1. I rischi delle criptovalute
La diffusione e l’utilizzo della valuta virtuale (o “criptovaluta”) sono connaturati con il tema del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, circostanza che ha destato sin dall’origine non poche preoccupazioni nelle Autorità.
In particolare, nel giugno 2014, il GAFI (“Gruppo d’azione finanziaria”) ha pubblicato il report “Virtual Currencies – Key Definitions and Potential AML/CFT Risks”, nel quale si è evidenziato che “le valute virtuali (…) sono l’ondata del futuro per i sistemi di pagamento e forniscono un nuovo e potente strumento per i criminali, terroristi, finanzieri ed evasori, consentendo loro di far circolare e conservare fondi illeciti, fuori dalla portata del diritto”.
Nel 2015, sulla scorta delle comunicazioni emanate in ambito sovranazionale (tra le altre, EBA Opinion on “virtual currencies” del 4 luglio 2014; ECB – Virtual Currency Schemes dell’ottobre 2012), anche l’Unità di informazione finanziaria per l’Italia (“UIF”) ha pubblicato un documento (“utilizzo anomalo di valute virtuali”) finalizzato a richiamare l’attenzione sui rischi di riciclaggio e finanziamento del terrorismo derivanti dall’utilizzo delle valute virtuali.
In primis, a renderle esposte ai summenzionati rischi concorre l’anonimato, in riferimento sia alla raccolta dei fondi sia al loro trasferimento, anche transfrontaliero.
Ancora, l’assenza di intermediari e di controlli statali. Le valute virtuali, infatti, non sono emesse da banche centrali o da Autorità pubbliche e, pertanto, esse scontano la carenza di un Organismo o Autorità che ne regoli e ne garantisca il funzionamento. Inoltre, non costituiscono moneta legale né sono assimilabili alla moneta elettronica.
In terzo luogo, ad aumentare il pericolo di degenerazione dell’utilizzo di moneta virtuale concorre, altresì, l’accesso delocalizzato, che consente di eseguire transazioni tra soggetti residenti in Stati diversi, celando così l’insidia di commerciare con Paesi che presentano carenze strategiche nelle politiche di prevenzione e contrasto al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. Infatti, le operazioni effettuate con valute virtuali avvengono prevalentemente online (soprattutto nel commercio elettronico e nell’attività di gioco), fra soggetti che possono operare in Stati diversi, spesso anche in Paesi o territori a rischio. Tali soggetti non sono facilmente individuabili ed è agevolato l’anonimato sia di coloro che operano in rete, sia dei reali beneficiari delle transazioni.
2. Il funzionamento delle valute virtuali
Esistono differenti tipologie di valute virtuali, quali Litecoin, Ripple e Bitcoin.
Su quest’ultimo, in particolare, ha posto la propria attenzione il Consiglio Nazionale del Notariato (“antiriciclaggio – compravendita di immobile – pagamento del prezzo in bitcoin” – Quesito Antiriciclaggio n. 3-2018/B) secondo il quale “il bitcoin è una tipologia di “moneta virtuale” o meglio “criptovaluta”, utilizzata come moneta alternativa a quella tradizionale avente corso legale emessa da un’autorità monetaria. La circolazione dei bitcoin, quali mezzi di pagamento, si fonda sull’accettazione volontaria da parte degli operatori del mercato che, sulla base della fiducia, la ricevono come corrispettivo nello scambio di beni e servizi, riconoscendone, quindi, il valore di scambio indipendentemente da un obbligo di legge. Si tratta, pertanto, di un sistema decentralizzato, che utilizza una rete di soggetti paritari (peer to peer) non soggetto ad alcuna disciplina regolamentare specifica né ad una autorità centrale che ne governa la stabilità nella circolazione”.
Emerge, dunque, che il sistema delle valute virtuali prescinde del tutto dalla presenza di intermediari finanziari e nessuna Autorità emette nuova “moneta” e/o ne traccia le transazioni. Tutti i passaggi vengono gestiti autonomamente e collettivamente dalla rete.
Al fine di una maggiore comprensione del fenomeno è opportuno osservare che le monete virtuali hanno due ulteriori fondamentali caratteristiche. In primo luogo, non hanno natura fisica, bensì digitale, essendo create, memorizzate e utilizzate non su supporto fisico, ma su dispositivi elettronici (ad esempio, smartphone), nei quali vengono conservate in “portafogli elettronici” (c.d. “wallet”) e sono pertanto liberamente accessibili e trasferibili dal titolare, in possesso delle necessarie credenziali, in qualsiasi momento, senza bisogno dell’intervento di terzi. In secondo luogo, le criptovalute vengono emesse e funzionano grazie a codici crittografici e a complessi calcoli algoritmici(Agenzia Entrate, ris. n. 72/E del 2016).
Infatti, il sistema bitcoin, secondo quanto da più parti affermato, consisterebbe in un innovativo sistema elettronico di pagamento che ha l’ambizione di realizzare il c.d. “contante digitale”. Il sistemautilizza la crittografia a chiave pubblica, cioè un algoritmo crittografico asimmetrico che si serve di due chiavi, generate matematicamente: la chiave privata, impiegata per “crittografare” o firmare digitalmente il documento, il “denaro digitale”, e la chiave pubblica, che viene usata per “decrittografare” il messaggio o per verificare la firma. Il legame matematico presente tra le due chiavi fa sì che la chiave pubblica funzioni solo se esiste la corrispondente chiave privata.
Ciò posto, tuttavia, è stato osservato, che “il bitcoin, come unità di misura, non ha valore intrinseco, né diretto né indiretto, il suo valore non è legato alla ricchezza economica di una comunità, ma è dato dal volume di scambi con altre valute ed è condizionato dalla domanda e dall’offerta all’interno di un mercato virtuale. Il suo valore non è condizionato da nessun tipo di politica monetaria, non esistendo un ente sovraordinato o una banca centrale a cui sono attribuiti poteri di indirizzo o di intervento sull’emissione e circolazione della moneta; ciò costituisce, da un lato, una caratteristica essenziale ed un punto di forza del bitcoin, che nella sua genesi ha avuto come obiettivo principale la decentralizzazione della politica monetaria attraverso l’eliminazione di banche centrali ed intermediari e, da altro lato, rappresenta anche il suo maggior punto di debolezza essendo il valore del bitcoin rimesso alla volubilità del mercato senza possibilità di correzione e protezione del valore della valuta virtuale attraverso manovre di politica monetaria da parte di una banca centrale. Ciò determina un’elevatissima volatilità del valore (rectius: tasso) della moneta virtuale condizionato esclusivamente dal volume degli scambi, dalla domanda e dall’offerta e dalla fiducia nel sistema o più precisamente nelle piattaforme informatiche che gestiscono gli scambi. Il rischio concreto è che ad una regolamentazione legale da parte di una banca centrale o di altro intermediario finanziario si sostituisca una regolamentazione di fatto da parte di soggetti in grado di alterare le dinamiche della domanda e dell’offerta”.
Ad ogni modo, dagli spunti forniti dal Consiglio Nazionale del Notariato (CNN) emerge come qualunque interprete che si è approcciato alla tematica delle criptovalute si sia dovuto scontrare con la difficoltà di inquadrare tale fenomeno in una categoria giuridica definita, al fine di individuarne il regime applicabile.
In questo senso, le novità apportate dal D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 90, che ha attuato in Italia la Direttiva (UE) 2015/849 del 20 maggio 2015, sono di assoluta rilevanza.
3. La regolamentazione delle monete virtuali
Il D.Lgs. 90/2017 ha introdotto una serie di modifiche alle disposizioni vigenti, tra cui il D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231 (c.d. “normativa antiriciclaggio”) e il D.Lgs. 13 agosto 2010, n. 141 (in materia di contratti di credito ai consumatori).
Le novelle riguardano essenzialmente tre aspetti:
- la definizione di “valute virtuali”;
- l’introduzione dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale quali soggetti destinatari della normativa antiriciclaggio;
- l’applicazione della disciplina dettata per i c.d. “cambiavalute” a questi ultimi.
Per quanto concerne il primo aspetto, al fine di riordinarne parzialmente il caos definitorio, il legislatore ha definito la “valuta virtuale” come “la rappresentazione digitale di valore, non emessa da una banca centrale o da un ente pubblico, non necessariamente legata ad una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente” (art. 1 co 2 lett.qq), D.Lgs. 231/2007).
Pur trattandosi di una definizionein via negationis, consente di distinguere la valuta virtuale dal concetto di c.d. “moneta elettronica”, laddove per tale si intende il valore monetario memorizzato elettronicamente, ivi inclusa la memorizzazione magnetica, rappresentato da un credito nei confronti dell’emittente che sia emesso per effettuare operazioni di pagamento e che sia accettato da persone fisiche e giuridiche diverse dall’emittente (art. 1, comma 1, lett., h-ter), D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, – “TUB”).
Fermo quanto sopra, il legislatore, allo scopo di porre un freno ai rischi di riciclaggio e finanziamento del terrorismo derivanti dall’utilizzo delle valute virtuali, ha previsto che il prestatore di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, dove per tale si intende “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale” (art. 1, comma 2, lettera ff), D.Lgs. 231/2007), sarà tenuto all’adempimento degli obblighi di adeguata verifica della clientela, di conservazione, di segnalazione di operazioni sospette, etc., previsti dalla normativa antiriciclaggio.
Al riguardo, tuttavia, occorre fare una precisazione. Infatti, i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale sono tenuti al rispetto degli obblighi antiriciclaggio “limitatamente allo svolgimento dell’attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso” (art. 3, comma 5, lett. i), D.Lgs. 231/2007).
In tal modo, rimangono fuori dal novero dei soggetti obbligati i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale che non svolgono attività di conversione, quali, ad esempio, i c.d. “wallet providers” che svolgono servizi di portafoglio digitale delle valute virtuali.
La prestazione di servizi di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso legale è fornita attraverso delle piattaforme web denominate “exchange”. In relazione alla natura giuridica che si attribuisce alla valuta virtuale, alcuni assimilano gli exchange a dei “cambiavalute”, piuttosto che a soggetti che svolgono una vera e propria attività di intermediazione finanziaria.
In questa prospettiva, infatti, il legislatore ha inteso regolamentare la disciplina dei prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale sul solco dei cambiavalute.
In particolare, con l’art. 8 D.Lgs. 90/2017 tali soggetti vengono fatti rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 17-bis D.Lgs. 141/2010, concernente “l’attività di cambiavalute”. Nello specifico, viene richiesta l’iscrizione in una sezione speciale del Registro tenuto dall’Organismo di cui all’art. 128-undecies del TUB, il c.d. “OAM” (Organismo per la gestione degli elenchi degli agenti in attività finanziaria e dei mediatori creditizi).
È bene evidenziare che la disposizione in oggetto, facendo riferimento ai “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale” e non limitando il campo di applicazione alle sole piattaforme exchange, ha una portata più ampia e, pertanto, atta a ricomprendere anche altri soggetti tra i quali i c.d. “wallet providers”, di cui si dirà a breve.
L’intento perseguito dal legislatore è quello di risolvere l’interferenza che nella prassi si è verificata tra l’attività svolta dai prestatori di servizi relativi alle valute virtuali e le attività sottoposte a riserva di attività.
L’iscrizione è subordinata al ricorrere dei requisiti specificati all’art. 17-bis, comma 2, D.Lgs. 141/2010. Così, per le persone fisiche è richiesto il possesso della cittadinanza italiana o di uno Stato UE o altri stati appositamente individuati, mentre per i soggetti diversi dalle persone fisiche è richiesta la sede legale e amministrativa o, per i soggetti comunitari, la stabile organizzazione nel territorio della Repubblica.
È rimessa in capo al Ministero dell’economia e delle finanze (“MEF”) l’individuazione delle modalità e delle tempistiche con cui i prestatori di servizi relativi all’utilizzo valuta virtuale dovranno comunicare allo stesso la propria operatività nel territorio nazionale (art. 17-bis, comma 8-ter, D.Lgs. 141/2010). Comunicazione che, peraltro, costituisce condizione essenziale per l’esercizio dell’attività stessa. A tal riguardo, il MEF in data 31 gennaio 2018, ha posto a consultazione pubblica la bozza del decreto di attuazione di tale disposizione.
Ancorché al momento in cui si scrive il documento non è definitivo, si prevede che il MEF, una volta ricevuta la comunicazione, sia tenuto a verificare la corretta compilazione del formulario, la validità dei documenti allegati e della firma elettronica qualificata o digitale, nonché il rispetto dei termini di presentazione.
Qualora ritenga la comunicazione incompleta ovvero ritenga necessario integrare la documentazione prevista a corredo della comunicazione, sospende per una sola volta i termini di presentazione e provvede a darne tempestiva comunicazione per posta elettronica certificata all’interessato affinché fornisca, con la medesima modalità di trasmissione, le integrazioni richieste, entro 10 giorni dal ricevimento del predetto avviso. Decorso tale termine, senza che l’interessato abbia provveduto, il Ministero considera la comunicazione come non pervenuta.
Il MEF inoltra, poi, i dati e le informazioni relativi a tali soggetti alla Guardia di finanza e alla Polizia postale, qualora ne facciano richiesta, al fine porre in essere le dovute attività di indagine riconducibili al contrasto del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo
Alla luce di quanto sopra, consegue, dunque, che la prestazione di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale è subordinata all’iscrizione nel Registro istituito presso l’OAM. Invece, solo una parte di tali prestatori – quelli che svolgono attività di conversione da ovvero in valuta avente corso forzoso – vengono attratti nella normativa antiriciclaggio.
4. V Direttiva Antiriciclaggio
Il legislatore europeo, con la Direttiva (UE) 843/2018 del 30 maggio 2018, ha recepito le istanze internazionali che iniziavano ad affermarsi sui temi della prevenzione dei rischi di riciclaggio e di finanziamento al terrorismo. “È […] di fondamentale importanza ampliare l’ambito di applicazione della direttiva (UE) 2015/849 in modo da includere i prestatori di servizi la cui attività consiste nella fornitura di servizi di cambio tra valute virtuali e valute legali e i prestatori di servizi di portafoglio digitale. Ai fini dell’antiriciclaggio e del contrasto del finanziamento del terrorismo (AML/CFT), le autorità competenti dovrebbero essere in grado di monitorare, attraverso i soggetti obbligati, l’uso delle valute virtuali. Tale monitoraggio consentirebbe un approccio equilibrato e proporzionale, salvaguardando i progressi tecnici e l’elevato livello di trasparenza raggiunto in materia di finanziamenti alternativi e imprenditorialità sociale” (Considerando. 8).
In particolare, l’importanza sul tema della V Direttiva Antiriciclaggio è data dal fatto che ricomprende tra il novero dei soggetti obbligati i due attori principali del mercato virtuale (art. 3, paragrafo 1, punto 3, lett. g) eh)):
- i “prestatori di servizi la cui attività consiste nella fornitura di servizi di cambio tra valute virtuali e valute aventi corso forzoso”;
- i “prestatori di servizi di portafoglio digitale” (c.d. “wallet providers”), definiti come coloro che forniscono “servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali”.
La norma europea ha introdotto anche l’obbligo per gli Stati membri di assicurare che i prestatori di servizi di cambio tra valute virtuali e valute legali e i prestatori di servizi di portafoglio digitale siano registrati, al fine di garantire una prima forma di controllo sull’operato di tali soggetti.
Sul punto il legislatore nazionale si è rivelato precursore delle esigenze di contrasto all’abusivismo sottese a queste previsioni. Come evidenziato precedentemente, in Italia, i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale che svolgono attività di conversione erano già ricompresi nel novero dei soggetti obbligati alla normativa antiriciclaggio; in secondo luogo, come si è accennato sopra, il D.Lgs. 141/2010 ha già previsto l’obbligo di iscrizione al Registro dell’OAM per i “prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale”.
Tuttavia, l’inclusione dei prestatori di servizi la cui attività consiste nella fornitura di servizi di cambio tra valute virtuali e valute reali e dei prestatori di servizi di portafoglio digitale non risolve completamente il problema dell’anonimato delle operazioni in valuta virtuale. Infatti, poiché gli utenti possono effettuare operazioni anche senza ricorrere a tali prestatori, gran parte dell’ambiente delle valute virtuali rimarrà caratterizzato dall’anonimato. Per contrastare i rischi a questo legati, le Unità nazionali di Informazione Finanziaria (“FIU”) dovrebbero poter ottenere informazioni che consentano loro di associare gli indirizzi della valuta virtuale all’identità del proprietario di tale valuta. Occorre, inoltre, esaminare ulteriormente la possibilità di consentire agli utenti di presentare, su base volontaria, un’autodichiarazione alle Autorità designate (Considerando n. 9).
Anche con riguardo a quest’ultimo aspetto l’Italia si è portata avanti con il D.Lgs. 90/2017. Infatti, la bozza del decreto del MEF si applica anche “[a]gli operatori commerciali che accettano valuta virtuale quale corrispettivo di qualsivoglia prestazione avente ad oggetto beni, servizi o altre utilità”.
L’intento delle Autorità europee è quello di definire in maniera analitica la disciplina delle valute virtuali in maniera tale che non vadano confuse con la moneta elettronica, né con il più ampio concetto di “fondi” (art. 4, punto 25, della Direttiva (UE) 2015/2366), né, tantomeno, con le valute di gioco che possono essere utilizzate esclusivamente all’interno di un determinato ambiente di gioco. Sebbene le valute virtuali possano essere spesso utilizzate come mezzo di pagamento, potrebbero essere usate anche per altri scopi e avere impiego più ampio, ad esempio, come mezzo di scambio, di investimento, come prodotti di riserva di valore o essere utilizzate in casinò online.
L’obiettivo della IV Direttiva Antiriciclaggio è, infatti, quello di coprire tutti i possibili usi delle valute virtuali.
5. Applicazione della normativa antiriciclaggio alle transazioni in valuta virtuale
Nel marzo del 2018, il CNN, rispondendo al Quesito Antiriciclaggio n. 3-2018/B, ha affrontato la questione circa la possibilità del pagamento del prezzo della vendita di un bene immobile in bitcoin (o altra valuta virtuale), in riferimento, specificatamente, alle norme antiriciclaggio.
In particolare, la fattispecie oggetto del parere era formulata nei seguenti termini: “la società Alfa, parte venditrice, e Tizio, parte acquirente, intendono stipulare un atto di compravendita avente ad oggetto un bene immobile ad un prezzo che, seppur determinato in euro, verrebbe regolato in bitcoin”.
Al fine di dare un responso al summenzionato quesito, il CNN evidenzia che nonostante il sistema bitcoin, secondo quanto da più parti affermato, consisterebbe in un innovativo sistema elettronico di pagamento che ha l’ambizione di realizzare il cosiddetto “contante digitale”, non si può non tener conto della circostanza per cui, mentre in talune transazioni effettuate in contanti il pubblico ufficiale può essere testimone di una traditio che avviene in sua presenza, con ciò rendendo in qualche modo tracciato almeno un singolo segmento del flusso anonimo del contante, l’operazione in bitcoin costituisce una transazione che potrebbe essere definita apparente. Infatti, essa proviene da un “conto”, che l’acquirente dichiara essere proprio, ad un altro conto del quale, parimenti, il venditore asserisce la titolarità, ma il tutto senza che possa esservi il minimo riscontro della veridicità di tali dichiarazioni.
Ed invero, questo aspetto investe il tema della tracciabilità delle operazioni che costituisce aspetto cardine per l’adempimento degli obblighi antiriciclaggio e sul quale il CNN fornisce una propria interpretazione.
Le operazioni in bitcoin – o in altre criptovalute – sono tracciabili in senso informatico. A tal proposito, infatti, è stato osservato che è più corretto parlare in riferimento alle monete virtuale di “pseudononimato”, non essendo del tutto preclusa la loro tracciabilità. Infatti, in una banca dati, denominata blockchain, vengono registrate tutte le transazioni avvenute, attraverso la memorizzazione di stringhe alfanumeriche, ognuna delle quali corrispondente alla relativa operazione.
Tuttavia, è opportuno precisare che questo tipo di tracciabilità non consente la puntuale “identificazione” dei soggetti che pongono in essere l’operazione, perché il sistema si fonda sulla mera verifica di credenziali informatiche. “L’utilizzo di un sistema informatico non può mai garantire, pertanto, l’identità del soggetto che effettua un accesso, essendo tale sistema unicamente programmato per abilitare determinate funzioni qualora l’utente sia provvisto delle corrette informazioni di sblocco (pin, codici, etc.)”.
Ne deriva, di conseguenza, che la possibilità di tracciamento, come sopra descritta, non è idonea all’assolvimento degli obblighi previsti dalla normativa antiriciclaggio “in quanto non consente di risalire al titolare del portafoglio virtuale” (il c.d. “titolare effettivo”).
Infatti, ai sensi degli artt. 17 ss. D.Lgs. 231/2007, i soggetti destinatari della normativa antiriciclaggio hanno l’obbligo di indentificare e verificare l’identità del titolare effettivo, cioè “la persona fisica o le persone fisiche, diverse dal cliente, nell’interesse della quale o delle quali, in ultima istanza, il rapporto continuativo è istaurato, la prestazione professionale è resa o l’operazione è eseguita” (art. 1, comma 2, lettera pp), D.Lgs. 231/2007).
Stante l’impossibilità di adempiere gli obblighi in questione, “i soggetti obbligati che si trovano nell’impossibilità oggettiva di effettuare l’adeguata verifica della clientela, […] si astengono [raccomanda il CNN]dall’instaurare, eseguire ovvero proseguire il rapporto, la prestazione professionale e le operazioni” (art. 42 D.Lgs. 231/2007).
Fermo quanto sopra, ci si chiede, altresì, se l’operazione di acquisto di beni e servizi tramite valuta virtuale possa costituire violazione dell’art. 49 D.Lgs. 231/2007, il quale vieta il trasferimento di denaro contante effettuato a qualsiasi titolo tra soggetti diversi per importi pari o superiori a euro 3.000.
In particolar modo, la citata norma prevede che i pagamenti in denaro contante per importi superiori a euro 3.000 deve avvenire per il tramite di banche, Poste italiane S.p.a, istituti di moneta elettronica e istituti di pagamento, sicché il pagamento in valuta virtuale per importi superiori alla soglia potrebbe, in astratto, porsi in contraddizione con il summenzionato precetto.
Tuttavia, occorre evidenziare che il legislatore ha previsto il limite di importo solo per il denaro contante, per tale intendendosi “le banconote e le monete metalliche, in euro o in valute estere, aventi corso legale” (art. 1, comma 2, lettera o), D.Lgs. 231/2007) e non anche per le valute virtuali.
Invero, come evidenziato dal CNN nel documento sopra citato “il riferimento del legislatore non poteva che essere rappresentato dalla moneta “fisica” e che, ad oggi, pur nell’ottica di voler riconoscere ai bitcoin la qualificazione di “contante digitale”, un’eventuale interpretazione evolutiva delle norme in parola sarebbe comunque inimmaginabile. Fermo ciò, se la finalità delle norme sul limite all’uso del contante è garantire la tracciabilità delle operazioni al di sopra di una certa soglia, attraverso la canalizzazione dei flussi finanziari presso banche, Poste S.p.A., istituti di pagamento ed istituti di moneta elettronica, le considerazioni svolte in ordine alle caratteristiche intrinseche del sistema bitcoinindurrebbero a ritenere che l’impiego di tale sistema neghi a monte la ratiodi tali norme”.
Alla luce di tali considerazioni, il CNN ritiene ragionevole l’inapplicabilità del divieto di cui all’art. 49 D.Lgs. 231/2007 a tali ipotesi: stante la non assimilabilità delle valute virtuali al denaro contante, l’istituto giuridico cui si può ricondurre il “pagamento” in bitcoin è quello della permuta di beni.
6. Conferimento di criptovaluta in sede di aumento di capitale
Si è recentemente acceso un dibattito circa l’idoneità delle criptovalute a divenire oggetto di conferimento nel capitale di una società.
In relazione a tale tematica, il Tribunale di Brescia – Sez. Specializzata in materia di Impresa – ha emesso, nel luglio 2018, una pronuncia di rigetto del ricorso presentato dall’Amministratore Unico di una S.r.l., ex art. 2436, comma 3 c.c. (decreto n. 7556/2018 del 18 luglio 2018, RG. N. 2602).
Preliminarmente occorre richiamare i requisiti fondamentali che devono avere i beni oggetto di conferimento, affinché il capitale sociale assolva la sua funzione primaria di garanzia nei confronti dei creditori.
Occorre che:
- siano idonei ad essere oggetto di valutazione;
- abbiano un mercato di riferimento;
- siano passibili di esecuzione forzata.
Per quanto concerne la possibilità di procedere alla valutazione, si evidenza che la moneta virtuale può ben essere oggetto della perizia prescritta dall’art. 2465 c.c., al fine di individuarne l’effettivo valore economico.
Tuttavia, a tale individuazione concorre l’esistenza di uno spazio in cui la stessa possa essere scambiata. In assenza di un mercato di riferimento qualsiasi valutazione risulterà autoreferenziale e, pertanto, non attendibile.
Infine, in relazione all’ultimo requisito, muovendo dalla tesi che rintraccia nelle criptovalute la natura di bene immateriale, non è da ostacolo all’idoneità delle stesse ad essere oggetto di conferimento il fatto che non siano sottoponibili ad esecuzione forzata. La giurisprudenza, infatti, è costante nel ritenere che in sede di aumento di capitale l’oggetto del conferimento non deve necessariamente identificarsi in un bene suscettibile di espropriazione forzata, bensì in una res dotata di consistenza economica (Cass. n. 936/1996; n. 4236/1998; 3946/2018).
Per quanto concerne la pronuncia del Tribunale di Brescia, sopra richiamata, questa precisa che “non è in discussione l’idoneità della categoria dei beni rappresentata dalle c.d. “criptovalute” a costituire elemento di attivo idoneo al conferimento nel capitale”, bensì “se il bene concretamente conferito nel caso di specie (…) soddisfi il requisito di cui all’art. 2464, comma secondo, c.c.”.
Il ricorso al giudice è stato presentato, ai sensi dell’art. 2436, comma 3, c.c., dall’Amministratore Unico di una S.r.l. per il rifiuto del notaio verbalizzante di iscrivere una delibera assembleare nel Registro delle Imprese. La delibera in questione aveva ad oggetto un aumento di capitale sociale a pagamento da liberarsi con beni in natura, in particolare con opere d’arte e diverse unità di una determinata criptovaluta.
Il diniego del notaio si fondava sul presupposto per cui le criptovalute, stante la loro volatilità, non consentirebbero una valutazione economica concreta del quantum destinato alla liberazione dell’aumento di capitale sottoscritto, né di valutare l’effettività (quomodo) del conferimento.
A tale censura il ricorrente si opponeva allegando la perizia, prodotta in sede di conferimento, che confermerebbe il valore del bene e il trasferimento della sua disponibilità in capo alla Società [in particolare, tramite la messa a disposizione delle credenziali (“transaction password”) del socio conferente].
Il Tribunale, anzitutto, nell’indagare la natura e le caratteristiche concrete della valuta virtuale in discussione, osserva che quest’ultima non è presente in alcuna piattaforma di scambio tra criptovalute o tra criptovalute e monete aventi corso legale, “con la conseguente impossibilità di fare affidamento su prezzi attendibili in quanto discendenti da dinamiche di mercato” e che l’unico mercato in cui questa concretamente opera è costituito da una piattaforma dedicata alla fornitura di beni e servizi, riconducibile ai medesimi soggetti ideatori della criptovaluta e nel cui ambito funge da mezzo di pagamento accettato. Da tali circostanze il Tribunale deduce che tale criptovaluta abbia “un carattere prima facie autoreferenziale dell’elemento attivo conferito, incompatibile con il livello di diffusione e pubblicità di cui deve essere dotata una moneta virtuale che aspira a detenere una presenza effettiva sul mercato”.
Premesso un excursus sulle caratteristiche fondamentali che un bene oggetto di conferimento deve possedere – cui si è fatto cenno sopra – il giudice adito rigetta il ricorso rilevando che la moneta virtuale in questione è ancora “in fase sostanzialmente embrionale, che – allo stato – non presenta i requisiti minimi per poter essere assimilata ad un bene suscettibile in concreto di una valutazione economica attendibile”.