Oramai sono diverse le sentenze dei tribunali che sanciscono la non rilevanza di un mark-to-market iniziale negativo come elemento per qualificare, o meglio, quantificare le perdite (o, in altro linguaggio, i costi occulti) sopportati dagli enti locali italiani nelle loro operazioni in derivati con numerosi Istituti di credito.
Con sentenza n. 5443/2011, la VI Sez. Civile del Tribunale di Milano ha affermato (in una causa su derivati anche se non relativa a enti locali) che il mark-to-market è “un valore che viene dato in un certo momento della sua vita ad un derivato, la cui stima involge notevoli aspetti previsionali e che di per sé non comporta alcuna giuridica conseguenza sulla posizione delle parti, non si traduce cioè in una perdita monetaria o in un obbligo di pagamento. Si tratta di una sorta di rating evoluto, ed infatti l’iniziale funzione è solo quella di consentire il monitoraggio dell’andamento del derivato, agganciandosi all’ipotesi della istantanea chiusura del rapporto”.
Con successiva sentenza n. 47421/2011 la II Sezione Penale della Cassazione, pronunciandosi sulla legittimità del sequestro preventivo (effettuato per ipotesi di truffa contrattuale) alla BNL nella vicenda dei derivati stipulati dai Comuni di Messina e Taormina, ha usato termini analoghi affermando che il dato di mark to market “non esprime affatto un valore concreto e attuale, ma esclusivamente una proiezione finanziaria basata sul valore teorico di mercato in caso di risoluzione anticipata. […] è influenzato da una serie di fattori ed è quindi sistematicamente aggiustato in funzione dell’andamento dei mercati finanziari […]”.
Parole simili si leggono infine anche nell’ordinanza del Tribunale di Terni dello scorso 8 febbraio relativa al contenzioso in essere, sempre in tema di derivati, tra il Comune di Orvieto e (ancora) la BNL.
Volendo sintetizzare, la posizione in voga presso (parte della) giurisprudenza è che il mark-to-market non debba entrare negli accertamenti sulla presenza di costi occulti ovvero sulla convenienza/sconvenienza economica di un derivato.
Chi scrive non è esperto di diritto ma possiede qualche nozione in materia di matematica finanziaria, strumenti derivati e (per esperienze professionali correnti e passate) anche in materia di funzionamento dei mercati finanziari.
Sui mercati finanziari l’alea è la quotidianità, gran parte delle scelte sono compiute in condizioni di incertezza e, quindi, assume rilevanza primaria la nozione di “scommessa equa”, ossia di un gioco (o meglio, nel nostro contesto, una transazione finanziaria, c.d. deal) che in media non genera per chi lo intraprende né guadagni, né perdite.
Il mark-to-market di un contratto derivato è strettamente legato a questa nozione: esso rappresenta il valore di tale contratto ad una certa data, indicando col suo segno (positivo, negativo, o nullo) se la scommessa è o meno equa e, ove non lo sia, fornisce una misura della sua “iniquità”.
Proprio per l’informazione fondamentale che offre, nei deal banca vs banca il mark-to-market è il primo numero da guardare per decidere se prendere posizione in un derivato e di che tipo (comprare o vendere) come pure per sapere che cosa iscrivere come profitto o perdita in bilancio. In finanza, come detto, il rischio (in gergo legale, l’alea) è naturale condizione operativa, ma se non ci fossero mezzi e metodi ragionevoli e comunemente accettati per la sua misurazione vi sarebbe anche il blocco completo dell’operatività bancaria.
Nelle transazioni tra di loro (cd interbancarie) le banche entrano in derivati in cui il mark-to-market è nullo, vale a dire la scommessa è equa. E questo perché si tratta di transazioni tra operatori ugualmente informati che quindi sanno ben valutare i possibili rischi e benefici di un contratto.
Un esempio immediato è il tasso swap che troviamo quotato su tutti i principali data provider (Bloomberg, Reuters, ecc.). Ebbene, in un contratto dove due parti si scambiano un tasso variabile (incerto) contro un tasso fisso (certo), quest’ultimo viene determinato in modo tale da rendere nullo il valore iniziale del contratto, ossia appunto il suo mark-to-market.
Se poi, per caso, il mark-to-market iniziale di un contratto fosse negativo per una parte e positivo per l’altra, stiamo certi che la prima chiederebbe alla seconda una compensazione adeguata per questo sbilanciamento. Nessuno fa regali o, come si suol dire, non esistono free lunch.
Altro aspetto rilevante. È verissimo (come ha evidenziato la Cassazione Penale) che nella vita del derivato il segno e il valore del mark-to-market possono variare. Ma questa variazione non va interpretata come una debolezza del mark-to-market bensì come l’inevitabile effetto del fatto che ad ogni istante di tempo, per le mutevoli condizioni di mercato, la “quantità” di rischio inizialmente scambiata tra le parti si modifica e in base a queste modifiche devono essere fatti ulteriori aggiustamenti. Ad esempio, nei contratti futures a fronte di variazioni favorevoli (sfavorevoli) del mark-to-market un parte riceve dall’altra (ne riceve) delle somme determinate proprio per ristabilire la parità delle due posizioni. E questo, si noti, prova che il mark-to-market è a tutti gli effetti un “valore concreto e attuale” molto più di tante altre grandezze e senza bisogno che, per la sua manifestazione “concreta”, il derivato si debba risolvere anticipatamente.
Laddove poi il derivato sia meno standard di un futures, allora l’unico cambiamento (formale, ma non sostanziale) è che le parti non si scambiano flussi di cassa giornalieri, ma l’andamento del mark-to-market continua ad avere primaria importanza. Non a caso, nella disciplina di vigilanza sulle banche, dal gennaio 2005 è stato previsto che tutti i derivati OTC con mark-to-market negativo debbano essere evidenziati in Centrale Rischi per un importo pari al mark-to-market stesso.
Passando ora ad operatori meno esperti, come gli enti locali, la posizione espressa da taluna recente giurisprudenza sembra legittimare (seppur indirettamente) un’importante differenza (o, forse, sarebbe meglio dire, disparità di trattamento).
Chiosando le sentenze citate in apertura, sembra infatti che l’implicazione sia: il mark-to-market lo puoi usare se sei una banca per capire se stai guadagnando o perdendo, ma se sei un ente pubblico allora no. In questo caso (dice non troppo velatamente la Cassazione), per capire se per una parte (l’ente) c’è stato danno e per l’altra (la banca) ingiusto profitto, non si può e non si deve cercare di capire prima. Bisogna aspettare la fine dei giochi, cioè la scadenza del derivato, e vedere allora e solo allora se l’ente ha subito una perdita. Questo (dice la sentenza) è il principio della diminutio patrimonii, che però sembra escludere ogni possibilità di “ravvedimento operoso” di un ente durante la vita del contratto.
Detto in altro modo: se un amministratore locale constata che ad ogni data di pagamento del derivato i flussi sono negativi, non può e non deve fare niente, perché il contratto è aleatorio e la sorte può girare fino a scadenza e intanto se necessario deve continuare a pagare. Assai poco tutelante per la finanza pubblica degli enti e, in prospettiva, dello Stato!
Le esigenze di “certezza del diritto” potrebbero rivelarsi insomma un po’ troppo costose per i due Comuni siciliani, per il Comune di Orvieto e per molti altri enti locali italiani. La Cassazione “cassa” il mark-to-market (negativo per i due enti e compensato solo in parte dagli upfront iniziali) ricordando che dipende “da una serie di fattori” e che è “sistematicamente aggiustato” nel tempo.
Eppure, dando un’occhiata alla struttura di alcuni dei derivati stipulati da Messina qualche certezza sembra indiscutibile. Ad esempio, c’è un interest rate swap in cui la BNL paga un tasso fisso sempre inferiore a 4,95% e riceve dal Comune il 4,95% per due periodi e poi un tasso compreso tra il 5,52% e il 7,23%. In questo caso aspettare la scadenza può solo significare che il Comune non potrà rimediare a un contratto che la stessa BNL se avesse svolto a fondo il suo ruolo di advisor difficilmente avrebbe potuto consigliargli. Ma qui si entra in un altro aspetto della vicenda: quello del conflitto di interessi che, come spesso accade, è difficilmente assente quando la banca è consulente e controparte allo stesso tempo.
Rinviando ad altre occasioni quest’ultimo aspetto, è invece opportuno qualche ulteriore commento sulla sentenza della Cassazione.
In primo luogo, sull’interpretazione del concetto della deminutio patrimonii. Girovagando su internet, si trovano molti siti interessanti su questo concetto.
In uno di questi siti si legge:
“La nozione di danno, in particolare, ha sollevato un problema interpretativo circa la sua natura, “giuridica” o “economica”. Secondo i sostenitori della prima teoria, esso consisterebbe nella perdita di un diritto o nell’assunzione di un obbligo, mentre per i secondi si potrebbe realizzare solo con una deminutio patrimonii.”
Pare dunque che ci siano due teorie e che la Cassazione abbia deciso scegliendo la seconda. Nella sentenza n. 47421/2011 la Cassazione ha infatti affermato che “nell’ipotesi di truffa contrattuale il reato si consuma non già quando il soggetto passivo assume, per effetto di artifizi o raggiri, l’obbligazione della datio di un bene economico, ma nel momento in cui si realizza l’effettivo conseguimento del bene da parte dell’agente e la definitiva perdita dello stesso da parte del raggirato”.
Eppure, è noto che la perdita corrente per un ente pubblico locale, relativa ad una posizione swap o altro derivato, è di regola quantificabile attraverso due indicatori: i flussi di cassa negativi già realizzati ed il mark to market negativo: “I flussi di cassa negativi, pagati dall’ente dalla data di stipula alla data corrente, si configurano come perdite già realizzate: esse derivano sia dal fatto che lo swap era nato già sfavorevole per l’ente alla data di stipula, sia dal fatto che il mercato si è poi mosso in maniera avversa rispetto all’ente. Il mark to market negativo, ovvero il valore monetario del contratto, è la somma che l’ente, qualora voglia cancellare in un determinato momento il contratto, dovrà pagare alla banca. Esso rispecchia la perdita attesa futura in termini di flussi di cassa, attualizzati alla data corrente e spesso i contratti alla loro data di stipula “nascondono” un mark to market negativo per l’ente, ovviamente non dichiarato dalla banca” (da “L’annullabilità in autotutela dei contratti derivati”, di Francesca Romana Faletti, Resp. civ., 2012, 1, 42, Intermediazione finanziaria).
Tornando al concetto della deminutio patrimoni, nel sito di illustre studio legale si legge:“Le norme incriminatrici che prevedono come elemento costitutivo il danno o il profitto non consentono di identificare aprioristicamente l’uno e l’altro in termini essenzialmente giuridici, economici o diversamente ancora in termini tipicamente funzionali. E’compito dell’interprete di volta in volta verificare qual è il concetto di danno o di profitto che il legislatore ha voluto privilegiare nell’ambito della singola fattispecie incriminatrice. […] Con riferimento specifico al reato di truffa assume un rilievo decisivo, ai fini di stabilire quale sia il momento consumativo, una interpretazione in termini puramente giuridici o economici della nozione di danno e di profitto. […] Il punto nodale, è quello che investe la verifica della realizzazione del danno e del profitto derivante dalla conclusione di un contratto a prestazioni corrispettive, dove il valore economico della controprestazione può anche rappresentare un certo equilibrio economico rispetto alla controprestazione.”.
Applicando questi concetti al caso esaminato dalla Cassazione pare di poter concludere che la quest’ultima abbia “scelto” una certa interpretazione del concetto di danno o di ingiusto profitto, ma che siffatta interpretazione tenda di fatto ad ignorare lo squilibrio economico della controprestazione di una parte rispetto all’altra.
Guardando agli upfront incassati dai Comuni alla sottoscrizione dei contratti e a parte dei flussi già scambiati tra le parti, la Cassazione conclude che non vi è stato danno per le due città siciliane e che i derivati sottoscritti erano per loro convenienti.
Ma il punto è che gli upfront non andavano a pareggiare integralmente lo squilibrio economico iniziale dato dal mark-to-market negativo per i due Comuni (e peraltro, sembrerebbe, neanche rivelato loro, in violazione de i generali obblighi di comportarsi secondo diligenza, correttezza, professionalità e trasparenza che il Testo Unico della Finanza – articolo 21 – impone alle banche e agli altri operatori finanziari professionali nelle loro interazioni coi clienti).
Un ulteriore pericolo connesso alla posizione espressa dalla Cassazione è legato al (limitato e, come già visto, improprio) riconoscimento della rilevanza del mark-to-market solo in caso di risoluzione anticipata del contratto. Per capire il perché, immaginiamo di accogliere per un attimo questa posizione. Allora dovremmo però tenere a mente anche che molto spesso nei casi di estinzione del contratto derivato prima della scadenza, a fronte di mark-to-market negativi per gli enti locali non si è verificata una contestuale uscita di cassa da questi verso le banche ma piuttosto una traslazione del mark-to-market negativo del contratto estinto nel mark-to-market iniziale di quello nuovo che ad esso è subentrato. Non ci sono stati cioè flussi finanziari effettivi ma solo un aumento delle dimensioni di mark-to-market negativi, con chiari problemi per la stabilità degli enti nel medio-lungo periodo. È evidente che questa prassi (che rinvia le perdite e i problemi al futuro) rischia di essere favorita da decisioni della giurisprudenza in linea con l’orientamento della Cassazione, per il quale il mark-to-market iniziale non è un “valore concreto e attuale”.
L’auspicio è che la giurisprudenza faccia un passo indietro rispetto ad interpretazioni delle norme che, ponendosi in netto contrasto con la realtà dei mercati e a teoria finanziaria, porterebbero ad inevitabili distorsioni nel trattamento di categorie eterogenee di operatori (banche vs enti locali), distorsioni poco compatibili col principio inviolabile secondo cui la legge è uguale per tutti.