Sommario: 1. La direttiva BRRD nella difficile prospettiva di nuovi equilibri di mercato. – 2. Soluzione delle crisi bancarie: la complessa transizione dal sistema procedimentale domestico al ‘SRM’. – 3. Segue: la mancata rispondenza alla logica di un’armonizzazione minimale. – 4. Alcune considerazioni sulla tecnica del bail-in. – 5. Conclusioni.
(*) 1. Un’attenta lettura dei provvedimenti normativi europei contenuti nella direttiva BRRD e nel Reg. 806/2014, nonché nei decreti legislativi di recepimento 180 e 181 del 2016, deve muovere dalla considerazione che il regolatore europeo, nella definizione del complesso disciplinare concernente il superamento e la gestione della crisi degli intermediari bancari, ha riguardo ad una visione di mercato decisamente diversa rispetto a quella cui faceva riferimento la normativa vigente in Italia fino a tutto il 2015. Più in particolare, sembra che il legislatore europeo presupponga l’esistenza di un mercato maturo ed efficiente, tale da rinvenire al proprio interno, in caso di crisi, i rimedi necessari per il superamento di quest’ultima.
E’ evidente come a fondamento di una costruzione siffatta si rinvenga una logica liberistica di stampo neoclassico che – pur non escludendo la necessità di adeguate forme di intervento pubblico (i.e. l’applicazione di un apparato disciplinare proteso all’incremento dell’efficienza dei ‘soggetti abilitati’ ed al conseguimento di un elevato grado di trasparenza delle relative condotte) – appare poco in linea con le modalità in cui attualmente trova esplicazione il rapporto banca-cliente. Il presupposto su cui si fonda l’azione del legislatore è, infatti, l’esistenza di condizioni ottimali di mercato, idonee cioè a consentire livelli di informazione degli operatori economici e degli investitori talmente approfondite da orientarli, in maniera consapevole, verso banche di sicuro affidamento (per quanto riguarda la loro «sana e prudente gestione») e, dunque, lontane da qualsivoglia prospettiva di dissesto.
In tale premessa, può ritenersi che la regolazione in parola abbia ipotizzato un ambiente economico-finanziario particolarmente resiliente, nel quale in caso di crisi degli appartenenti al settore è possibile, comunque, individuare rimedi adeguati a contrastarla; misure che, peraltro, non comportano il coinvolgimento dei taxpayers ovvero forme di socializzazione delle perdite (previo ricorso ad «interventi di ristoro» a favore delle banche cessionarie delle «attività e passività» degli enti creditizi sottoposti a procedure di risoluzione applicabili in presenza di patologie aziendali). Ne consegue l’esigenza di analizzare la portata innovativa dei menzionati provvedimenti normativi avendo riguardo alla realtà sopra descritta, nella quale la gran parte dei risparmiatori dovrebbe essere in grado di orientarsi verso operatori finanziari meritevoli della fiducia loro attribuita a seguito di valutazioni responsabili; e ciò, individuando, in un primo momento, la solidità economico-patrimoniale di questi ultimi, per poi effettuare scelte negoziali adeguate alle aspettative di rendimento correlate alla profilatura di rischio attribuita ai risparmiatori dalle banche in sede di negoziazione.
Si delinea, per tal via, un contesto sistemico nel quale il mercato dovrebbe consentire che solo una contenuta parte degli investitori si rivolga ad imprese bancarie di dubbia stabilità e, dunque, caratterizzate da inadeguate forme gestionali che, per un verso, è causa di perdite cui spesso consegue il rischio di un possibile dissesto, per altro le espongono a subire (in modalità più rilevanti rispetto alla generalità degli appartenenti al settore del credito) gli impatti negativi delle turbolenze finanziarie determinate da situazioni di crisi globale e/o dei debiti sovrani. E’ evidente come, a monte di una costruzione ordinatoria siffatta, deve configurarsi la presenza di una categoria di operatori pienamente consapevoli delle scelte di mercato da essi effettuate; consapevolezza che trova espressione nelle opzioni praticate con riguardo vuoi agli intermediari presenti in quest’ultimo (rischio di controparte), vuoi ai prodotti finanziari oggetto d’investimento (rischio di regolamento).
Da qui la necessità di liberare il mercato da fattori che possono alterarne l’equilibrio ed il corretto funzionamento. In particolare, viene in considerazione l’opportunità di introdurre modifiche strutturali che consentano di eliminare possibili interferenze di carattere politico ovvero discrasie funzionali ascrivibili alla specificità degli assetti proprietari di taluni enti creditizi presenti nel nostro ordinamento finanziario. Mi riferisco, in primo luogo, al caso delle ‘partecipazioni’ detenute dalle cd. ‘fondazioni bancarie’ le quali tuttora – grazie all’utilizzo di alcune clausole statutarie (ad esempio: quella relativa al ‘voto di lista’, introdotto dalla legge n. 474 del 1974 e reso obbligatorio per l’elezione degli esponenti delle società quotate dalla l. n. 262 del 2005) – riescono ad esercitare un’influenza dominante sulle banche italiane maggiormente significative[1]. Ed invero, la regolazione non ha tenuto conto che finalità prioritaria della gran parte delle ‘fondazioni’ in parola è la gestione degli enti creditizi partecipati; donde il significativo grado d’incidenza esercitato su questi ultimi (al fine di assicurarsi il flusso reddituale necessario per la realizzazione dei loro scopi istituzionali). Per converso, in vista della realizzazione di un mercato realmente libero da interferenze, dovrebbe finalmente essere fatta chiarezza sull’annosa questione del rapporto tra politica e finanza, la quale presenta a tutt’oggi lati oscuri, da chiarire senza ulteriori indugi.
Sotto altro profilo, viene in considerazione la scarsa competitività che tuttora connota il settore creditizio, anche per la problematicità riconducibile in prospettiva a talune riforme della morfologia degli appartenenti al nostro ordinamento finanziario. Si pensi, in particolare, alla tendenza del regolatore speciale a privilegiare la grande dimensione aziendale, come sembrerebbe evincersi dal d.l., approvato dal Consiglio dei ministri il 10 febraio 2016, recante tra l’altro «misure urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo» nelle quali è prevista «l’adesione a un gruppo bancario cooperativo… condizione per il rilascio dell’ autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria in forma di banca di credito cooperativo» (art. 1, comma primo).C’è da chiedersi, infatti, quale possa essere l’incidenza della sostanziale forma di concentrazione soggettiva (cui l’ ipotizzabile costituzione di un ‘unico gruppo’ inevitabilmente darebbe vita) sull’osservanza della regolazione antitrust, atteso che la presenza sul mercato di un nuovo, grande ente creditizio (da annoverare, per dimensioni, al terzo posto tra quelli del nostro Paese) lascia intravedere la possibilità di un’ alterazione dell’attuale equilibrio concorrenziale.
La questione è nel suo complesso riconducibile al dibattito teorico fra i sostenitori e i detrattori della teoria dei mercati efficienti, che ci porterebbe lontano.[2] Giova qui forse ricordare che la stessa Commissione nega implicitamente l’efficienza intrinseca dei mercati quando pone in essere interventi regolamentari della portata della nuova direttiva sui mercati e gli strumenti finanziari (cd. MiFID2), la quale – inter alia – rafforza la disciplina sulla protezione degli investitori con l’intento di porre rimedio alle ineliminabili asimmetrie informative che caratterizzano gli scambi sui mercati, soprattutto quelli retail.
2. Alla luce di tali riflessioni si comprendono le difficoltà interpretative della normativa europea sopra richiamata che, da più parti, vengono rappresentate, nonché il bisogno di far chiarezza sulle modalità d’ applicazione della stessa di recente invocate anche dal rappresentante dell’ autorità di risoluzione[3]. Indubbiamente tali difficoltà sono imputabili alla discrasia esistente tra la realtà normativa e quella fattuale e, dunque, al divario riscontrabile tra l’ipotesi teorica cui ha fatto riferimento il regolatore europeo ed il concreto contesto sistemico nel quale il complesso dispositivo di cui trattasi deve trovare applicazione.
Forse non sono ancora maturi i tempi per addivenire, senza una preventiva fase di transizione disciplinare, ad una svolta della regolazione speciale – che non esiterei a definire di portata epocale – qual è quella di cui si discute. Gli intermediari sono stati messi di fronte ad un cambiamento che è causa di notevoli incertezze, in quanto la complessità del nuovo «meccanismo di risoluzione delle crisi» – sostituito tout court ai presidi (procedurali) con cui per decenni si sono fronteggiate le differenti forme di patologia bancaria – ha avuto inevitabilmente un impatto traumatico, con riflessi anche sulle linee interventistiche delle stesse autorità di settore. Queste ultime a lungo hanno gestito le crisi bancarie fruendo di ampi poteri, esercitati tra l’altro guidando gli organi del commissariamento e della liquidazione c.a., oltre che mediante il ricorso a tecniche informali di moral suasion (praticate nei confronti di enti bancari sollecitati ad intervenire nelle operazioni di risanamento). Sicchè, in passato dette autorità potevano contare sull’adesione/collaborazione degli appartenenti al settore del credito. Per converso oggi, a seguito dell’entrata in vigore dei provvedimenti disciplinari dianzi citati, esse sono costrette ad un agere incanalato nelle strettoie dei «piani» previsti dalla normativa europea, al quale di certo non consente forma alcuna di estensione applicativa la lettura che la Commissione dà alle disposizioni UE in materia di «aiuti di Stato».
Rileva, al riguardo, l’azione svolta dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi che, sul piano delle concretezze, ha operato in chiave strumentale al risanamento delle crisi, offrendo – in aggiunta al compito istituzionale rappresentato dal rimborso dei depositi di ammontare non superiore ai 100 mila euro – mezzi finanziari (forniti, dai soggetti abilitati ad esso aderenti, su base volontaristica, in un primo tempo, obbligatoria, successivamente) e servizi tecnici che, in molti casi, sono stati determinanti nel rinvenire adeguate soluzioni a fronte di eventi degenerativi delle realtà bancarie. Si versava, dunque, in presenza, di forme operative (disposte da un micro-sistema di appoggio alle misure interventistiche previste dal regolatore dell’epoca) la cui attivazione ha consentito all’autorità di settore di poter contare su un meccanismo d’ausilio nel definire con successo gli esiti dei commissariamenti in corso, evitando in tal modo un possibile effetto contagio con ripercussioni negative a livello di sistema.
In tale contesto, l’Organo di controllo ha utilizzato talora il modello procedimentale previsto dal legislatore in chiave sostanzialmente sanzionatoria e, dunque, nel convincimento che sarebbe stato evitato ai casi di amministrazione straordinaria di tracimare in liquidazione c.a. (come è dato evincere dal limitato numero di fattispecie siffatte). In concreto, in presenza di situazioni di mala gaestio imputabili a «gravi irregolarità nell’ amministrazione», vale a dire all’inadeguatezza della governance, veniva demandato agli organi della procedura (ex art. 70, comma primo, lett. a, tub) il compito di superare la situazione d’impasse in cui alcune banche erano incorse. L’attività di questi ultimi – a seguito di una compiuta analisi della realtà aziendale finalizzata al completamento delle indagini effettuate negli accertamenti ispettivi dell’Organo di vigilanza bancaria – rendeva verosimile l’aspettativa di un recupero dell’ente in crisi, anche in considerazione dei possibili interventi effettuati dal FITD per facilitare le operazioni di integrazione tra la banca in difficoltà ed altro appartenente al settore. In altri termini, l’autorità di controllo si è a lungo avvalsa degli ampi spazi temporali previsti per lo svolgimento della procedura di amministrazione straordinaria per ricercare idonee modalità di conclusione ‘non traumatica’ della stessa.
Orbene, tale tecnica applicativa spiega – a mio avviso – taluni tratti apparentemente poco chiari del recente salvataggio disposto dal noto d.l. n. 183 del 2015; fermo restando che alla medesima si è fatto, a mio avviso, riferimento almeno nei confronti di due delle quattro banche, prese in considerazione in tale decreto legge.
Mi riferisco, in particolare, alla Cassa di risparmio di Ferrara, i cui azionisti nell’assemblea straordinaria del 30 luglio 2015 avevano deliberato di ricoprire le perdite risultanti dalla situazione patrimoniale al 31 marzo 2015, mediante utilizzo delle riserve e riduzione del capitale sociale (la cui consistenza residua per un ammontare superiore agli 11 milioni veniva accertata da una perizia del prof. Enrico Laghi dell’Università di Roma), nonché alla Cassa di risparmio della provincia di Chieti, la quale (come risulta dallo stesso provvedimento del Ministro dell’economia e delle finanze del settembre 2014) è stata commissariata per gravi irregolarità amministrative e non per perdite patrimoniali. C’è da domandarsi, allora, per quale motivo tali enti creditizi siano stati associati alla Banca Marche ed alla Banca popolare dell’Etruria e del Lazio nell’operazione voluta da Governo per risolverne la crisi.
Questo ed altri interrogativi mi hanno indotto a rappresentare significative perplessità con riguardo a tale operazione per quanto essa si configuri, a livello giuridico formale, corretta.[4] In particolare, rilevano idubbi relativi alla: (i) circostanza che il ‘Fondo di risoluzione nazionale’, amministrato dall’«Unità di risoluzione della Banca d’Italia», è intervenuto con mezzi finanziari conseguiti inizialmente per intero con la leva (al di là, quindi, degli ordinari criteri e limiti che ne connotano l’applicazione); (ii)assunzione da parte della Cassa Depositi e Prestiti di un impegno di sostegno finanziario in caso di incapienza del Fondo alla data di scadenza del finanziamento; (iii) ipotizzabile responsabilità dei commissari i quali, nel corso della gestione commissariale, non hanno impedito (nel corso dei circoscritti termini di quest’ultima) il progressivo deterioramento patrimoniale di tali banche, donde le conseguenze dirompenti della valutazione effettuata ai sensi dell’art. 23 del decreto lgs. n. 180 del 2015, alla quale si ricollega il ‘programma di risoluzione’ formulato nei provvedimenti emanati dalla Banca d’Italia il 21 novembre 2015.
Probabilmente, come sottolineavo in precedenza, l’autorità di settore non ha calcolato con esattezza i tempi delle procedure e si è trovata a dover assumere tempestive decisioni a ridosso della scadenza dei termini per l’applicazione della normativa di recepimento della direttiva n. 59/2014 /UE e del Reg. 806/2014. Da qui l’adozione di linee comportamentali che appaiono poco convincenti, specie se si tiene conto del fatto che lo svolgimento dell’iter procedimentale in parola è stato, forse, condizionato dalle improprie modalità di recepimento nella regolazione nazionale di alcune disposizioni della citata dir. n. 59/2014/UE.
Mi riferisco, in particolare, alla statuizione in cui si disciplina il criterio per la ‘valutazione delle attività e passività’ ai fini della risoluzione, la quale ai sensi dall’art. 36, comma primo, di tale direttiva deve essere «equa, prudente e realistica» e demandata a «una persona indipendente da qualsiasi autorità pubblica, compresa l’autorità di risoluzione». Orbene, tale criterio sembra disatteso dal legislatore nazionale, il quale nel citato art. 23 del d.lgs. n. 180 del 2015, riguardante per l’appunto la valutazione testé menzionata, ha disposto che questa ultima «è effettuata su incarico della Banca d’Italia da un esperto indipendente, ivi incluso il commissario straordinario nominato ai sensi dell’articolo 71 del Testo Unico Bancario»; statuizione la cui lettura dà adito ad ampie perplessità, specie se si ha riguardo al disposto del successivo art. 26, comma secondo, nel quale si rinviene la precisazione, di dubbia legittimità costituzionale, che limita la «tutela giurisdizionale contro la valutazione».[5] E’ evidente come si versi in presenza di una lettura della normativa europea che ne altera l’originaria portata, in quanto viene previsto un ‘potere di nomina’ degli esperti indipendenti in luogo di un mero onere a provvedere.
Da qui un generale clima di incertezze che connota gli eventi in esame estrinsecandosi – oltre che in alcuni aspetti della procedura di selezione degli advisors ai fini della vendita delle quattro banche (cfr. la relativa nota della Banca d’Italia visionabile sul sito www.bancaditalia.it) – anche nelle stesse modalità di attuazione delle misure di risoluzione. Non v’è dubbio, infatti, che l’esito di queste ultime lascia presumere un agere su cui ha interagito l’influenza (rectius: la pressione) della Commissione UE, la quale con tutta probabilità ha indicato i parametri da applicare (benchmark), oltre ad escludere – com’è noto – la possibilità di interventi del FITD.
E’ evidente come la preoccupazione prioritaria dell’autorità di settore e del Governo sia stata quella di sottrarre alla scure del bail-in quelle categorie di creditori (depositanti sopra i 100 mila euro e obbligazionisti non subordinati) rientranti almeno fino al 31 dicembre 2015 nell’ambito dei cd. risparmiatori inconsapevoli e, dunque, tutelati. Tuttavia, la situazione complessiva (rectius: le modalità) in cui si sono svolti gli eventi sopra rappresentati evidenzia un sostanziale spostamento della questione che ci occupa dal piano della tecnica a quello della politica, la quale avrebbe potuto/ dovuto sul punto insistere su una diversa interpretazione della nozione di «aiuti di Stato» per risolvere, con le tradizionali tecniche di cui sopra si è detto, i ‘commissariamenti’ delle quattro banche in crisi. Ciò, accettando anche il rischio di una ‘procedura d’infrazione’ ovvero invocando il riconoscimento, da parte dell’UE, nella definizione della questione, di margini di flessibilità che – nonostante le continue richieste avanzate dai nostri vertici governativi – al bisogno si risolvono spesso in un mero wishful thinking.
A ben considerare, forse, una risposta all’interrogativo concernente lo strano iter adottato per il salvataggio in parola – che, a giudizio di molti, appare fondato su motivazioni poco convincenti – va ricercata in un ambito che trascende la mera riferibilità alla tecnica procedimentale applicata nella fattispecie.
Più precisamente, essa sembra riconducibile alle incertezze di fondo che, al presente, caratterizzano le relazioni tra gli Stati membri dell’Unione e gli organi istituzionali di quest’ultima; laddove, più in generale, rileva la mancanza di una visione coesa in ordine alle modalità di gestione del cambiamento in atto. Si è forse in presenza di un’implicazione della recente crisi scarsamente valutata! Nei casi di patologia aziendale non è sufficiente (per conseguire risultati positivi) ideare ed attuare misure normative che appaiono oggettivamente idonee a chiudere pregresse situazioni di mala gestio; gli auspicati benefici(soprattutto di carattere preventivo) non si registreranno se i rimedi progettati sono immessi nelle realtà disciplinari dei differenti paesi UE a scadenze predeterminate, senza lasciare intercorrere un adeguato spazio temporale nel quale venga consentita ai singoli ordinamenti la possibilità di far proprie (rectius: assimilare) le modifiche di sistema, introducendo (se del caso) eventuali correttivi e, dunque, procedendo ad una compiuta omogeneizzazione tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ regime normativo.
In tale contesto, si comprende la ragione per cui – di fronte ad una imposizione (che potremmo definire traumatica) delle tecniche di risoluzione introdotte ‘SRM’ – molti studiosi ed operatori si interrogano al fine di valutare compiutamente gli effetti distorsivi delle medesime. Tali tecniche vengono percepite, infatti, come strumentali alla ‘rottura’ con un passato nel quale prevaleva la logica della ‘tutela ad oltranza’ delle ragioni dei risparmiatori; si ipotizza l’intervenuta fine di un’azione di salvaguardia dei diritti di questi ultimi, laddove per decenni essa aveva identificato l’ obiettivo primario delle autorità politiche e tecniche del settore, in linea con motivazioni culturali risalenti alle origini della nostra legislazione bancaria, ispirata al principio della cd. concorrenza controllata.[6] In altri termini, si è in presenza di eventi che – nel riflettere i limiti generali del processo d’ integrazione europeo – evidenziano le distonie dell’attuale mancanza di coesione all’interno dell’UE e il rischio strategico cui vanno incontro le autorità di supervisione domestiche (costrette ad accettare regole che ne circoscrivono le funzioni).
3.Per le considerazioni testé esposte è evidente come l’introduzione della nuova disciplina di risoluzione delle crisi bancarie abbia colto il nostro Paese impreparato ad un passaggio disciplinare di grande portata, con ovvie conseguenze negative sul piano della pacifica attuazione delle tecniche procedimentali di cui si discute. Ciò nonostante l’apprezzabile tentativo di evitare l’immediata applicazione del bail–in dispiegato dalla Banca d’Italia nell’ambito dei negoziati sulla direttiva BRRD, allorché venne da essa avanzata con insistenza la richiesta di «rinviare … (la sua adozione).. al 2018, così da consentire la sostituzione delle obbligazioni ordinarie in circolazione con altre emesse dopo l’entrata in vigore del nuovo quadro di gestione delle crisi e, dunque, collocate e sottoscritte avendo presenti i nuovi scenari di rischio».[7] In analogo ordine logico si sono espressi, del resto, alcuni autorevoli studiosi i quali sul punto hanno rappresentato la necessità di «una norma transitoria che esentasse l’Italia dal bail-in per un periodo temporaneo (12-18 mesi)», all’uopo sottolineando l’ esigenza di un impegno del «governo …(finalizzato a)… negoziare questa transizione con le autorità di Bruxelles, oggi ancora più insistentemente di quanto fatto senza successo durante il disegno delle regole del bail-in».[8]
D’altronde, sembra cosa certa che il nuovo modello interventistico, fondato sulla separazione delle funzioni di vigilanza e di gestione delle crisi bancarie, non è stato definito in ambito UE previa accettazione tout court dell’indicato canone disciplinare. La ricerca di una distinzione (rectius: separazione) tra dette forme di controllo avrebbe dovuto avere il suo epicentro nella formula del meccanismo unico di risoluzione delle crisi, che fa capo ad un ‘Comitato unico di risoluzione delle crisi’, chiamato a gestire le diverse fasi della procedura in parola, in stretto raccordo decisionale ed operativo con la Commissione. Su un piano formale, la BCE avrebbe dovuto, quindi, essere esclusa da una partecipazione attiva all’agere del SRM, in quanto essa interviene in detto Comitato solo come ‘osservatore permanente’, sia in sessione esecutiva che plenaria del medesimo. A ben considerare, tuttavia, appare verosimile che la sua posizione potrà andare ben oltre una mera funzione informativa (attiva o passiva), propria della figura che le viene ascritta; orientano il tal senso le stesse considerazioni della BCE, la quale esplicitamente sul punto afferma che «as a supervisor, the ECB will have an important role in deciding whether a bank is failing or likely to fail».[9] Da qui le conclusioni cui dianzi si è pervenuti in ordine ai possibili condizionamenti cui è esposta l’azione delle banche centrali nazionali titolari di funzioni di vigilanza bancaria.
Sotto altro profilo, un affievolimento della menzionata distinzione tra controllo bancario e gestione delle crisi, come ipotizzata dal regolatore europeo, è intervenuto anche a causa dell’applicazione data da numerosi paesi dell’Unione (tra cui l’Italia) al disposto dell’art. 3, comma terzo, della direttiva n. 59/2014 /UE (nel quale viene attribuita agli Stati membri la facoltà di «prevedere in via eccezionale che l’autorità di risoluzione sia l’autorità competente per la vigilanza»). Tale previsione – cui è collegata la raccomandazione agli Stati membri di «mettere in atto adeguati accorgimenti aventi natura strutturale per separare le funzioni di vigilanza e quelle di risoluzione» nei casi in cui la nomina ricada sull’«autorità responsabile della vigilanza prudenziale degli enti («autorità competente») quale autorità di risoluzione» (considerando n. 15) – attesta la peculiare valenza ascritta dal legislatore al nominato criterio della separazione tra le autorità cui spettano differenziate competenze (i.e. vigilanza sugli intermediari e risoluzione delle crisi).[10] Orbene, nonostante l’indicato, chiaro orientamento normativo, evidentemente finalizzato ad evitare paventate forme di commistione, causa di impedimenti operativi, in numerosi paesi (Germania, Francia, Italia, Olanda, Irlanda) l’autorità di risoluzione coincide con quella di vigilanza; paesi che motivano questa scelta nel riferimento alle economie di scala ed ai benefici conseguibili tramite una organizzazione unitaria che consente scambio di informazioni e di esperienze pregresse.[11]
Va da sé che il tempo costituisce un fattore fondamentale per l’ efficacia e l’efficienza della riforma, come opportunamente è stato sottolineato dal Direttore generale del FITD nel ricordare il carattere di ‘armonizzazione minimale’ della direttiva BRRD.[12] Da qui la possibilità, per vero non utilizzata, per gli Stati membri di fruire di un congruo periodo di transizione dalle vecchie alle nuove regole, sì da garantire una graduale attuazione del nuovo complesso dispositivo. Ed invero, l’armonizzazione minimale consente agli Stati membri di mantenere, al proprio interno, norme differenti rispetto a quelle fissate dall’Unione Europea, ove detta linea comportamentale sia finalizzata ad una più pregnante protezione del consumatore (nel nostro caso: di servizi finanziari).
Si è, dunque, in presenza di innegabili vantaggi normativi che, disattendendo detto criterio disciplinare, rischiano di andare dispersi: in primis la possibilità di procedere ad un’adeguata sperimentazione delle soluzioni legislative adottate, sì da consentire agli stati membri di elaborare quelle più funzionali ad un’accettazione dell’acquis comunitario che non avvenga previo sconvolgimento degli ordinamenti nazionali. Ciò, lasciando ferma la possibilità per il legislatore nazionale di migliorare il contenuto della normativa europea ove quest’ultima (come nel caso della tecnica procedimentale che ci occupa) presenti ambiguità che è opportuno eliminare al fine di garantire il rispetto di differenti culture, da fondare su una trasparenza normativa idonea ad escludere qualsivoglia incertezza interpretativa.
4. Passando, poi, a qualche considerazione sulle forme tecniche previste dalla citata normativa per la gestione e la risoluzione delle crisi bancarie, va fatto presente che in letteratura i caratteri strutturali del nuovo modello disciplinare – articolato in quattro modalità operative utilizzabili in via alternativa (la «vendita delle attività d’impresa» [sale of business], la «separazione delle attività» [bad bank], la costituzione di un «ente-ponte» [bridge bank] e l’adozione del «bail-in») – hanno da subito acceso un vivo dibattito in ordine alla effettiva possibilità che taluni Stati membri riescano a coniugare (in tempi congrui) le realtà strutturali interne con i nuovi schemi ordinatori imposti dall’Europa.[13]
Al riguardo rileva la constatazione che le menzionate forme tecniche di risoluzione appaiono funzionalizzate ad una prioritaria finalità preventiva, la quale finisce col prestare scarsa attenzione alla fase liquidatoria che, in presenza del dissesto di una banca, dovrebbe rappresentare invece la naturale modalità di conclusione di ogni procedimento all’uopo adottato. In tale contesto trova logica spiegazione il rilievo ascritto dalla normativa alla predisposizione di specifici «piani di risanamento» (recovery plans) da parte degli enti creditizi, nei quali siano definiti i dispositivi o le misure da adottare per consentire l’assunzione di azioni tempestive volte al ripristino della c.d. sostenibilità economica di lungo periodo (long-term viability). A tali piani, fanno riscontro i «piani di risoluzione» (resolution plan), predisposti dalle autorità competenti in materia (in cooperazione con l’autorità di vigilanza) sulla base delle informazioni fornite dagli enti interessati; piani – questi ultimi – che inevitabilmente condizionano le scelte cui il ‘Comitato di risoluzione unico’ e le ‘autorità nazionali di risoluzione’ conformano le linee procedurali da seguire nelle concrete fattispecie (artt. 8 e ss. del reg. UE n. 806/2014).
E’ evidente come il legislatore europeo, in una logica di mercato volta a supportare la concorrenza, abbia fatto affidamento su tale innovativa forma di collaborazione tra intermediari ed autorità di settore per conseguire il ‘risanamento’ dell’ente creditizio in crisi, disancorandolo dal ricorso a forme di supporto pubblico straordinario. Diversamene dal passato, il rimedio ora introdotto non comporta, quindi, interventi esterni al soggetto incorso in una situazione patologica. Ciò se, per un verso, segna la fine di frequenti ipotesi di moral hazard da parte di enti creditizi disposti all’ assunzione di rischi eccessivi, per altro apre le porte allo strumento del ‘bail-in’, che utilizzando la tecnica del cd. haircut – vale a dire dell’imposizione in via prioritaria di riduzioni di valore a carico dei titolari di azioni, di debito subordinato e dei creditori non garantiti (art. 53 della direttiva 2014/ 59/UE) -, può determinare, come poc’anzi si precisava, le condizioni giuridico fattuali di una sostanziale vanificazione della procedura liquidatoria applicabile nella fattispecie.
Tralascio in questa sede di soffermarmi sulle conseguenze del ‘bail-in’ e, in particolare, sull’ipotizzabile incremento dei tassi di remunerazione, quale è dato prefigurare in relazione alla percezione di un maggior rischio da parte degli stakeholders.[14] Indubbiamente, potrà in futuro registrarsi un prevedibile aumento del costo del danaro correlato alla difficoltà delle banche di effettuare regolarmente la provvista in presenza di una generalizzata applicazione di tale procedura; del pari, rinvio alle recenti indicazioni della giurisprudenza e della dottrina in ordine alla non conformità di tale tecnica a taluni principi fondanti delle Costituzioni dei paesi UE[15]. Mi sembra, invece, opportuno ritornare sulle modifiche, per tal via recate, alle modalità classiche di svolgimento della fase liquidatoria che, di norma, dovrebbe concludere l’intervento di risoluzione delle crisi in esame.
In particolare, va fatto presente che la determinazione del c.d. MREL (Minimum Requirement for own Funds and Elegible Liabilities) – previsto dall’art. 45 della direttiva n. 2015/59/UE e dall’art. 12 del regol. n.2015/ 806/UE, recepito poi nella legislazione italiana dall’art. 50, comma primo, del d. lgs. n. 180 – ha predisposto un meccanismo idoneo, in caso di risoluzione, a circoscrivere l’applicazione del bail-in a crediti (ricompresi nella area dell’8% delle passività totali da esso coinvolte) le cui caratteristiche sono specificate dalla Banca d’Italia. Viene, quindi, lasciata aperta (all’ autorità di vigilanza) la possibilità di determinare ex ante una sorta di ‘zona bail-inizzabile’ dalla quale verosimilmente saranno lasciati fuori i depositi bancari e, per quanto concerne il nostro Paese, la specificazione delle «caratteristiche delle passività computabili …(ai fini del bail-in) … e le modalità secondo cui esse sono computate» (art. 50, sesto comma).[16]
Orbene, passando alla valutazione delle concrete modalità con cui tale salvaguardia è stata realizzata nel nostro ordinamento rileva la statuizione dell’art. 1, comma 33, del d.lg. n. 181, con la quale è stato modificato l’art. 91 del d. lgs 1° settembre 1993, n. 385, puntualizzandosi l’ordine con cui i ‘commissari’ devono procedere nel ‘pagamento dei crediti’. La «deroga a quanto previsto dall’art. 2741 cod. civ. e dall’art. 111 della l. fall. nella ripartizione dell’attivo», quivi introdotta (nuovo comma 1 bis dell’art. 91), trova espressione nell’elenco dei crediti che vengono soddisfatti «con preferenza rispetto agli altri crediti chirografari», includendo tra questi «gli altri depositi presso la banca» (lett. c). Risulta chiaro, pertanto, come il legislatore, nell’intento di rimediare ai rischi del bail-in, sia incorso in una palese violazione del principio della par condicio creditorum; esito di cui, peraltro, sembra esso stesso aver consapevolezza, come è dato desumere da un rinvio alle calende greche (1° gennaio 2019) dell’applicazione dell’art. 91, comma 1 bis, lett. c, t.u.b.
Sotto altro profilo, rileva l’osservazione di recente formulata da un acuto studioso il quale, nel delineare il quadro delle possibili implicazioni del bail-in, ha sottolineato che «la possibile svalutazione, anche integrale, delle passività della banca comporta la cancellazione delle posizioni creditorie di taluni soggetti con la conseguenza che essi non possono, neppur in astratto, concorrere alla distribuzione dell’eventuale attivo residuo».[17] Se ne deduce che l’applicazione di tale tecnica priva i creditori, colpiti dal cd. haircut, della possibilità di concorrere nel riparto del residuo attivo della banca in crisi, con evidente sperequazione rispetto alle altre categorie di soggetti che possono vantare diritti nei confronti di quest’ultima. Da qui l’evidente limite nella tutela dei depositanti ascrivibile a detta procedura di internalizzazione delle perdite, la quale, sul piano delle concretezze, non è in grado di dare pieno adempimento al criterio del “no creditor worse off” (i.e. nessun creditore/depositante può subire in caso di risoluzione un trattamento deteriore rispetto a quello che subirebbe con la liquidazione).
In tale contesto logico, si comprende l’orientamento dottrinale che – nel sottolineare l’esigenza di procedere ad «uno sforzo notevole di educazione finanziaria del pubblico dei depositanti» – suggerisce di non impedire ai risparmiatori la possibilità d’investire in obbligazioni bancarie subordinate, bensì di disciplinarne la vendita a livello retail prescrivendo che questa avvenga in modalità trasparenti e corrette.[18] Ad esso fanno eco le considerazioni formulate da insigni esponenti delle autorità di controllo i quali, valutando le conseguenze «degli interventi fin qui effettuati», ora hanno auspicato un’attenta rivisitazione «da parte del legislatore sia italiano, sia europeo» delle modalità e dei tempi dei nuovi procedimenti,[19] ora si sono espressi in termini decisamente critici sul decreto legislativo di recepimento della direttiva BRRD, ritenendolo in contrasto con le norme europee «sugli abusi di mercato che tutelano la trasparenza» (donde la richiesta «di modificare il decreto legislativo che innova il Testo unico bancario e il Testo unico della finanza», in quanto tra l’altro «appare necessario assicurare una più ampia forma di coinvolgimento della Consob»).[20]
Da ultimo, destinate a dare una spinta propulsiva alla corale aspettativa di cambiamento della regolazione in esame sono talune recenti riflessioni del Governatore Visco.[21] Questi – nel segnalare i dati caratterizzanti della procedura di risoluzione adottata a fine 2015 e la sua funzionalizzazione alla stabilità del settore finanziario – sia pur tardivamente sottolinea che «sarebbe stato preferibile un passaggio graduale e meno traumatico, tale da permettere ai risparmiatori di acquisire piena consapevolezza del nuovo regime e di orientare le loro scelte di investimento in base al mutato scenario». Si è in presenza di un’apprezzabile presa d’atto della necessità di dar corso, in modalità responsabili, alla transizione sottesa a questa delicata fase della storia economica dell’UE; donde l’opportunità di un approccio ai nuovi modelli disposti dall’Unione che non rechi turbative al sistema, conseguendo un effetto contrario a quello che il regolatore europeo si ripromette.
5. Per concludere mi sembra che i provvedimenti di recente adottati nel nostro Paese suscitino alcune riflessioni di carattere generale, che cercherò di sintetizzare qui in appresso.
Nell’intento di proteggere i contribuenti – alimentato dall’ossessiva attenzione a ciò posta dagli Stati membri auto elettisi ‘numi tutelari’ della stabilità fiscale – la Commissione europea con il ‘Meccanismo unico di risoluzione’ delle crisi ha disposto una forma d’intervento che, su un piano economico, può essere considerata di stampo liberista. Detto Organismo europeo è ben consapevole, peraltro, che l’efficienza dei mercati (a fondamento della costruzione in parola) rappresenta una mera ipotesi concettuale. Di ciò è conferma, come si è anticipato in apertura di discorso, il fatto che esso ha ritenuto opportuno rinviare all’anno 2018 l’entrata in vigore della direttiva n. 2014/65/UE, denominata MiFID2 e del regolamento n. 600/ 2014/UE, denominato MiFIR, nei quali viene disposta un’onerosa regolamentazione (caratterizzata dall’introduzione di misure di product governance e di poteri di product intervention) destinata a potenziare le forme di tutela degli investitori.[22] Va da sé che l’adesione ad elementari principi di coerenza sistemica avrebbe dovuto estrinsecarsi quanto meno in un allineamento temporale fra le predette due forme disciplinari.
Si è in presenza, dunque, di una realtà indicativa di una mancanza di coesione tra i differenti orientamenti normativi definiti in sede UE, laddove ben diverso si configura l’approccio di un legislatore animato dall’intento di procedere in linea con obiettivi di unione ed aggregazione. Di ciò, del resto, dimostra piena consapevolezza la stessa Commissione UE, la quale di recente ha avviato un processo di revisione critica delle misure da essa ultimamente adottate, affidando ad un’apposita ‘consultazione’ la ricerca di prove empiriche e di feedback finalizzati al superamento delle incongruenze e della lacune che – come è dato riscontrare nel caso Italia – danno luogo a conseguenze indesiderate.[23] Auspicabilmente l’esito di questa consultazione fornirà elementi per una migliore comprensione delle forme d’ interazione tra i differenti complessi dispositivi concernenti la materia bancaria e finanziaria; nel contempo, dovrebbero essere identificati criteri idonei a coordinare l’impatto cumulativo della normativa finanziaria, sì da evitare sovrapposizioni potenziali, contraddizioni e carenze. Inoltre, si dovrebbe, per tal via, pervenire a livelli più elevati d’informativa, fornendo nuove basi alla ricerca per la proposizione di interventi che non risultino lesivi di quelle tutele che l’Europa intende affermare e perseguire.
Se ne deduce la sostanziale presa d’atto da parte della Commissione degli attuali limiti della sua azione. Essa sembra aver contezza di aver introdotto, nella regolamentazione della gestione delle crisi, misure (piani di recupero e piani di risoluzione) le quali, anziché essere rispondenti ad un approccio liberistico (cui forse si mirava), ripropongono sul piano delle concretezze un modello di vigilanza di tipo strutturale; ciò, con buona pace delle logiche concorrenziali perseguite al contempo, con tanta fermezza, in materia di «aiuti di stato».
Da qui un’ulteriore riflessione che, sia pure in termini non assoluti, dà una risposta agli interrogativi che mi sono posto in questa indagine: ancora una volta i provvedimenti attivati dagli organi di vertice dell’UE nella materia in esame presentano contenuti e caratteri tali da ridimensionarne la oggettiva validità, legittimando l’ipotesi secondo cui essi non sono frutto di un disegno politico, giusto o sbagliato che sia, quanto piuttosto il portato delle pressioni e dei rapporti di forza fra Stati membri dell’Unione.
(*) Tenutosi a Trento, 12 febbraio 2016.
[1] Da segnalare, al riguardo, la possibilità prevista in alcuni statuti consentita alla “lista di maggioranza” (anche relativa, vale a dire quella che in assemblea ottiene il maggior numero di voti) di nominare la quasi totalità dei componenti degli organi amministrativi e di controllo (v. sul punto il disposto dell’art. 23 dello statuto di Banca Intesa); in argomento cfr. CAPRIGLIONE , La governance bancaria tra interessi d’impresa e regole prudenziali, in Riv. trim. dir. econ., 2014, I, p. 98 ss.
[2] La nota teoria dei mercati efficienti proposta da FAMA nel 1970 (cfr. Efficient Capital Markets: A Review of the Theory and Empirical Work, in Journal of Finance, 25[2], pp. 383-417), riconduce detta prerogativa dei mercati al livello dell’informativa disponibile che interagisce sulla parità di condizioni degli investitori. Recentemente, l’efficient markets hypothesis (EMH), eleborata da Fama, è stata rivisitata in chiave critica, tra gli altri, da SHLEIFER,Inefficient Markets: An Introduction to Behavioral Finance, New York, 2000; FARMERet al., The Inefficient Markets Hypothesis: Why Financial Markets Do Not Work Well in the Real World, NBER working paper 18647, 2012. Tali analisi, fondate sulle evidenze empiriche, orientano verso realtà economiche caratterizzate dalla scarsa efficienza dei mercati: quest’ultima viene ricondotta a cause variegate e non solo a strategie di trading, cuiper solito si ricollega la possibilità di attivare vantaggiose forme di arbitraggi. Consegue la proposizione di una necessaria adesione alle regole della cd. finanza comportamentale, che promuove condotte significativamente rivolte alla realizzazione di un mercato che si connota per una durevole efficienza.
[3] Cfr. DE POLIS, L’Autorità di Risoluzione, intervento nel convegno ‘La gestione delle crisi bancarie e l’assicurazione dei depositi nel quadro dell’unione bancaria europea’, organizzato da FITD, tenutosi a Roma il 22 gennaio u.s.
[4] Cfr. il mio articolo Regolazione europea post-crisi e prospettive di ricerca del ‘diritto dell’economia’: il difficile equilibrio tra politica e finanza, in corso di pubblicazione suRivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2016.
[5] Art. 26, secondo comma, del d.lgs. n. 180 del 2015: «Non è ammessa tutela giurisdizionale contro la valutazione, finchè non è stata adottata la decisione di cui al comma 1. Davanti al giudice amministrativo non è ammessa tutela autonoma contro la valutazione, ma essa può essere oggetto di contestazione solo nell’ambito dell’impugnazione della decisione, ai sensi dell’art. 95».
[6] Cfr. per tutti CIOCCA, La nuova finanza, Torino, 2000, cap. VI, ove si sottolinea l’interpretazione eccessivamente vincolistica data dalle autorità di settore alla normativa speciale, donde la mancata affermazione di una logica concorrenziale nel nostro sistema finanziario. Ad essa si è accompagnata una rigida applicazione del modello di banca pura che ha frenato l’ampliamento della sfera di attività degli enti creditizi, le cui linee comportamentali per lungo tempo non sono apparse riconducibili in un quadro di mercato competitivo, con ovvi riflessi a livello di sviluppo di settore.
[7] Cfr. BARBAGALLO, Audizione nell’Indagine conoscitiva sul sistema bancario italiano, Roma, 9 dicembre 2015 Camera dei Deputati Sesta Commissione Finanze, p. 13 delle bozze di stampa.
[8] Cfr. GUISO e ZINGALES, L`Italia chieda la moratoria sui bail-in, editoriale pubblicato su IlSole24Ore del 30.12.2015
[9] Cfr. la descrizione relativa al Single Resolution Mechanism, nella pagina dedicata alla Banking Union, pubblicata sul sito istituzionale www.bankingsupervision.europa.eu
[10] Cfr. ROSSANO D., Nuove strategie per la gestione delle crisi bancarie: il bail-in e la sua concreta applicazione, in Supplemento al n. 3 della Riv. trim. dell’economia, 2015, p. 277, ove si precisa che il legislatore ha rimesso alle singole legislazioni nazionali «la fissazione di criteri di indipendenza operativa idonei ad evitare la commistione tra la funzione di supervisione e quella di risoluzione (art. 3 della direttiva 2014/59/UE)….(per cui)… tali criteri devono essere oggettivi e, pertanto, la loro individuazione sarebbe dovuta avvenire in sede legislativa e non… demandata alle medesime autorità cui sono assegnati i poteri di risoluzione».
[11] Con riguardo a tali opzioni si vedano i seguenti documenti: per la Germania «German government moves forward with package of measures for European banking unional», visionabile su www. bundsfinanzministerium.de/Content/EN/Pressemitteilungen/2014/2014-07-09-package-ofmeasures-for-eurpean-banking-union.html?; per l’Olanda «DNB to become national resolution authority», su www. dnb.nl/en/news/news-and-archive/dnbulletin-2014/dnb309365.jsp; per l’Irlanda «Central Bank of Ireland designated as Ireland’s National Resolution Authority», su www.centralbank.ie/press-ara/ pressreleases/Pages/CentralBankofIrelanddesignatedasIreland’sNationalResolutionAuthority.aspx. Per la Francia, paese nel quale l’autorità di risoluzione è attivata presso la banca centrale, rileva il disposto della LOI n. 2013-672 del 26 luglio 2013.
[12] Cfr. BOCCUZZI, Assetti istituzionali, regole e procedure per la gestione delle crisi bancarie nel quadro dell’Unione Bancaria, intervento svolto nel convegno ‘La gestione delle crisi bancarie e l’ assicurazione dei depositi nel quadro dell’unione bancaria europea’, cit.
[13] Cfr. tra gli altriZAVVOS e KALTSOUNI, The Single Resolution Mechanism in the European Banking Union: Legal Foundation, Governance Structure and Financing, in AA.VV., Research Handbook on Crisis Management in the Banking Sector, Cheltenham, 2015.
[14] Cfr. CAPRIGLIONE – TROISI, L’ordinamento finanziario dell’UE dopo la crisi, Padova, 2014, p. 104 ss.
[15] Cfr. Corte Cost. austriaca 3 luglio 2015 [G239/2015], con nota di DIBRINA, ‘Risoluzione’ delle banche e ‘bail-in’, alla luce dei principi della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e della Costituzione nazionale,in Riv. Trim di Dir. Ec., 2015, II, p. 184 ss.
[16] Cfr. VISCO, Intervento alla giornata mondiale del risparmio del 2015, p. 8 delle bozze di stampa.
[17] Cfr. LENER, Profili problematici del bail-in, intervento al convegno ‘La gestione delle crisi bancarie e l’ assicurazione dei depositi nel quadro dell’unione bancaria europea’, cit.
[18] cfr. ROSELLI, Bail-in e tutela del depositante, in Apertacontrada del 22 novembre 2015.
[19] Cfr. l’editoriale intitolato «Panetta: rivedere tempi e modalità del bail-in», visionabile su www. Ilsole24ore.com/art/notizie/ 2016-01-28/ panetta-rivedere-tempi-e-modalita-bail-in-063523
[20] Cfr. l’editoriale intitolato «Vegas (Consob): decreto sul bail in da rivedere», visionabile su www.Ilsole 24ore.com/art/notizie/2015-10-22/vegas-decreto-bail-in-rivedere103629.shtml?uuid).
[21] Cfr. Intervento al 22° Congresso ASSIOM Forex, 30 gennaio 2016.
[22] Cfr. CAPRIGLIONE, Prime riflessioni sulla MiFID II (tra aspettative degli investitori e realtà normativa), in Riv. trim. dir. econ.,2015, I, p. 72 ss.
[23] Cfr. EUROPEAN COMMISSION, Banking and finance Consultations, 2015, Financial regulatory framework review, visionabile su http://ec.europa.eu/finance/consultations/2015/financial-regulatory-frame work-review/index_en.htm