In materia di onere probatorio nel giudizio di ripetizione dell’indebito relativo a conto corrente bancario promosso dal cliente, la Suprema Corte statuisce che nel caso in cui il cliente-attorelimiti il proprio onere probatorio solo ad alcuni aspetti temporali dell’intero andamento del rapporto il giudice può integrare la prova carente, sulla base delle deduzioni in fatto svolte dalla parte, anche con altri mezzi di cognizione disposti d’ufficio, utilizzando – per la ricognizione dei rapporti di dare e avere – il saldo risultante dal primo estratto conto acquisito agli atti.
Nel giudizio relativo alla pronuncia in epigrafe, la suddetta integrazione è avvenuta mediante il ricorso, da parte della Corte d’Appello territoriale, ad una CTU le cui risultanze non possono essere oggetto di valutazione nel merito da parte della Suprema Corte. Trova infatti applicazione, nel caso di specie, il principio secondo cui, la CTU, non essendo qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, è sottratta alla disponibilità delle parti ed affidata al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale può discrezionalmente far ricorso ad una consulenza di carattere deducente ovvero anche di carattere percipiente (cfr. già Cass. n. 6155/2009).
Più nel dettaglio, la banca ricorrente censurava la decisione della Corte d’Appello che, «in mancanza di una documentazione completa, avrebbe validato la soluzione offerta dal CTU, il quale aveva ricostruito l’andamento del rapporto sulla base di “scritture contabili di raccordo”, ottenute attraverso una sorta di finzione ma senza che esistesse la prova dei singoli pagamenti (considerato che, agli atti, mancavano numerosi estratti, quali quelli relativi all’intero anno 1983, ai due trimestri degli anni 1999 e 2002 e ad un solo trimestre per gli anni 1982, 1994, 1999 e 2001) e per mezzo di cifre virtuali (pari alla differenza tra l’ultimo saldo dell’estratto periodico posseduto ed il primo successivo disponibile)».
La Suprema corte ha rilevato, al riguardo, che «avendo il correntista ottemperato parzialmente a detto onere, la Corte medesima, sulla base del proprio prudente apprezzamento, ha fatto ricorso ad una consulenza tecnica d’ufficio, compiuta attraverso la ricostruzione dell’andamento del rapporto e condotta attraverso ragionevoli e fondate ipotesi matematiche, in relazione alle quali non possono – in questa sede – darsi diverse valutazioni di merito».
La Corte Suprema ha anche affrontato la questione relativa alla necessità o meno di un’apposita domanda di parte relativa agli interessi attivi a vantaggio del correntista. Il Supremo Collegio ha affermato che gli interessi attivi sono una conseguenza naturale della chiusura di rapporto, sicché non occorre una apposita domanda in tal senso affinché il CTU li possa legittimamente includere nella determinazione del credito del correntista.
Detto principio di diritto è conforme a quanto già statuito in precedenza dalla stessa Corte (cfr. n. 4310/1977), secondo cui deve qualificarsi come «estratto di chiusura» solo quell’estratto conto che includa tutte le voci a credito e a debito, ivi compresi i diritti di commissione, le spese, gli interessi attivi e passivi maturati, le ritenute fiscali.
In punto di decorrenza degli interessi sulle somme percepite indebitamente ai sensi dell’art. 2033 c.c., è necessario distinguere a seconda che la banca sia in buona fede – con decorrenza dalla data della relativa domanda giudiziale – ovvero in mala fede, i.e. consapevole dell’insussistenza di un suo diritto a ricevere il pagamento – con decorrenza dal momento dell’acceptio.
La Suprema Corte chiarisce infine che, per la corresponsione degli interessi legali ex art. 1284 sulle somme indebite, si rende necessaria una specifica domanda di parte, in ossequio al disposto di cui all’art. 112 c.p.c.