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Giurisprudenza

Mutuo di scopo convenzionale e mutuo a «contestualizzazione» di ipoteca

29 Gennaio 2021

Luca Serafino Lentini

Cassazione Civile, Sez. I, 25 gennaio 2021, n. 1517 – Pres. Genovese, Rel. Dolmetta

Di cosa si parla in questo articolo

La banca presenta domanda di insinuazione ipotecaria nel passivo di una società fallita sua debitrice. Il titolo, che viene assunto dalla creditrice, è quello del mutuo di scopo in quanto – questa è l’espressione che, generica, emerge dal testo contrattuale – si tratta di somme «da destinare a investimenti immobiliari». Nella realtà, l’operazione, che viene garantita dall’accensione di un’apposita ipoteca, è propriamente finalizzata, invece, a ripianare una precedente esposizione debitoria della società poi fallita: di rango chirografario e frutto di scoperto di conto corrente (c.d. «contestualizzazione dell’ipoteca», secondo il gergo corrente).

Il giudice delegato esclude il credito dal passivo del fallimento, ritenendo nullo il contratto ex art. 1344 c.c. Il tribunale accoglie parzialmente il ricorso: con una motivazione incentrata nella prospettiva della simulazione contrattuale, dichiara la nullità della sola ipoteca e non del mutuo, ritenendo inesistente lo scopo dichiarato dalle parti nel contratto ma non anche la volontà di estinguere il debito pregresso mediante erogazione di un finanziamento a lungo termine, con conseguente novazione dell’originario rapporto. Ricorre quindi in Cassazione la banca, come pure il fallimento in via incidentale.

L’impianto motivazionale della pronuncia di legittimità viene a costruirsi su due distinti plessi argomentativi: il primo attiene al piano della qualificazione e dei risvolti patologici del mutuo di scopo convenzionale, per come in sé distinto dalle (varie) ipotesi di mutuo di scopo legale; il secondo investe il profilo strutturale di un contratto di mutuo in cui la somma, di cui all’erogazione, venga accreditata su un conto corrente dal debitore acceso presso lo stesso mutuante e all’epoca gravato di un saldo a debito.

Rispetto al primo profilo, secondo la Corte, la mera enunciazione, nel testo contrattuale, che il mutuatario utilizzerà la somma erogata per lo svolgimento di una data attività o per il perseguimento di un dato risultato non è circostanza per sé idonea a integrare gli estremi del mutuo di scopo convenzionale; per l’inveramento del quale occorre, di contro, che lo svolgimento dell’attività dedotta o il risultato perseguito siano in concreto rispondenti ad uno specifico e diretto interesse anche proprio del mutuante. A questo proposito, occorre che dal testo contrattuale emerga in modo univoco – pur senza la necessità, naturalmente, di enunciazioni formali o comunque standard – la destinazione della somma che le parti hanno convenuto e che regge l’erogazione nell’interesse di entrambe.

In ordine alle conseguenze derivanti dal mancato rispetto dello scopo, diversamente dalle ipotesi di mutuo di scopo legale, nel caso di mutuo di scopo convenzionale la mancata destinazione delle somme allo scopo prefissato non incide sulla validità della fattispecie negoziale, ma emerge, per contro, esclusivamente quale difetto funzionale del sinallagma contrattuale, con la conseguenza che all’inadempimento nei fatti del mutuatario può solo seguire la risoluzione del relativo rapporto.

Con riferimento al secondo profilo richiamato, la Corte ritiene che l’accredito delle somme su conto corrente intrattenuto dal cliente con la banca, e già gravato da debito, non integri gli estremi di perfezionamento della fattispecie di mutuo, venendo a mancare la traditio. Il requisito della consegna, infatti – per quanto in sé pur realizzabile in forme anche rarefatte – deve necessariamente realizzare il passaggio delle somme dal patrimonio del mutuante a quello del mutuatario e comportare l’acquisto della disponibilità giuridica delle stesse da parte di quest’ultimo.

Per sé, la vicenda traslativa si verifica anche quando la banca mutuante accredita le somme su un conto corrente intestato a un terzo, a sua volta già debitore del mutuatario: perché ciò ha come suo necessario presupposto, com’evidente, che il mutuatario impartisca al mutuante un ordine delegatorio (ad esempio, bonifico) di versare la somma, di cui alla sovvenzione, al terzo. Quando invece la somma, per ripianare la precedente esposizione del sovvenuto, venga accreditata su un conto che segna un debito verso la banca assunta mutuante di importo maggiore rispetto all’erogazione, gli effetti dell’operazione si limitano al piano meramente contabile: posta l’immediata e automatica modifica del saldo del conto del cliente (cfr. l’art. 1852 c.c.), quest’ultimo non consegue mai l’effettiva disponibilità del denaro.

L’operazione appena descritta – secondo la Corte – integra piuttosto una semplice modifica (art. 1231 c.c.) del rapporto obbligatorio precedente, per come conseguente alla conclusione di un pactum de non petendo ad tempus e non può costituire, di per sé sola, un titolo sufficiente per reggere una domanda di insinuazione al passivo.

 

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