Con la sentenza in esame la Suprema Corte si è pronunciata in relazione alla funzione concretamente perseguita da un patto parasociale compreso in un accordo di separazione personale tra coniugi. Tale ultimo accordo provvedeva allo scioglimento della comunione legale e dunque alla divisione dei beni rientranti nella stessa; segnatamente si ripartivano, tra le altre cose, le azioni relative ad una s.p.a. che di quella facevano parte, assegnandole per il 45% del capitale sociale alla moglie e per il 50% al marito. Il patto parasociale, invece, aveva ad oggetto la materia delle nomine dei membri del consiglio di amministrazione, del relativo presidente e dei sindaci. In specie, quanto alla formazione del cda, esso prevedeva che ciascuno dei parasoci nominasse due membri, con il quinto amministratore nominato di comune accordo; inoltre il marito aveva la facoltà di autonominarsi presidente del cda e di agire con deleghe per la gestione della società.
A seguito di un aumento di capitale sottoscritto dalla moglie anche per la parte lasciata inoptata dal marito, l’assetto proprietario si modificava, con la conseguenza che ella stessa si trovava a detenere il 97,30% del capitale e il marito il 2,5%; il patto parasociale continuava però a regolare nel modo descritto i rapporti di potere tra i due. La moglie ricorreva così di fronte alla Suprema Corte chiedendo, tra i diversi motivi, l’accertamento della nullità del patto parasociale per sopravvenuta immeritevolezza ex art. 1322 c.c.
In relazione a tale fattispecie concreta, la Corte in via preliminare ha affermato che il descritto parasociale, costituendo parte di un più ampio regolamento negoziale avente ad oggetto la divisione dei beni caduti in comunione tra due coniugi, deve essere indagato, quanto a sua meritevolezza e interpretazione, alla luce del complessivo assetto di interessi fissato dall’accordo di divisione. Nel rispondere alle censure della ricorrente, poi, la Corta ha rilevato come, con riguardo alla situazione delineatasi dopo l’aumento di capitale, il patto in questione non viola il principio generale che impedisce lo svuotamento dei poteri assembleari, né comporta un’esorbitante compressione del diritto di proprietà spettante alla moglie in relazione alla partecipazione: la durata quinquennale del patto, così come l’oggetto specifico ivi regolato – la nomina delle cariche sociali – non vengono ad incidere sul potere di controllo che sull’agire dell’apparato amministrativo la legge attribuisce all’assemblea dei soci.