Il fallito è privo della legittimazione ad impugnare i provvedimenti adottati dal giudice delegato in sede di formazione dello stato passivo. L’assenza di legittimazione deriva: dalla efficacia meramente endoconcorsuale dei provvedimenti; dal disposto dall’art. 43 1.f., che sancisce la legittimazione esclusiva del curatore per i rapporti patrimoniali del fallito compresi nel fallimento; nonché dalla previsione di cui all’art. 98 l.f., a tenore del quale il decreto con cui il giudice rende esecutivo lo stato passivo non è suscettibile di denunzia con rimedi diversi dalle impugnazioni tipiche ivi disciplinate, esperibili soltanto dai soggetti legittimati, tra i quali non figura il fallito.
La disposizione di cui all’art. 98, terzo comma, l.f., che esclude la legittimazione del fallito all’impugnazione dei crediti ammessi al passivo, non si pone in manifesto contrasto con l’art. 3 Cost., non potendo invocarsi il principio di uguaglianza per accomunare la posizione di tutti i cittadini a quella del fallito.
Né vi è contrasto con l’art. 24 Cost., il cui disposto non impone l’attribuzione ad ogni soggetto di identici strumenti processuali per la tutela dei propri diritti. Infatti, il provvedimento emesso dal giudice delegato ha un’efficacia limitata all’interno della procedura concorsuale e per i soli fini di tale procedura; con la conseguenza che tale provvedimento – se positivo – non costituisce per il singolo creditore un titolo per fondare una pretesa esecutiva individuale alla chiusura del fallimento, e – se negativo – non preclude al creditore di far valere il suo diritto nei confronti del fallito, tornato in bonis.
Analoghe considerazioni valgono anche con riferimento all’art. 111 Cost. e al principio del “giusto processo”, posto che la tutela giudiziaria dei diritti non deve sempre essere accordata nella stessa misura e con le stesse modalità di procedimento.