005, a far data dal 12 gennaio 2016), di seguito riferendoci genericamente all’”Autorità Antitrust” – avente ad oggetto il possibile contrasto dello schema contrattuale di fideiussione omnibus predisposto dall’ABI (“Schema ABI”) con l’articolo 2 della L. n. 287 del 1990 (“Legge Antitrust”), in virtù della quale, come noto, “1. Sono considerati intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari; 2. Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, (…); 3. Le intese vietate sono nulle ad ogni effetto.” [8]

Come accennato, il Provvedimento riguarda il contenuto dello Schema ABI, che veniva originariamente concordato tra l’ABI ed alcune associazioni di consumatori e poi successivamente comunicato, ai sensi dell’articolo 13[9] della Legge Antitrust, all’Autorità di Vigilanza[10]. A fronte dell’esame dello Schema ABI, la Banca d’Italia invitava l’ABI a modificare il contenuto dello schema in quanto in contrasto con la normativa sulla concorrenza. Conseguentemente l’ABI emendava lo Schema ABI[11] e provvedeva ad una nuova comunicazione all’Autorità, alla quale seguiva l’apertura – da parte della Banca d’Italia nella sua veste di Autorità garante della concorrenza tra istituti creditizi – dell’istruttoria, così come previsto dagli articoli 2 e 14 della Legge Antitrust[12]. Il procedimento di istruttoria proseguiva nel corso dei due anni successivi con richieste di informazioni e deposito di memorie difensive da parte dell’ABI[13]. Nell’ambito di tale procedimento la Banca d’Italia richiedeva, ai sensi dell’articolo 20 comma 3 della Legge Antitrust, un parere all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato[14].

Si evidenzia come l’istruttoria nel merito della Banca d’Italia si sia concentrata su quelle clausole dello Schema ABI “che potrebbero comportare effetti anticoncorrenziali in seguito a un’eventuale adozione generalizzatada parte delle banche, in mancanza di un equilibrato contemperamento degli interessi delle parti.”[15]. Precisamente l’Autorità di Vigilanza si è concentrata sulle previsioni che ponevano in capo al fideiussore obblighi non previsti dalla disciplina codicistica della fideiussione, in deroga alla disciplina codicistica. La Banca d’Italia ha considerato rilevanti le predette clausole in quanto, essendo inserite nello Schema ABI (elaborato quindi da un’associazione senza scopo di lucro a cui aderiscono quasi la totalità delle banche[16] – l’ABI stessa), potevano avere una diffusione tale da portare ad una standardizzazione dell’offerta sul territorio nazionale escludendo il citato “contemperamento degli interessi delle parti”[17].

Segnatamente, il Provvedimento si concentra, sino a pronunciarne “il contrasto con l’articolo 2, comma 2, lettera a)[18] “ sugli articoli 2, 6 e 8 dello Schema ABI. In tal senso, con riferimento allo Schema ABI (i) l’articolo 2 prevedeva la cosiddetta “clausola di reviviscenza” e imponeva al fideiussore di “rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo”; (ii) l’articolo 6 disponeva che “i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall’art. 1957 cod. civ., che si intende derogato” e (iii) l’articolo 8 prevedeva che “qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate”[19].

Nel merito, il Provvedimento prende le mosse dal presupposto che la standardizzazione contrattuale frutto di un’attività associativa non è di per sé lesiva della concorrenza, ben potendo incentivare la stessa, e pertanto al fine di determinare quando questa uniformizzazione sia da ritenersi in contrasto con le regole della concorrenza enuclea delle tipologie di schemi, precisamente “gli schemi contrattuali atti a:

– fissare condizioni aventi, direttamente o indirettamente, incidenza economica, in particolare quando potenzialmente funzionali a un assetto significativamente non equilibrato degli interessi delle parti contraenti;

– precludere o limitare in modo significativo la possibilità per le aziende associate di differenziare, anche sull’insieme degli elementi contrattuali, il prodotto offerto.

Ciò che rileva, quindi, è la capacità dello schema di determinare – attraverso la standardizzazione contrattuale – una situazione di uniformità idonea a incidere su aspetti rilevanti per i profili di tutela della concorrenza.”[20]. L’Autorità di Vigilanza precisa quindi come lo Schema ABI potesse essere idoneo a determinare una situazione di standardizzazione – come ritenuto poi ad esito dell’istruttoria – visto e considerato che già all’epoca dell’istruttoria i testi di fideiussione omnibus in uso nella prassi bancaria[21] disciplinano in modo sostanzialmente uniforme le clausole oggetto dell’istruttoria differenziandosi, tuttalpiù, rispetto allo Schema ABI per un aggravamento della posizione contrattuale del garante[22].

Il Provvedimento nel volgere alle conclusioni ribadisce come le valutazioni effettuate durante l’istruttoria “non hanno avuto per oggetto la legittimità di singole clausole né la possibilità o meno per le banche di utilizzare la contrattualistica. Ai fini della tutela della concorrenza occorre accertare che l’inserimento nello schema contrattuale uniforme predisposto dall’Associazione di categoria di talune clausole, contenenti per il fideiussore oneri diversi da quelli derivanti dalla disciplina ordinaria, non ostacoli la pattuizione di migliori clausole contrattuali, inducendo le banche a uniformarsi a uno standard negoziale che prevede una deteriore disciplina contrattuale della posizione del garante”[23].

Nelle conclusioni del Provvedimento, la Banca d’Italia infatti evidenzia:

(i) in primis, come le condizioni generali di contratto costituenti lo Schema ABI rientrino nel concetto di intese così come definite dall’articolo 2 comma 1 della Legge Antitrust; a tale proposito si sottolinea come l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, nel proprio parere, abbia sostenuto che la diffusione delle clausole contrattuali predette non può essere ascritta ad un fenomeno spontaneo ma sia frutto di un’intesa esistente tra le banche[24]. La Banca d’Italia – nelle proprie conclusioni – sottolinea che le intese vietate sono quelle che “abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza […omissis…] fissare direttamente o indirettamente i prezzi d’acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali”;

(ii) come – pur non potendosi considerare la standardizzazione contrattuale automaticamente anticoncorrenziale – quest’ultima lo è nel caso in cui gli schemi contrattuali prevedano clausole, incidenti su aspetti importanti del negozio, che impediscano “un equilibrato contemperamento degli interessi delle parti”. Tale elemento è considerato discriminante nella valutazione condotta dalla Banca d’Italia, la quale dunque afferma, con riguardo alla clausola “a prima richiesta” di cui all’articolo 7 dello Schema ABI, come tale clausola preveda un onere in capo al fideiussore da ritenersi “non ingiustificato” stante la relativa funzionalità sia per garantire l’accesso al credito[25] sia all’attenuazione del rischio di credito ai sensi dell’Accordo Basilea 2[26]; dall’altro canto – con riguardo ai richiamati articoli 2, 6 e 8 – la Banca d’Italia afferma che per gli stessi non vi sono collegamenti funzionali atti a contemperare gli interessi, avendo quindi gli stessi il solo scopo di “addossare al fideiussore le conseguenze negative derivanti dall’inosservanza degli obblighi di diligenza della banca ovvero dall’invalidità o dall’inefficacia dell’obbligazione principale e degli atti estintivi”.

Il Provvedimento pertanto dispone che i predetti articoli 2, 6 e 8 contenuti nello Schema ABI contengono disposizioni “che, nella misura in cui vengano applicate in modo uniforme, sono in contrasto con l’articolo 2, comma 2, lettera a) della legge n. 287/90”.

A seguito del Provvedimento l’ABI, in data 26.9.2005, ha inviato ai suoi associati una comunicazione con la quale si dava atto della chiusura dell’istruttoria predetta con il Provvedimento ed inviava, unitamente al Provvedimento ed al parere dell’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato, lo Schema ABI emendato di quelle previsioni ritenute dalla Banca d’Italia lesive della concorrenza, qualora “applicate in modo uniforme”[27] (i citati articoli 2, 6 e 8). Infine l’ABI sottolineava che lo Schema ABI costituiva una mera traccia priva di qualsivoglia valore vincolante o di raccomandazione che poteva essere modificata in ogni sua parte.

3. Il principio di diritto enunciato nell’ordinanza.

Come visto sopra, La Suprema Corte si esprime essenzialmente sul profilo dell’applicazione “intertemporale” della disciplina antitrust, sconfessando in ciò il ragionamento che aveva portato la Corte d’Appello di Venezia a rigettare la domanda di nullità. L’impostazione adottata dalla Corte appare corretta e consolidata alla luce dei principi regolatori della materia, richiamandosi inoltre a un precedente consolidato orientamento giurisprudenziale. La Corte d’appello aveva infatti ritenuto che il contratto stipulato tra il fideiussore e la Banca in data 18 febbraio 2005, non avrebbe potuto essere dichiarato nullo in forza di un dictum dell’ Autorità Antitrust (il provvedimento della Banca d’Italia n. B423 del 2 maggio 2005), sopravvenuto al patto, e ciò anche: “a) perché la Banca d’Italia aveva invitato l’ABI a trasmettere le circolari emendate al sistema bancario; b) l’illegittimità delle singole previsioni contrattuali tipizzate era tale in conseguenza del loro inserimento uniforme nello schema ABI, sicché solo il mancato adeguamento dell’Associazione al provvedimento della Banca d’Italia sarebbe comportamento omissivo idoneo a determinare la nullità dei contratti stipulati in base alle NBU (norme bancarie uniformi).”.

In particolare, dunque, la richiesta giudiziale del cliente della banca di accertare la nullità del contratto di fideiussione c.d. omnibus, è stata radicalmente esclusa dalla Corte territoriale in quanto esso era anteriore (sia pure di pochi mesi) all’esito dell’istruttoria condotta, mentre solo il mancato adeguamento dell’ABI, nella predisposizione delle NBU, avrebbe potuto dirsi atto omissivo illegittimo costituente un comportamento idoneo a determinare la nullità dei contratti stipulati successivamente alla pronuncia dell’Autorità Antitrust (nella fattispecie Banca d’Italia), ove non derogato dall’istituto di credito in specifiche fattispecie negoziali. Come detto tale ragionamento della Corte d’Appello viene ritenuto – e riteniamo condivisibilmente – errato dalla S.C., in quanto finirebbe con l’istituire “una sorta di potere di prescrizione, necessario e pregiudiziale rispetto ad ogni accertamento del giudice, da parte dell’autorità garante rispetto ai comportamenti svolti in facto dai soggetti da essa vigilati che non trova riscontro in nessuna previsione di legge né nei principi regolatori della materia”.

Il Provvedimento dell’Autorità Antitrust non può infatti ritenersi incentrato e limitato alle prescrizioni in esso contenute, errando in ciò la Corte territoriale quando mostra di considerarle “dati integrativi dell’accertamento di un illecito che solo dalla loro inosservanza possa seguire, essendo invece sufficiente l’avvenuta constatazione di quel comportamento antigiuridico (le intese restrittive) rispetto al piano della legge e dei principi che ne governano la regolazione”. Nella fattispecie, l’accertamento fu compiuto dalla Banca d’Italia e pubblicizzato nel maggio del 2005, con riguardo ad un periodo temporale di osservazione e di rilievo che hanno fatto ritenere alla S.C. “assai probabile” che l’intesa fosse stata consumata ancor prima della contrattazione intervenuta tra la banca e il cliente, anche sulla base della vicinanza temporale tra il contratto in questione, stipulato a febbraio 2005, e il completamento dell’istruttoria e la sua formalizzazione che – come visto – interviene nel maggio successivo.

In conclusione, dunque, viene affermato quello che ci pare un corretto e condivisibile principio, in base al quale non può escludersi la nullità di una condotta anticoncorrenziale per il solo fatto della sua anteriorità all’indagine dell’Autorità Antitrust ed alle sue risultanze; in particolare, ove l’intesa “a monte” risulti essere stata consumata anteriormente ai comportamenti “a valle”, l’illecito anticoncorrenziale anteriormente consumatosi non può che travolgere i negozi (o comunque le condotte esecutive dell’intesa) conclusi “a valle”, per la violazione dei principi e delle disposizioni regolative della materia (a cominciare dall’art. 2, della Legge 287/90).

Tale orientamento si pone nel solco, come detto, di quanto già ben affermato dalla stessa Suprema Corte (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 827 del 1999) che ha ritenuto rilevanti persino gli illeciti in atto, per quanto generati anteriormente all’emanazione della Legge Antitrust, stabilendo “che, quanto ai rapporti ancora in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 287/90, non si renda di per sé sufficiente ad escludere l’applicabilità ad essi – della disciplina in questione il profilo per cui il fatto (di natura in sé negoziale) generatore del singolo rapporto (ad esempio, una convenzione fra imprese) si fosse, alla suddetta data, già realizzato; ed infatti, ferma restando la ovvia intangibilità di quel fatto originario e di qualunque suo effetto già verificatosi antecedentemente all’entrata in vigore della nuova legge, rientrano comunque sotto la disciplina in questione tutte le vicende successive del rapporto che realizzino profili di distorsione della concorrenza.”, e ancora “l’intesa, comunque strutturata, è nulla, e la nullità decorre dal momento in cui, ben inteso, in costanza della norma che la stabilisce, il comportamento vietato inizia a realizzarsi”.

4. Verifica critica di alcuni obiter dicta che possono leggersi nell’ordinanza.

Ciò detto, e dovendo ora procedere all’analisi di natura “sostanziale” circa la eventuale configurabilità e, quindi, circa la “natura” e la “portata” della asserita “nullità” in relazione alla fattispecie oggetto del contenzioso sfociato nell’ordinanza in esame, occorre soffermarsi a considerare e a vagliare tutta una serie di obiter dicta che, come già detto, l’ordinanza si limita solo ad enunciare come dati. Essa infatti dà conto di assumere per buona – ma solo perché non incidente in alcun modo sull’argomentazione pregiudiziale da essa sviluppata sui soli profili di applicazione temporale della disciplina antitrust – la prospettazione formulata dal ricorrente in termini di “nullità del contratto di fideiussione”; e infatti la configurabilità stessa – e se sì – la reale “natura” e “portata” di quella nullità non ha minimamente costituito oggetto della sua analisi, né la questione è risultata in alcun modo direttamente funzionale alla sua determinazione che, giova ribadirlo, si è limitata a considerare, correggendolo, il mero presupposto “temporale” di applicazione della disciplina antitrust erroneamente adottato, a suo avviso, dalla Corte d’Appello nel respingere la domanda di nullità della fideiussione.

4.1 La natura dell’accertamento dell’Autorità Antitrust e la sua valenza di “prova privilegiata”.

Come già accennato, la S.C. prenda innanzitutto atto di come “Il fondamento sostanziale della contrarietà di alcune clausole tipiche alle norme imperative non è propriamente oggetto di discussione tra le parti, che non contestano il contenuto della pronuncia dell’Autorità indipendente” (par. 8.1); ciò affermato, la Corte assume dunque come pacifico e consolidato l’orientamento (ben sviluppato inCassazione Civile Sez. I, 28/05/2014, n. 11904), in base al quale nel nostro ordinamento il meccanismo di attuazione delle norme antitrust ha una struttura duplice, pubblica e privata; l’Autorità Antitrust (e all’epoca la Banca d’Italia che svolgeva il ruolo di autorità garante della concorrenza tra istituti creditizi ai sensi della L. n. 287 del 1990, artt. 14 e 20, – in vigore fino al trasferimento dei poteri all’AGCM, con la L. n. 262 del 2005, a far data dal 12 gennaio 2016 – )opera su un piano di tutela pubblica (public enforcement), anche d’ufficio, nell’interesse pubblico ed in posizione di indipendenza, per dare attuazione alle norme che vietano, inter alia, intese disponendo di poteri di accertamento degli illeciti antitrust e poteri sanzionatori di natura amministrativa. In sede civile, invece, operano i giudici ordinari per la tutela di interessi privati (private enforcement) i quali, dunque, su domanda di concorrenti o consumatori, garantiscono la tutela delle posizioni giuridiche soggettive che siano state lese da condotte d’impresa in violazione di quelle norme antitrust, laddove il bene giuridico oggetto di tutela è rappresentato dal “diritto a godere dei benefici della competizione commerciale, costituenti la colonna portante del meccanismo negoziale e della legge della domanda e dell’offerta” (così, Cass. 2 febbraio 2007, n. 2305), potendo dunque, il giudice ordinario, tra l’altro, condannare gli autori di un’infrazione antitrust a risarcire i danni causati.

Nel nostro ordinamento, pertanto, l’azione davanti al giudice civile non deve ritenersi subordinata ad una previa pronuncia dell’Autorità, in virtù dell’autonomia dei rapporti tra azione amministrativa e giudiziaria, ed il provvedimento assunto dall’Autorità Antitrust non è di per sé vincolante, posto che il giudicato amministrativo si forma soltanto sulla legittimità dell’atto assunto dall’Autorità Antitrust.

E tuttavia, le due tutele devono ritenersi comunque tra loro complementari, (come affermato anche in ambito comunitario dal Reg. C.E. n. 1/2003, nel considerando n. 7), posto che la sinergia delle due tutele accresce l’efficacia complessiva della normativa antitrust, mentre in base al principio generale di effettività e di unitarietà dell’ordinamento non potrebbe comunque ritenersi irrilevante il provvedimento del Garante nel giudizio civile. Sulla base di tali elementi è dunque venuto formandosi l’orientamento in base al quale “nel giudizio civile il provvedimento del Garante abbia una elevata attitudine probatoria tanto con riferimento all’accertamento della condotta anticoncorrenziale quanto con riferimento alla idoneità a procurare un danno ai consumatori” (così, ancora, Cassazione civile sez. I, 28/05/2014, n. 11904), definendosi un concetto di “prova privilegiata” che pare recepito anche nell’ordinanza in esame (e già sviluppato, seppur con sfumature diverse, in Cass. 13 febbraio 2009, n. 3640, Cass. 20 giugno 2011, n. 13486 e in Cass. 9 maggio 2012, n. 7039, laddove, in particolare può leggersi come non sia consentito “nel giudizio civile rimettere in discussione i fatti costitutivi dell’affermazione di sussistenza della violazione della normativa in tema di concorrenza in base allo stesso materiale probatorio od alle stesse argomentazioni già disattesi in quella sede”). Ora, esulando dalla nostra analisi una più approfondita valutazione del presente profilo processuale circa la configurabilità nel nostro ordinamento della categoria della “prova privilegiata”, distinta da quella di “prova legale”, si può comunque convergere sul riconoscimento di una “elevata attitudine probatoria” dell’accertamento compiuto dall’Autorità Antitrust.

Alla luce di quanto sopra, assumeremo dunque a base della nostra analisi, considerandole per “cristallizzate” da un punto di vista “sostanziale” ( non altrettanto, come vedremo, potendosi dire sotto un profilo “temporale”) le determinazioni adottate (sin qui e per ora) dalla Autorità Antitrust col Provvedimento 55/2005, con riguardo ai profili anticoncorrenziali dell’intesa ivi contestata all’ABI (quale associazione d’imprese[28]) e riguardante alcune clausole dello schema contrattuale di Condizioni Generali relative alla c.d. “fideiussione omnibus”; ciò detto, non può per altro verso escludersi l’ipotesi che un nuovo accertamento in merito alla legittimità (delle singole clausole) dello schema ABI possa essere teoricamente riaperto – in un eventuale nuovo riesame da parte dell’Autorità Antitrust, ovvero di un giudice ordinario – riconsiderando come illegittime anche quelle clausole che sono state considerate legittime nel Provvedimento (contrariamente, peraltro, a quello che era stato il parere espresso dall’ AGCM con provvedimento del 20 aprile 2005 n. 14251, nonché ad un precedente orientamento della stessa Banca d’Italia del 3 dicembre 1994, n.12[29]), ovvero l’intero schema negoziale, sulla base di una tesi più radicale di nullità dell’intesa in sé stessa in quanto contraria all’art. 2, comma2, lett. a) della Legge Antitrust, a prescindere dai singoli contenuti di essa[30].

Come meglio diremo al successivo paragrafo 5, il riconoscimento della natura di “prova privilegiata” all’accertamento condotto dall’ Autorità Antitrust e, quindi, la sua elevata attitudine probatoria in merito alla natura illecita dell’intesa da essa rilevata come tale, non pare però di per sé poter escludere in toto la necessità di dover provare, di volta in volta, nelle singole fattispecie, la ricorrenza o permanenza di un effettivo e perdurante intento collusivo, avente ad oggetto o per effetto un comportamento anticoncorrenziale, in capo alle imprese coinvolte[31].

4.2 Il perimetro della “nullità” ex art. 2, c.3 della Legge Antitrustin una prospettiva verticale: intese “a monte” ed effetti “a valle”.

L’ordinanza in commento dà conto di assumere come pacifico l’orientamento (sviluppato già alle SS. UU, con la Sentenza n. 2207 del 2005[32]) in base al quale“la legge “antitrust” 10 ottobre 1990, n. 287 detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata, tenuto conto, da un lato, che, di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall’altro, che il cosiddetto contratto “a valle” costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti”. Il consumatore finale che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione “a monte”, “ha dunque a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l’azione di accertamento della nullità dell’intesa e di risarcimento del danno di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 33,”. Ne consegue in particolare che, per effetto di un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza e, dunque, vietata, “a monte”, il consumatore, vedendo svilito il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, potrà invocare la nullità dei “comportamenti” – siano essi di natura negoziale o meno, evitandosi volutamente, qui e per ora, di meglio identificare “cosa” debba ritenersi affetto da tale “nullità”, questo infatti risultando il profilo centrale della nostra vicenda, su cui dovremo soffermarci a breve e pur osservandosi come l’ordinanza in commento, ma del tutto tralatiziamente, la riferisca al “contratto di fideiussione” – che “a valle”, possa costituire lo sbocco dell’intesa vietata e che risulti essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti. Tale orientamento appare in linea con una consolidata, anche se certo non uniforme, elaborazione dottrinale[33] e giurisprudenziale[34]. Occorre peraltro osservare come nella fattispecie le Sezioni Unitegiungessero a ritenere più funzionale agli interessi protetti il ricorso ad una tutela di tipo risarcitorio e restitutorio in base al quale il “contratto” (così, nella fattispecie colà esaminata) cosiddetto “a valle” non può infatti considerarsi come “circostanza negoziale distinta dalla “cospirazione anti-competitiva” e come tale estranea al carattere illecito di questa”, essendo anzi proprio questo “lo strumento attraverso il quale i partecipi alla intesa realizzano il vantaggio che la legge intende inibire. (…) giacché la legge, giova rammentare, vieta gli accordi che abbiano per oggetto oltre che per effetto la distorsione della concorrenza, non vi sarebbe interesse da parte di alcuno ad una dichiarazione di nullità ai sensi dell’art 33 della legge n 287 del 1990, la cui ratio è di togliere alla volontà anticoncorrenziale “a monte” ogni funzione di copertura formale dei comportamenti “a valle”. E dunque di impedire il conseguimento del frutto della intesa consentendo anche nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei suoi effetti”.

Ciò detto, deve quindi ritenersi tuttora non certo esaurita la complessa questione dei fondamenti tecnico-giuridici a supporto della tesi della “nullità derivata”, in quella che appare una non facile opera di applicazione, alla fattispecie in questione, sia dello schema civilistico della nullità derivata in virtù di “collegamento negoziale” che di quello della nullità per “illiceità della causa” ex art. 1418 comma 1 c.c.. Parrebbe anzi qui doversi utilmente richiamare quello che oggi emerge come il principio generale di non interferenza tra regole di comportamento e regole di validità negoziale, laddove la violazione delle prime giustifica solo l’adozione di rimedi di natura risarcitoria[35]; e ciò su base individuale – anche in virtù di una elastica applicazione pretoria della legittimazione attiva per effetto dell’articolo 33 della legge n. 287 del 1990 come confermato da Cass. Civ. SS.UU. 2207 del 2005 – ovvero in forma collettiva ex articolo 140-bis D.Lgs. 206/2005.

Il disconoscimento dell’accesso per i clienti di una banca alla sanzione della nullità prevista dall’articolo 33 della legge n. 287 del 1990 – nella forma della “nullità derivata” – risulta da ultimo accolto e ben argomentato in una recente pronuncia di merito avente ad oggetto fattispecie per certi versi analoga[36].

Anche a voler comunque ritenere fenomeno coerente con i principi regolatori della materia (al di là dunque di una pura ricostruzione civilistica), quello del “contagio” della illiceità, in una dimensione verticale, dall’intesa illecita “a monte”, agli effetti di essa che si determinano “a valle” – e quindi quello della “nullità derivata”, o “a cascata” rispetto a quello ritenuto più adeguato agli interessi del consumatore, della tutela risarcitoria o restitutoria[37] – occorre ora concentrarsi a delimitare esattamente il perimetro oggettivo di tale “contagio”, in una dimensione orizzontale, questo venendo a costituire, nella situazione sottoposta al nostro esame, tema centrale della vicenda; tema sin qui da noi volutamente eluso, così come peraltro eluso – come già detto- dalla stessa Suprema Corte nell’ordinanza in commento, non apparendo esso in alcun modo funzionale e rilevante rispetto all’argomentazione da essa sviluppata.

4.3 Il perimetro della “nullità” ex art. 2, c.3 della Legge Antitrustin una prospettiva “orizzontale”: nullità totale o nullità parziale.

Come già ampiamente anticipato, dalla lettura dell’ordinanza in commento emerge come la asserita “nullità”, nella prospettazione invocata dal ricorrente, dovrebbe ritenersi pacificamente riferita al “contratto di fideiussione”; nello sviluppare la sua argomentazione incentrata esclusivamente sul tema di natura pregiudiziale relativo all’applicazione temporale della normativa antitrust, la Suprema Corte, assume dunque “laicamente” senza minimamente vagliarla nel merito – in quanto in nessun modo funzionale o relativa al suo argomentare – una tale impostazione. Impostazione che può dunque ritenersi frutto, in primis, della prospettazione avanzata nella fattispecie dal ricorrente, oltreché di quella che appare una acritica reiterazione di formule tralatizie – in cui la “nullità derivata” viene spesso e tradizionalmente riferita, ai “contratti” o “negozi” posti “a valle” dell’intesa vietata “a monte”. Ora, questo affermazione, così formulata – talora, anche in via ellittica o esemplificativa (se non semplicistica) – se non meglio sviluppata risulta, nel caso di specie, totalmente fuorviante negli esiti che potrebbero trarsene[38].

Occorre allora e innanzitutto sgombrare il campo da quello che potrebbe altrimenti apparire un vincolo analitico scontato e necessario, che cioè la “nullità derivata” debba – se del caso e al ricorrere dei suoi presupposti – necessariamente riguardare “contratti” o “negozi” posti a valle dell’intesa vietata a monte; una tale impostazione appare del tutto priva di fondamento, non trovando alcun riscontro nella materia. Al contrario, la stessa Corte correttamente riconosce come “allorché dispone che siano nulle ad ogni effetto le “intese” fra imprese che abbiano ad oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante, non ha inteso riferirsi solo alle “intese” in quanto contratti in senso tecnico ovvero negozi giuridici consistenti in manifestazioni di volontà’ tendenti a realizzare una funzione specifica attraverso un particolare “voluto”. Il legislatore – infatti – con la suddetta disposizione normativa ha inteso – in realtà ed in senso più ampio proibire il fatto della distorsione della concorrenza, in quanto si renda conseguenza di un perseguito obiettivo di coordinare, verso un comune interesse, le attività economiche; il che può essere il frutto anche di comportamenti “non contrattuali” o “non negoziali”. Il principio è già ben sviluppato in risalenti orientamenti della stessa Corte (v. Cass., Sez. I, 1 febbraio 1999, n. 827), laddove può leggersi come “la nozione di “intesa” è oggettiva e, come si è detto, tipicamente comportamentale anziché formale, avente al centro l’effettività del contenuto anticoncorrenziale ovvero l’effettività di un atteggiamento comunque realizzato che tende a sostituire la competizione che la concorrenza comporta con una collaborazione pratica”. E ancora, più recentemente, (v. Cassazione, civile Sezioni Unite, 4 febbraio 2005, n. 2207): “L’art 2 della legge antitrust chiarisce che “sono considerati intese” una serie di comportamenti, come gli accordi, le pratiche concordate ed addirittura le deliberazioni di consorzi ed associazioni di imprese. Essi sono vietati se hanno “per oggetto o per effetto di ridurre o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza……” Pertanto se al di là della loro veste giuridico formale, tali attività in realtà mirano ad eliminare ovvero addirittura eliminano o riducono la autonomia di mercato dei soggetti che le compiono, esse integrano l’illecito di cui si tratta.”

Ora, tali considerazioni ermeneutiche sviluppate con riguardo alle intese “a monte” possono ben traslarsi quando si considerino i “comportamenti” o gli “effetti” posti a valle; comportamenti o effetti che quindi potranno derivare o essere relativi a situazioni di natura negoziale (tipicamente) ma non solo. Una prima conclusione ci pare dunque ben fondata per consentirci di superare quello che, altrimenti, avrebbe potuto porsi come un rigido vincolo analitico che, nella nostra fattispecie, sarebbe risultato quanto mai determinante e fuorviante nelle conclusioni che potrebbero derivarne: oggetto di valutazione in relazione al perimetro della nullità posta “a valle” di un’intesa vietata, non devono dunque essere, solo e necessariamente, “contratti” o “negozi”, posto che – ben potendo essere anche (addirittura) comportamenti o atti unilaterali – potranno ben esserlo anche singoli elementi negoziali (rectius, clausole).

Ed è questa la situazione che emerge allora chiarissima dall’esame del Provvedimento alla base dell’ordinanza[39]. Esso infatti ben chiarisce come “Ai fini della tutela della concorrenza occorre accertare che l’inserimento nello schema contrattuale uniforme predisposto dall’Associazione di categoria di talune clausole, contenenti per il fideiussore oneri diversi da quelli derivanti dalla disciplina ordinaria, non ostacoli la pattuizione di migliori clausole contrattuali, inducendo le banche a uniformarsi a uno standard negoziale che prevede una deteriore disciplina contrattuale della posizione del garante” (evidenza aggiunta). Tutta l’istruttoria svolta dalla BdI e le conseguenti iniziative adottate da ABI sulla scorta di quella, hanno chiarissimamente avuto ad oggetto singole clausole del modello di fideiussione omnibus, alcune delle quali (con valutazione che qui assumeremo come “cristallizzata” nei suoi profili sostanziali) sono state ritenute conformi alla disciplina antitrust, altre contrarie ad essa: “L’esame istruttorio si è concentrato sulle clausole dello schema che potrebbero comportare effetti anticoncorrenzialiin seguito a un’eventuale adozione generalizzata da parte delle banche, in mancanza di un equilibrato contemperamento degli interessi delle parti.(…)”. L’articolo n. 2 della legge n. 287/90 vieta “le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante (…)”. “Le verifiche compiute nel corso dell’istruttoria hanno mostrato, con riferimento alle clausole esaminate, la sostanziale uniformità dei contratti utilizzati dalle banche rispetto allo schema standard dell’ABI. (…)”. “La standardizzazione contrattuale non produce necessariamente effetti anticoncorrenziali. Essa può risultare compatibile con le regole di concorrenza a condizione che gli schemi uniformi non ostacolino la possibilità di diversificazione del prodotto offerto, anche attraverso la diffusione di clausole che, fissando condizioni contrattuali incidenti su aspetti significativi del rapporto negoziale, impediscano un equilibrato contemperamento degli interessi delle parti. (…)”. “In questo senso, non è ingiustificato l’onere per il fideiussore determinato dalla presenza nello schema ABI della clausola “a prima richiesta”. (…)2.“Viceversa, per la clausola relativa alla rinuncia del fideiussore ai termini di cui all’art. 1957 cod. civ. e per le c.d. clausole di “sopravvivenza” della fideiussione non sono emersi elementi che dimostrino l’esistenza di un legame di funzionalità altrettanto stretto. Tali clausole, infatti, hanno lo scopo precipuo di addossare al fideiussore le conseguenze negative derivanti dall’inosservanza degli obblighi di diligenza della banca ovvero dall’invalidità o dall’inefficacia dell’obbligazione principale e degli atti estintivi della stessa.” In conclusione, il citato provvedimento disponeva dunque che:“a) gli articoli 2, 6 e 8 dello schema contrattuale predisposto dall’ABI per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie (fideiussione omnibus) contengono disposizioni che, nella misura in cui vengano applicatein modo uniforme, sono in contrasto con l’articolo 2, comma 2, lettera a), della legge n. 287/90; b) le altre disposizioni dello schema contrattuale non risultano lesive della concorrenza.”(evidenza aggiunta).

Possiamo dunque concludere sul punto ritenendo come risulti del tutto coerente con il quadro regolatorio in esame che la nullità derivante da una situazione di illegittimità anti-competitiva possa ben interessare singoli elementi negoziali, “clausole”[40], da intendersi secondo l’insegnamento tradizionale come singoli precetti dell’autonomia privata dotati di requisiti di individualità rispetto al resto del contratto[41].

Ora, tornando alla pronuncia in commento, essa stessa ben chiarisce (richiamandosi alle SS.UU., Sentenza n. 2207 del 2005) come “la legge “antitrust” 10 ottobre 1990, n. 287 detta norme a tutela della libertà di concorrenza (…) Pertanto, qualsiasi forma di distorsione della competizione di mercato, in qualunque forma essa venga posta in essere, costituisce comportamento rilevante ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 2 della legge antitrust. La stessa Corte, poi, riconosce come tali accertamenti sono stati svolti dall’Autorità indipendente in sede amministrativa e che essi hanno formato oggetto di prescrizione per la loro rimozione. La Corte pare dunque assumere acriticamente come pacifico (in quanto non funzionale o rilevante al fini della sua analisi) che oggetto del suo esame – benché con particolare riguardo all’indagine su cui essa essenzialmente si concentra, e cioè il profilo temporale dell’accertamento rispetto a quello dell’intesa censurata – sia “l’accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali vietate dalla L. n. 287 del 1990, art. 2, in relazione alla stipulazione “a valle” di contratti o negozi che costituiscano l’applicazione di quelle intese illecite concluse “a monte” (evidenza aggiunta). Dall’esame del Provvedimento alla base di tutta la vicenda, nei termini sopra sommariamente richiamati, appare invece evidente come oggetto di istruttoria, valutazione e decisione siano state alcune singole clausole in relazione alle quali – singolarmente valutate – è stata riscontrata una “forma di distorsione della competizione di mercato” che come tale “costituisce comportamento rilevante ai fini dell’accertamento della violazione dell’art. 2 della legge antitrust”. Ne dovrebbe allora conseguire che, semmai, la nullità – ove risultassero verificati gli ulteriori presupposti probatori meglio indicati al successivo paragrafo – potrebbe colpire solo le singole clausole in questione, determinandosi dunque un fenomeno di “nullità parziale” del contratto, situazione ben conosciuta nel nostro ordinamento civilistico e prevista dall’ art. 1419 c.c . E ciò, si badi, non tanto e non solo (come sin qui rilevato nella prima dottrina) per un principio di “adeguatezza”, “congruità” o di “proporzionalità” o, ancora, di “efficienza” della reazione dell’ordinamento alla violazione della normativa antitrust, ovvero ancora in ossequio alla valutazione di equilibri di sistema. Ma nel rispetto del corretto sviluppo del percorso argomentativo e logico-giuridico seguito dalla Corte stessa, coerentemente “ai principi e alle disposizioni regolative della materia” oltreché ai principi generali che presiedono al nostro ordinamento civilistico, in base al quale la nullità parziale si pone come regola generale, in funzione di conservazione del contratto e, solo in via di eccezione, quella nullità potrà poi estendersi a tutto il contratto. Ne consegue che in applicazione delle regole generali in materia antitrust, come conseguenza legale dell’intesa illecita (riguardante solo alcune clausole) avvenuta a “monte”, nulle saranno da ritenersi, semmai, le singole clausole che a “valle” rappresentino esecuzione di quell’intesa vietata. E da questo punto di vista parrebbe assumere rilevanza ermeneutica non sottovalutabile la circostanza che la/le clausola/e in questione sia/siano o meno incorporata/e in un contratto di fideiussione qualificabile a-tecnicamente come “omnibus”, con ciò dovendosi intendere una fideiussione modellata sullo schema ABI e che contenga, quindi, almeno sostanzialmente, tutte (o gran parte) delle clausole di quello; in assenza di ciò risulterebbe assai dubbia una valutazione di antigiuridicità, “stand alone”, anche solo di singole clausole, pur conformi a quelle del modello ABI, a prescindere dal contesto negoziale in cui risultino di fatto inserite, in particolare ove esso risulti estraneo al fenomeno della contrattazione standard qui considerato, o comunque frutto di una negoziazione intervenuta tra le parti.

Sotto un profilo civilistico potrebbe, come detto, conseguirne al più una situazione di “nullità parziale del contratto”, situazione a cui potrebbe poi, almeno in teoria, conseguire una nullità integrale – ma in via eccezionale, in base ai principi generali – solo al ricorrere di certi presupposti incidenti sulla volontà delle parti che, nella fattispecie come ora diremo, appaiono del tutto inconferenti. Nella fattispecie, infatti, al fine di sostenere l’estensione della nullità di singole clausole all’intero contratto, non pare qui in alcun modo invocabile la disciplina civilistica di natura legale prevista dall’art. 1419 c.c. che si basa sulla ricostruzione della volontà delle parti , ove si provi – con un giudizio di prognosi postuma che tenga conto dell’originaria ragione giustificativa del contratto – che esse non lo avrebbero concluso in assenza delle clausole colpite da nullità; è peraltro evidente come, nella fattispecie tale circostanza è del tutto non plausibile, sia in relazione alla banca che al cliente. E’ infatti più che evidente come la prima avrebbe certamente accettato anche una fideiussione dal contenuto depurato dalle clausole in questione, atteso che l’elemento qualificante dello schema negoziale che ne individua l’”originaria ragione giustificativa” idonea a realizzare le finalità a cui esso era preordinato è da individuarsi nell’implicito effetto di rafforzamento del credito garantito fornito dall’obbligazione accessoria assunta dal fideiussore, a prescindere da come questa possa esser regolata (più o meno incisivamente); con riguardo al secondo, deve evidentemente escludersi, anche solo teoricamente, la possibilità che la sua volontà nel prestare la fideiussione avrebbe in alcun modo potuto esser minata dalla assenza delle clausole in questione, atteso che si tratta di clausole dal contenuto per lui peggiorativo rispetto al modello legale e, proprio per questo, ritenute anticoncorrenziali.

5. Il presupposto indefettibile del giudizio di illiceità “antitrust” che non può essere eluso in sede giurisdizionale: l’attualità/permanenza di un intento collusivo tra le banche.

Come già accennato sopra, il riconoscimento della natura di “prova privilegiata” all’accertamento condotto dall’ Autorità Antitrust e, quindi, la sua elevata attitudine probatoria in merito alla natura “sostanzialmente” illecita dell’intesa da essa rilevata come tale, non pare però di per sé poter escludere in toto la necessità di dover provare, di volta in volta, nelle singole fattispecie, la ricorrenza o permanenza nel tempo di un effettivo e perdurante intento collusivo in capo alle banche coinvolte[42], (l’”intesa”), avente ad oggetto o per effetto i censurati effetti anticoncorrenziali. In assenza di ciò dovrebbe altrimenti giungersi alla conclusione del tutto paradossale che l’accertamento avvenuto nel 2005 in merito all’esistenza della intesa collusiva tra banche (per il tramite della loro associazione di categoria) debba valere una tantum, con effetti in aetenum e con la conseguenza pratica, allora, di espungere totalmente e per sempre dall’ordinamento civilistico le clausole “incriminate”. Evidentemente questa conclusione appare contraria alla stessa valutazione espressa dall’Autorità Garante nel parere che fu reso nel 2005, laddove essa affermava come “la valutazione concorrenziale dello schema in esame non riposa (…) sulla constatazione della sua difformità dal regime civilistico, profilo questo irrilevante dal punto di vista antitrust”[43]. E in tal senso lo stesso Provvedimento ben riconosce come le clausole contrattuali siano, di per loro, del tutto lecite in quanto relative a norme derogabili e che l’effetto anticoncorrenziale fosse determinato dal fatto che di esse – risultando inserite in uno schema negoziale predisposto da una associazione di categoria, spia ciò di una collusione intervenuta tra banche – si potesse presumerne una applicazione in maniera uniforme.

Nell’ambito di un procedimento giurisdizionale che voglia dunque richiamarsi oggi alle conclusioni che furono consegnate al Provvedimento del 2005, non potrà quindi prescindersi dalla valutazione circa la effettiva, attuale e perdurante esistenza del comportamento collusivo antitrust ( l’”intesa” cioè) che era alla base di quello ( anche a voler dare per “cristallizzato” il giudizio di antigiuridicità in relazione al suo contenuto “sostanziale” e, cioè, gli effetti anti-competitivi derivanti da una applicazione uniforme delle “famigerate” clausole ). Come emerge bene dal parere dell’Autorità Garante[44], richiamato sul punto letteralmente dal Provvedimento (v. paragrafo 50), il presupposto alla base delle conclusioni dell’istruttoria era infatti ben individuato nella circostanza che “l’ampia diffusione delle modalità contrattuali oggetto dell’istruttoria, già presenti in precedenti contratti uniformi predisposti dall’ABI stessa, non può essere considerato come un fenomeno “spontaneo” del mercato, ma piuttosto come il frutto dell’intesa stessa esistente tra le banche sul tema della contrattualistica comune”.( Evidenza aggiunta).

E proprio alla esigenza di un corretto assolvimento dell’onere della prova si richiama il Tribunale di Milano nella già citata, recente sentenza[45] che – in situazione del tutto analoga a quella che è stata oggetto di esame nella controversia sfociata nell’ordinanza della Cassazione in commento – ha rigettato un’opposizione ad un decreto ingiuntivo in cui l’opponente deduceva la nullità di un contratto di fideiussione in quanto contenente le clausole “derivate dall’intesa concorrenzialmente illecita in violazione dell’art. 2, comma 2, lett. a) L. 287/90”; proprio per effetto del mancato assolvimento di quell’onere, posto che “deve convenirsi che secondo le regole proprie del giudizio civile l’onere probatorio volto a dare fondamento alla contestazione di intesa in relazione al disposto dell’art. 2 L. 287/90 non può che ricadere sulla parte che ha formulato detta contestazione”. Come ben chiarisce il giudice di merito, la mera produzione in giudizio del Provvedimento non può dunque ritenersi idonea a documentare l’esistenza di una perdurante intesa tra le banche, senza che vengano dedotti altri elementi probatori di fatto; in particolare, la sola circostanza che un contratto stipulato da una banca con un cliente contenga quelle clausole “incriminate”, “non può ritenersi di per sé stesso elemento sufficiente a dare effettivo conto, sia pure in termini indiziari, della sussistenza di un’intesa rilevante nella sua estensione e pervasività sul piano antitrust”.[46] Il fatto poi che il Provvedimento si chiudesse con un richiamo all’ABI di emendare lo schema contrattuale dalle clausole censurate, in accoglimento della valutazione compiuta dalla Autorità Antitrust -. Come poi di fatto avvenuto – costituisce anzi, ad avviso del Tribunale di Milano, “una presunzione del tutto contraria alle affermazioni di parte opponente”. Sotto il profilo probatorio, dunque, ci pare di poter ritenere assai discutibile una estensione “automatica” della nullità alle situazioni negoziali successive all’accertamento del 2005, dovendosi anzi ritenere che la prova induttiva dell’intesa la quale, semmai, poteva valere per il periodo precedente all’accertamento, debba ritenersi ragionevolmente venuta meno dopo che questo intervenne nel corso del 2005 a sanzionare il comportamento delle banche; salva la prova contraria[47], può infatti ben presumersi che da quel momento, memori e consapevoli delle pesanti ricadute seguite alla precedente istruttoria, le banche si siano accuratamente astenute dal procedere ulteriormente a qualunque attività di coordinamento del loro comportamento sul mercato – ivi compreso quello relativo alla scelta della contrattualistica da adottare nei rapporti con la clientela – affidandolo solo ad autonome e indipendenti valutazioni.

La prova da dare in giudizio, dovrebbe dunque e necessariamente avere ad oggetto, in primis, certamente, la verifica del dato oggettivo consistente nell’ utilizzo tuttora “uniforme” di quelle clausole tra le banche italiane; ma ciò non pare evidentemente sufficiente, non potendosi prescindere dalla ulteriore verifica della circostanza che tale eventuale “uniformità” sia il frutto di una attuale e perdurante “intesa esistente tra le banche”, e non il mero portato della reiterazione di modelli ormai consolidatisi sul mercato e rispondenti a legittime rationes negoziali, in maniera del tutto spontanea e non coordinata tra le banche. Certo, occorre tener conto dei limiti individuati dalla giurisprudenza di legittimità in considerazione delle asimmetrie informative che, in materia antitrust, potrebbero ostacolare il raggiungimento di una piena prova[48]; e, da questo punto di vista, deve allora ritenersi come solo una nuova istruttoria della Autorità Garante (eventualmente sollecitata dall’attore) potrebbe efficacemente intervenire a verificare come tuttora esistente il presupposto indefettibile di un giudizio di illegittimità “antitrust”; una perdurante “intesa” intercorrente tra le banche. E solo così, peraltro, potrebbe interrompersi quella che, altrimenti, rischia di risultare la contraria presunzione di una ininterrotta vigenza dell’intesa verificata nel lontano 2005, in cui potrebbe facilmente adagiarsi la giurisprudenza, magari a seguito della sola, forse scontata, verifica fattuale circa il mero utilizzo tuttora diffuso di quelle clausole sul mercato.

 


[1] Ordinanza della Corte di Cassazione, Sez. I, n. 29810 del 2017, in dirittobancario.it, disponibile al seguente link: http://www.dirittobancario.it/sites/default/files/allegati/cassazione_civile_sez._i_12_dicembre_2017_n._29810.pdf.

[2] “Sono nulle le fideiussioni prestate a garanzia delle operazioni bancarie (c.d. fideiussioni omnibus) conformi allo schema di contratto predisposto dall’ABI (in via segnata, alla luce del provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005 di Banca d’Italia, le fideiussioni che contengono la sostanza delle seguenti clausole: «il fideiussore è tenuto a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo»; «qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate»; «i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall’art. 1957 cod. civ., che si intende derogato»), così A. Mager in Il Caso.it. Sostanzialmente più conforme all’ordinanza pare la massima leggibile in Foro It., 2018, 1, 1, 152, secondo la quale “La nullità del contratto “a valle” di un’intesa restrittiva della concorrenza (relativa, nella specie, alle norme bancarie uniformi ABI in materia di fideiussioni omnibus) può ricorrere anche per il contratto stipulato prima dell’accertamento dell’illiceità ad opera dell’autorità preposta all’applicazione della disciplina antitrust, purché detto contratto sia stato posto in essere dopo l’intesa stessa e concorra a realizzare la distorsione della concorrenza”.

[3] V. B. Borrillo, La nullità della fideiussione omnibus per violazione della normativa antitrust, in Riv. Dir. Bancario, n. 3/2018, p. 8, secondo la quale “Il dictumdella Corte è inequivocabile: la potenziale nullità di tutti i contratti stipulati a valle che costituiscono applicazione di intese illecite. In pratica, tutte le fideiussioni omnibus stipulate successivamente all’entrata in vigore della legge antitrust, attuative di comportamenti concertati vietati, sono da considerarsi nulle anche se stipulate prima dell’accertamento della violazione della disciplina antitrust compiuto dall’Autorità garante”; N. Cipriani e G. Cazzetta, Le clausole “in deroga” nella fideiussione, in Riv. Dir. Bancario, n7/2018, secondo i quali, nonostante una più cauta ricostruzione della pronuncia della Cassazione, “L’impatto della sentenza sulla più diffusa prassi bancaria non può che essere dirompente…”.

[4] Tribunale di Padova, 05 Giugno 2018, così massimata: “Il mutamento giurisprudenziale di cui alla sentenza della Cassazione n. 29810 del 2017, che sancisce la nullità delle fideiussioni omnibus quando dalla loro conformità al modello ABI ne derivi una violazione della normativa antitrust, costituisce circostanza idonea per l’accoglimento della richiesta di sospensione della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo opposto in relazione alla posizione dei fideiussori” (così in ilcaso.it); vedasi altresì la recentissima ordinanza del Tribunale di Roma del 26 luglio 2018 che dispone a favore del garante rigettando la richiesta di provvisoria esecutività con riguardo ad una fideiussione stipulata nel 2006, dandosi della pronuncia della Cassazione una lettura assai radicale: “con ordinanza n. 29810 del 2017, la Corte di Cassazione ha affermato il principio in base al quale sono nulli, per violazione dell’art. 2 della l. n. 287 del 1990 (legge antitrust) – il quale dispone la nullità ad ogni effetto delle intese fra imprese che abbiano ad oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante – i contratti di fideiussione che contengano le norme bancarie uniformi predisposte dall’ABI, e ciò in quanto tale applicazione avrebbe come conseguenza la concretizzazione delle summenzionate vietate intese”.

[5] Come noto, il d.l. 1/2012 convertito, con modifiche, dalla l. 24 marzo 2012, n. 27 e recante «Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività», ha modificato il comma 2 dell’art. 33 della l. 287/90, che, nella nuova versione, prevede che «le azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi davanti al tribunale competente per territorio presso cui è istituita la sezione specializzata di cui all’articolo 1 del decreto legislativo 26 giugno 2003, n. 168, e successive modificazioni».

[6] Trib. Milano, Sezione specializzata in materia di impresa, sent. n.7796/2016.

[7] Trib. Venezia, Sezione specializzata in materia di impresa, 6 giugno 2016, sent. n. 1447/2016, in Foro pad., 2017, p. 192 ss., con nota di G. Sicchiero, Sulla nullità della deroga all’art. 1957 c.c. (e di altre clausole delle fideiussioni omnibus) per violazione della disciplina antitrust (art. 2 l. n. 287/1990).

[8] In giurisprudenza il tema dell’adozione da parte delle associate all’ABI di norme bancarie uniformi (n.b.u.) fissate da quest’ultima e, quindi, della legittimità della conseguente attività negoziale, manifesta orientamenti altalenanti: il tema emerge inizialmente, per quanto incidentalmente, in una sentenza del Tribunale di Genova del 21 maggio 1996, (in Foro it., Rep. 1998, voce “Contratti bancari”, nn. 31 e 33 ed in Giur. it., 1997, I, 2, p. 167, 1998, II, p. 97 ss), pur non prendendosi esplicita posizione a riguardo; il Tribunale di Alba, con una nota sentenza del 12 gennaio 1995, in Giur. it., 1996, I, p. 212 ss., si pronunciava invece per la piena validità del contratto a valle, laddove, all’opposto, il Tribunale di Roma, con sentenza del 12 settembre 1997, n. 4071, ha affermato la tendenziale nullità, ma circoscritta alle singole clausole riproduttive delle n.b.u., in applicazione dell’art. 1419 cod. civ.

[9] “Le imprese possono comunicare all’Autorità le intese intercorse. Se l’Autorità non avvia l’istruttoria di cui all’art. 14 entro centoventi giorni dalla comunicazione non può più procedere a detta istruttoria, fatto salvo il caso di comunicazioni incomplete o non veritiere.”

[10] Si noti come la Banca d’Italia, con il Provvedimento n. 12 del 1994, si sia già espressa sul tema della fideiussione omnibus predisposta dall’ABI e rientrante tra le n.b.u. (queste erano l’oggetto del provvedimento). Nel citato provvedimento la Banca d’Italia ordinava all’ABI di modificare le n.b.u. in quanto contenenti clausole in contrasto con l’articolo 2 comma 2 lettera a) della legge n. 287/1990.

[11] Le modifiche apportate dall’ABI hanno riguardato i seguenti temi “– con riferimento alla garanzia prestata da un fideiussore a favore di un altro fideiussore, è stata prevista l’applicazione dell’art. 1948 del cod. civ. nei rapporti tra garante e banca. Ciò implica che il fideiussore del fideiussore non sia obbligato verso il creditore, se non nel caso in cui il debitore principale e tutti i fideiussori di questo siano insolventi o siano liberati perché incapaci; − in materia di responsabilità del fideiussore, è stato precisato che la deroga ai termini dell’art. 1957 cod. civ. riguarda soltanto l’indicazione dei tempi per proporre le istanze nei confronti del debitore principale; − per quanto concerne le comunicazioni della banca al fideiussore circa il rapporto con il debitore principale, si è previsto che la risoluzione del contratto della banca con il debitore sia sempre resa nota al fideiussore.” (così il Provvedimento paragrafo 10).

[12] Provvedimento della Banca d’Italia n.236/A.

[13] Segnatamente il 1° settembre 2004 la Banca d’Italia ha inviato una richiesta di informazioni ad alcune banche, nella medesima data l’ABI ha depositato una prima memoria difensiva seguita da una seconda memoria difensiva 28 dicembre 2004 e poi da un’ultima memoria 25 marzo 2005.

[14] Cfr. Parere reso ai sensi dell’art. 20 (L. n. 287 del 1990) dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, 1584-ABI: condizioni generali di contratto per la fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie, Provvedimento n. 14251, Bollettino n. 17 del 16 maggio 2005.

[15] Cfr. Provvedimento paragrafo 12.

[16] Cfr. Provvedimento paragrafo 1.

[17] Si evidenzia come nelle conclusioni del citato parere, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato affermi “si ritiene che lo schema negoziale in esame presenti clausole idonee a restringere la concorrenza, ai sensi dell’articolo 2, comma 2, della legge n. 287/90.”. Segnatamente, l’AGCM ha ritenuto che alcune clausole presenti nello Schema ABI (2, 6, 7, 8 e 13) fossero in contrasto con la richiamata normativa anticoncorrenziale.

[18] Dispositivo del Provvedimento.

[19] Articoli 2, 6 e 8 dello Schema ABI.

[20] Cfr. paragrafo 56 Provvedimento della Banca d’Italia.

[21] La Banca d’Italia ha effettuato un’analisi a campione dei testi contrattuali utilizzati da 7 banche.

[22] Si noti come tale conclusione di uniformità sia differente rispetto a quanto argomentato dall’ABI la quale rilevava come, ad esempio, nel 73% dei finanziamenti concessi a società non finanziarie assistiti da fideiussione omnibus la banca creditrice si avvale di schemi contrattuali differenti rispetto allo Schema ABI. L’associazione ha formulato anche altre difese ben riassunte nel Provvedimento al quale si rinvia sul punto – paragrafi da 26 a 42.

[23] Paragrafo 78 del Provvedimento.

[24] Cfr. Provvedimento paragrafo 50.

[25] Il Provvedimento al paragrafo 81, a cui si rinvia, riporta i motivi per cui tale clausola sia funzionale a permettere l’accesso al credito.

[26] Ci si riferisce all’accordo internazionale chiamato “International Convergence of Capital Measurement and Capital Standards” firmato a Basilea nel 2004.

[27] Cfr. comunicazione ABI del 26 settembre 2005, Prot. LG/004231.

[28] Sul punto, cfr. il paragrafo 17 del Provvedimento AGCM del 20 aprile 2005, 14251.

[29] Pubblicato in Banca, borsa e tit., 1995, II,393.

[30] V. in tal senso G. Sicchiero, op. cit.

[31] In Cass. n. 11904 del 28 maggio 2014, si afferma un principio di presunzione di causalità tra l’illecito antitrust e il danno che si asserisce patito dai consumatori.

[32] V. Cassazione Civile Sezioni Unite, 4 febbraio 2005, n. 2207 in iusexplorer.it.

[33] Non rileva ai nostri fini dar conto qui più diffusamente dei diversi orientamenti e, delle diverse sfumature, che sul tema possono individuarsi nella dottrina specialistica, potendoci limitare ad osservare come a fronte di un orientamento che si esprime convintamente nel senso di una nullità “derivata” che dalla intesa “a monte” si estende ai contratti “a valle”, (in tal senso G. Vettori, Contratto e concorrenza, in Riv. dir. priv., 2004, p. 787 ss.; C. Castronovo, Antitruste abuso di responsabilità civile, in Danno resp., 2004, p. 469 ss.; ID., Responsabilità civile antitrust: balocchi e profumi, ivi, p. 1165 ss.; ID., Sezioni più unite che antitrust, in Eur. dir. priv., 2005, p. 435 ss.; C. Lo Surdo, Il diritto della concorrenza tra vecchie e nuove nullità, in Banca borsa tit. cred., 2004, I, p. 175 ss.; R. Pardolesi, Cartello e contratti dei consumatori: da Leibniz a Sansone?, in Foro it., 2004, I, p. 469 ss.; F. Longobucco, Violazione di norme antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione «a valle», Napoli, 2009, p. 21 ss.), vi siano autori più cauti, soprattutto a fronte della preoccupazione che un tale rimedio possa rivelarsi talora controproducente per il consumatore, in tal senso G. Oppo, Costituzione e diritto privato nella tutela della concorrenza, in Riv. dir. civ., 1993, II, p. 100. Nello stesso senso, tra gli altri, M. Libertini, Il ruolo del giudice nell’applicazione delle norme antitrust, in Giur. comm., 1998, I, p. 649; ID., Ancóra sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust, in Danno resp., 1998, I, p. 933 ss.;ID., Ancóra sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust (II), ivi, p. 246 ss.; ID., Le azioni civili del consumatore contro gli illeciti antitrust, in Corr. giur., 2005, p. 1093ss.; G. Olivieri, Iniziativa economica e mercato nel pensiero di Giorgio Oppo, in Riv. dir. civ., 2012, p. 529. Sul punto v. B. Meoli, «Gli interessi bancari tra oneri di forma e disposizioni antitrust», in Nuova giur civ. comm., 2003, I, p. 396.

[34] V. Cass., 22 maggio 2013, n. 12551; Cass., 20 giugno 2001, n. 887, ivi; Cass., 1° febbraio 1999, n. 827, in Giur. it., 2000, p. 939 ss. Nella giurisprudenza di merito, v. App. Brescia, 29 gennaio 2000, in Giur. it., 2000, p. 1876 ss., sentenza poi cassata da Cass., 11 giugno 2003, n. 9384, in Giust. civ., 2004, I, p. 275 (v. infra). Nonostante possa segnalarsi anche un orientamento contrario, benché precedente alle SS.UU. del 2005: Cass., 11 giugno 2003, n. 9384; Cass., 9 dicembre 2002, n. 17475, in Riv. dir. comm., 2003, II, p. 325. Nella giurisprudenza di merito, T.A.R. Lazio, 10 marzo 2003, n. 1790, in Foro amm. T.A.R., 2003, p. 906 ss.; Trib. Torino, 16 ottobre 1997, in Banca borsa tit. cred., 2001, II, p. 87; Tribunale di Genova, 21 maggio 1996, in Banca, borsa e tit. di cred., 1998, II, p. 97 ss, pur non prendendosi esplicita posizione a riguardo; il Tribunale di Alba, con sentenza del 12 gennaio 1995, in Giur. it., 1996, I, p. 212 ss., si pronunciava invece per la piena validità del contratto a valle, laddove, all’opposto, il Tribunale di Roma, con sentenza del 12 settembre 1997, n. 4071, ha affermato la tendenziale nullità ma circoscritta alle singole clausole riproduttive delle n.b.u., in applicazione dell’art. 1419 cod. civ.

[35] Vedi in particolare Cass. Civ. SS.UU. 19/9/2007 n. 26724.

[36] Vedi Tribunale di Milano sentenza n. 9708 del 27/9/2017 riguardante la validità di contratti di mutuo e leasing in relazione al procedimento antitrust aperto dalla Commissione Europea nei confronti di quattro banche per la “manipolazione” dell’indice Euribor.

[37] Nella evoluzione della giurisprudenza di legittimità in materia e in quella comunitaria (ove può rinviarsi al leading caseCourage” della Corte di Giustizia CE, 20 settembre 2001, causa C-453/99, in Foro it., 2002, IV, p. 7 ss., con nota di A. PALMIERI e R. PARDOLESI) si è in effetti assistito ad un crescente favore per il riconoscimento di una tutela di tipo risarcitorio – ex art. 33 della L. 287/90 – rispetto a quella derivante della “nullità derivata”, essenzialmente in considerazione della sua attitudine a garantire ai consumatori una tutela più effettiva nelle fattispecie ivi esaminate (relative a pratiche concordate e intese collusive tra assicuratori nella determinazione dei premi delle polizze). Nella fattispecie in esame, invece, evidentemente, il rimedio della nullità risulterebbe quello massimamente efficace a garantire in capo al consumatore – fideiussore – una tutela effettiva, rispetto ad una tutela risarcitoria che di per sé risulterebbe di difficile applicazione ed efficacia, atteso che non viene contestata qui una intesa collusiva che abbia inciso su prezzi o condizioni economiche, ma sulla “libertà di scelta” del consumatore, violazione la cui quantificazione in termini di “danno” causalmente provabile appare assai difficile. Da ciò il ricorso generalizzato – nella fattispecie in questione – all’invocazione del rimedio della nullità ed eventualmente, in subordine a quello del risarcimento dei danni da condotta illecita, come meglio vedremo oltre.

[38] Si vedano, in tal senso, la dottrina e i primi orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati alle note 3 e 4.

[39] La nostra analisi, come già detto sopra, si attiene necessariamente alla valutazione di “legittimità antitrust” del modello di fideiussione ABI, quale consegnata dal Provvedimento che è alla base del contenzioso di cui si discute, non potendosi però escludere l’ipotesi che un nuovo accertamento in merito alla legittimità (delle singole clausole) dello schema ABI possa essere teoricamente riaperto – in un eventuale nuovo riesame da parte dell’Autorità Antitrust, ovvero di un giudice ordinario – riconsiderando come illegittime anche quelle clausole che sono state considerate legittime nel Provvedimento (contrariamente, peraltro a quello che era stato il parere espresso dall’ AGCM con provvedimento del 20 aprile 2005 n. 14251, nonché ad un precedente orientamento della stessa Banca d’Italia del 3 dicembre 1994, n.12 (in Banca, borsa e tit., 1995,II,393 ), ovvero l’intero schema negoziale, sulla base di una tesi più radicale di nullità dell’intesa in sé stessa in quanto contraria all’art. 2, comma2, lett. A) della Legge Antitrust, a prescindere dai singoli contenuti di essa.

[40] Situazione peraltro ben nota e già ampiamente riscontrabile anche nella giurisprudenza di merito. V. le sentenze del Tribunale di Milano e del Tribunale di Venezia di cui alle precedenti note n. 6 e 7 con riguardo alla fideiussione omnibus, mentre, in generale, con riguardo alle n.b.u. vi veda già il Tribunale di Roma, con sentenza del 12 settembre 1997, n. 4071, ha affermato la tendenziale nullità ma circoscritta alle singole clausole riproduttive delle n.b.u., in applicazione dell’art. 1419 cod. civ.

[41] Così. S. Clericò, Brevi note sulla nullità parziale del contratto ex art. 1419 c.c., in Riv. Not., 2009, p. 456 ss., nota a Cass. N. 1356/2008, richiamando il risalente insegnamento di G. Criscuoli, La nullità parziale del negozio giuridico, Milano, 1959, p. 232.

[42] In Cass. n. 11904 del 28 maggio 2014, si afferma un principio di presunzione di causalità, ma tra l’illecito antitrust e il danno che si asserisce patito dai consumatori.

[43] Sul punto si veda il paragrafo 36 del Provvedimento AGCM del 20 aprile 2005, 14251.

[44] Sul punto si veda il paragrafo 30 del Provvedimento AGCM del 20 aprile 2005, 14251.

[45] Trib. Milano, Sezione specializzata in materia di impresa, sent. n. 7796/2016.

[46] Così il Tribunale di Milano nella sentenza sopra richiamata, rilevando come “parte opponente non ha nemmeno tentato di provare che detto schema negoziale era di fatto adottato da un numero significativo di istituti di credito – in maniera tale cioè da dare conto quantomeno del fondamento di base della sua contestazione, e cioè quello dell’uniformità di proposta al pubblico di tale schema negoziale”.

[47] A favore di un assetto dell’onere probatorio assai sbilanciato a favore del cliente, in virtù di un’ampia interpretazione del concetto di “prova privilegiata”, si esprime in dottrina B. Borrillo, op. cit., p. 14, secondo la quale i clienti fideiussori “potranno giovarsi della c.d. prova privilegiata: non dovranno provare la condotta anticoncorrenziale tra gli istituti di credito, ma sarà sufficiente invocare l’accertamento effettuato dalla Banca d’Italia, provvedimento al quale i giudici attribuiscono «elevata attitudine a provare tanto la condotta anticoncorrenziale quanto l’astratta idoneità della stessa condotta a procurare un danno ai consumatori»31. Saranno gli istituti di credito, invece, alla stregua del principio di vicinanza, a dover dimostrare l’interruzione del nesso causale tra l’illecito antitrust e il danno patito dai singoli: a dover dimostrare, cioè, che le fideiussioni da loro stipulate si differenziano da quelle abitualmente impiegate, le quali riproducono alla lettera lo schema contrattuale dell’ABI”.

[48] V. in tal senso Cass. Civ. n. 11564 del 4.6.2015.

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