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Giurisprudenza

Mala gestio dell’amministratore e ripartizione dell’onere della prova

19 Gennaio 2021

Mirta Morgese, Notaio, Dottoranda di Ricerca in Impresa, Lavoro e Istituzioni, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Cassazione Civile, Sez. I, 9 novembre 2020, n. 25056 – Pres. Genovese, Rel. Falabella

Di cosa si parla in questo articolo
Il prossimo 29 gennaio si terrà il WebSeminar di rassegna di giurisprudenza e orientamenti notarili in materia societaria organizzato da questa Rivista. Per maggiori informazioni si rinvia al link indicato tra i contenuti correlati.

Non costituisce fonte di responsabilità contrattuale dell’amministratore nei confronti della società l’inopportunità delle scelte assunte, dal punto di vista economico, ma bensì la mancata diligenza che emerge dall’aver trascurato i margini di rischio connessi a tali decisioni.

La natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società fa sì che quest’ultima sia tenuta esclusivamente a provare una qualche violazione, da parte del gestore dei propri doveri ed il nesso di causalità tra la stessa ed il danno subito dalla società. Incomberà, invece, sull’amministratore l’onere di dimostrare la non imputabilità del fatto dannoso ed il rispetto, nel caso concreto, di tutti gli obblighi previsti a suo carico. Ove, però, la violazione non riguardi un dovere sancito dalla legge o dallo Statuto, l’attore dovrà, altresì, allegare quegli elementi di contesto da cui emerge la contrarietà del comportamento assunto dall’amministratore ai generali doveri di fedeltà e diligenza, gravanti sullo stesso.

La vicenda di cui viene investita la Corte di Cassazione, nel caso in esame, riguarda la responsabilità di un amministratore delegato di s.p.a. per l’ipotetico danno cagionato alla società, a causa di alcune operazioni poste in essere nell’ambito della sua gestione. Nello specifico, in primo grado, era stata accolta la domanda risarcitoria azionata dalla società gestita, mentre nel giudizio di appello, i giudici avevano escluso ogni responsabilità dell’amministratore, diversa da quella derivante da alcune violazioni della normativa tributaria.

Si giunge, quindi, alla decisione della Suprema Corte, la quale, nella sua parte in diritto, si occupa prima di tutto di esaminare il ricorso incidentale, accogliendone uno dei motivi e cassando pertanto sul punto la decisione della Corte territoriale. Il motivo in questione riguardava esattamente la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2392 e 2697 c.c. da parte dei giudici di Appello, i quali avevano assolto l’amministratore per avere deciso che la società dovesse continuare a fornire prodotti ad un’impresa reiteratamente inadempiente, successivamente fallita, aumentando a dismisura il credito nei confronti di quest’ultima. A parere della Corte territoriale, la società gestita, nel primo atto di citazione, si era limitata a descrivere la condotta dell’amministratore, senza dimostrarne il difetto di diligenza. In particolare, si lamentava la mancata prova della conoscenza, da parte sua, dello stato di insolvenza in cui versava l’impresa acquirente i prodotti. Ad ogni modo, sempre a parere dei giudici d’Appello, la negligenza dell’amministratore doveva essere esclusa dal fatto che l’eventuale inadempimento della stessa fosse garantito da una fideiussione, concessa da un soggetto il cui patrimonio poteva presumersi, in assenza di prova contraria fornita dall’attore, capiente.

Il ragionamento così condotto nel giudizio di Appello, viene però avversato dalla Cassazione: a parere della quale, la mala gestio dell’amministratore, nel proseguire la fornitura di merce ad un’impresa già notevolmente esposta nei confronti della società, costituirebbe un comportamento anomalo e potenzialmente negligente di per sé, senza la necessità di dover provare la sua conoscenza dello stato di insolvenza, in cui si trovava l’impresa acquirente, da parte della società. Trattandosi di responsabilità contrattuale, la società avrebbe dovuto dimostrare soltanto la violazione commessa dall’amministratore e il nesso tra questa e il danno prodotto. Sotto il primo profilo, là dove concedere credito in modo ampio e reiterato non costituisce, per espressa previsione normativa o statutaria, una condotta illecita, doveva essere data prova, altresì, della contrarietà di siffatto comportamento al dovere di diligenza che ricade sull’amministratore. Dalla decisione della Corte territoriale, emerge, peraltro, come l’operazione in questione sia stata reputata incauta, in quanto altrimenti non si sarebbe preso in considerazione il valore della garanzia prestata verso l’impresa acquirente, azionabile solo in caso di suo inadempimento (fatto ritenuto, quindi, implicitamente probabile, dai giudici). Dunque, una volta comprovata la condotta negligente da parte dell’amministratore ed il conseguente danno, sarebbe dovuto essere quest’ultimo a dimostrare la sua non imputabilità, ovvero di essere stato comunque diligente, avendo perseverato a far compiere la fornitura alla società, nonostante la poca affidabilità finanziaria della controparte, confidando, sensatamente, nella capienza del patrimonio del suo garante. In definitiva, a parere della Suprema Corte, la Corte d’Appello avrebbe errato a pretendere dalla società la prova della mancanza di solvenza del fideiussore, prova che, per quanto rilevato, incombe, invece, sull’amministratore per potersi esimere da responsabilità.

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