La sentenza di primo grado emessa dalla prima sezione della Commissione Tributaria Provinciale di Pavia (sentenza n. 313 del 30 maggio 2016) mette in luce due aspetti controversi in diritto tributario: la necessità di contraddittorio anche per gli accertamenti cd. a tavolino emessi dall’amministrazione finanziaria, nonché l’esigenza di motivare adeguatamente il vantaggio tributario conseguito dal contribuente qualora a quest’ultimo venga contestata la fattispecie dell’abuso del diritto.
Nel caso esaminato dalla CTP Pavia, l’amministrazione finanziaria, dopo aver inviato un questionario al contribuente, emetteva avviso di accertamento a seguito di accertamento con adesione ai sensi dell’art. 5 bis del d.lgs. n. 218 del 1997[1], al cui interno contestava l’emissione di un prestito obbligazionario al tasso del 7% sottoscritto dai soli soci legati da vincoli di parentela, ritenendo che la condotta relativa alla deduzione degli interessi passivi integrasse abuso del diritto.
Ricorreva il contribuente lamentando: i) il mancato rispetto del contraddittorio preventivo nell’accertamento emesso “a tavolino”, in violazione delle garanzie previste dall’art. 12, comma 7 dello Statuto del Contribuente[2]; ii) l’errata applicazione dell’art. 9 c. 4 lett. c) del TUIR[3] agli interessi obbligazionari; iii) l’infondatezza della motivazione relativamente all’abuso del diritto, il cui onere della prova è posto a carico dell’amministrazione.
Partendo dalla prima doglianza, vale a dire dalla necessità di contraddittorio anche nell’accertamento con adesione, strumento accertativo oggi non più in vigore, occorre precisare che la CTP Pavia ha ritenuto parzialmente infondato lo stesso argomentando che soltanto alcune norme tributarie prevedono l’obbligo, in capo all’amministrazione finanziaria, di avviare un contraddittorio preventivo, ribadendo che anche la Suprema Corte, esprimendosi a riguardo, ha ritenuto che la garanzia del contraddittorio procedimentale di cui alla legge n. 212 del 2000 (Statuto del Contribuente) sia limitata alle sole verifiche “in loco”.
A rigore, occorre ricordare che all’interno del medesimo art. 5 bis, comma 2, del d.lgs. n. 218 del 1997, si legge che “l’adesione di cui al comma 1 può avere ad oggetto esclusivamente il contenuto integrale del verbale di constatazione”, il che non lascerebbe spazio alcuno ad un eventuale contraddittorio, in quanto il medesimo, anche se previsto, sarebbe del tutto inutile, posto che il contenuto del verbale dev’essere integralmente accettato dal contribuente, al fine di poter usufruire, in contropartita, dell’abbattimento della metà delle sanzioni[4].
Sul punto, la giurisprudenza di maggiore rilievo è rappresentata dalla sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione, la quale, con sentenza n. 24823 del 9 dicembre 2015, ha affrontato il delicato problema dell’esistenza di un generalizzato obbligo di contraddittorio all’interno dell’ordinamento tributario, nella specie, nell’ambito del procedimento amministrativo di formazione dell’atto fiscale.
Secondo la Suprema Corte, la quale opportunamente effettua un distinguo tra tributi armonizzati e tributi non armonizzati, per questi ultimi la garanzia del contraddittorio procedimentale di cui all’art. 12, comma 7 dello Statuto del Contribuente si rinviene nella peculiarità stessa delle verifiche nei luoghi di pertinenza del contribuente, “in quanto caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca, quivi, di elementi valutativi a lui sfavorevoli: peculiarità, che specificamente giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali”.
Prosegue la Corte adducendo che nemmeno tale limite è rinvenibile all’interno della legge n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo, che esplicitamente esclude dalla disciplina partecipativa i procedimenti tributari e che tale obbligo non può inoltre essere neppure ancorato agli artt. 24 e 97 della Costituzione.
Tuttavia, la medesima Cassazione, sezione VI-T, con ordinanza 12 febbraio 2016, n. 2879, ha capovolto il precedente orientamento affermando un generale diritto al contraddittorio preventivo, anche in mancanza di un enunciato normativo specifico[5]. Con tale ordinanza infatti la Suprema Corte afferma che l’omessa attivazione del contraddittorio endoprocedimentale comporti la nullità dell’atto (nella specie si trattava dell’iscrizione ipotecaria) per violazione del diritto alla partecipazione al procedimento, garantito anche dagli artt. 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, con ciò richiamando quanto statuito dalla precedente sentenza a Sezioni Unite n. 19667/2014, integralmente orientata nel riconoscere il contraddittorio endoprocedimentale “quale principio fondamentale immanente nell’ordinamento cui dare attuazione anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa”, anche alla luce di tutta la precedente giurisprudenza sul punto[6].
Tra le ultime pronunce in punto di obbligatorietà del contraddittorio all’interno del procedimento che porta all’emissione di un avviso di accertamento, è utile fare riferimento all’ordinanza della Suprema Corte del 15 dicembre 2016, n. 25959, secondo cui, richiamando quanto affermato dalla sentenza n. 24823/2015 delle Sezioni Unite più sopra esaminata, risulta fondato il ricorso dell’amministrazione finanziaria qualora, in tema di tributi armonizzati (IVA), il contribuente non abbia dato il necessario risalto alle ragioni che lo stesso avrebbe potuto far valere consentendogli di addurre elementi difensivi decisivi a suo favore.
Si potrebbe concludere asserendo che la questione, come delineata dalle Sezioni Unite nel dicembre scorso, lungi da trovare una unità interpretativa sotto un principio comune, necessiterebbe di un ulteriore chiarimento.
Inoltre, si può affermare che, anche in tema di tributi armonizzati, il contribuente debba comunque dimostrare che il contraddittorio avrebbe apportato elementi a suo favore, superando la mera formalità nell’espletamento dello stesso; secondariamente l’amministrazione finanziaria ha posto il contraddittorio come istituto nodale e strategico, centrale per la compliance (vedasi a proposito la circolare n. 16\E del 2016[7]), nonostante la stessa non possa sottacere che è obbligata a partire dal dato testuale della norma, avendo la sola possibilità di adeguarsi dapprima alla propria prassi anziché ad interpretazioni mutevoli, potendo fare riferimento alla giurisprudenza solo per rafforzare il proprio convincimento e la propria posizione, che non può non partire dal dato normativo.
La seconda e terza doglianza sono state trattate unitariamente dal giudice di prime cure. Concentrandosi maggiormente sul supposto abuso del diritto per avere il ricorrente dedotto gli interessi passivi relativi al prestito obbligazionario, la sentenza afferma a chiare lettere che è onere dell’Ufficio evidenziare la norma violata ed il vantaggio tributario conseguito.
L’amministrazione, nel caso trattato, adduce che il finanziamento emesso per il tramite del prestito obbligazionario fosse superfluo e non necessario, sostituibile con l’emissione di un finanziamento infruttifero. La questione, invero, affronta un duplice ordine di problemi, vale a dire su chi incombe l’onere della prova nella dimostrazione dell’abuso del diritto e fino a che punto l’amministrazione finanziaria possa sostituirsi alle scelte imprenditoriali, quali la decisione per uno o per altro tipo di finanziamento societario.
Premesso che la disciplina sull’abuso del diritto ha subito profonde modificazioni a seguito dell’abrogazione dell’art. 37 bis del d.p.r. n. 600 del 1973, ad opera dell’art. 1, comma 2, d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 e sostituito, in materia, dall’art. art. 10 bis, dello Statuto del Contribuente, si ritiene si configuri un abuso quando l’operazione posta in essere dal contribuente sia priva di sostanza economica la quale, pur nel rispetto delle norme fiscali, si sostanzi nella realizzazione di un vantaggio fiscalmente indebito, come tale inopponibile all’amministrazione fiscale[8]. Prosegue il comma 9 del medesimo articolo affermando inoltre che, in relazione a quanto ora affermato, grava sull’amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio.
È chiaro quindi come l’onere della prova, anche nella versione recentemente novellata, gravi sull’amministrazione fiscale[9], la quale deve interpretare e valutare i fatti alla luce del proprio convincimento circa la perpetrazione di un abuso.
Nel caso di specie, sull’Ufficio incombeva l’onere di provare come la scelta di emettere un prestito obbligazionario anziché ricorrere al prestito bancario (i cui tassi venivano ritenuti più bassi) ovvero ad un finanziamento infruttifero, risultasse economicamente ingiustificata. In effetti, dal mero dato testuale della sentenza è possibile arguire come l’amministrazione non abbia apportato elementi sufficienti a far ritenere fondata la sussistenza di un abuso fiscale, respingendo la Corte tale eccezione di parte.
L’onere di allegazione da parte dell’amministrazione avrebbe dovuto, a seguito di valutazione dei fatti, dimostrare che il vantaggio sottostante l’operazione era illecito. Ma non è tutto. Come anticipato in precedenza, all’amministrazione fiscale è precluso altresì confutare la logicità delle decisioni dell’imprenditore, in quanto queste rientrano all’interno dell’area della riconosciuta insindacabilità delle strategie imprenditoriali, che giustifica il compimento di scelte imprenditoriali apparentemente opinabili, incontrando l’autonomia dell’impresa altro limite se non quello dell’abuso del diritto[10].
Da quanto sopra esposto se ne deduce quindi che, qualora l’Ufficio non riesca a dimostrare, allegando il proprio convincimento e la propria valutazione dei fatti, che il contribuente è incorso in abuso, vale a dire che l’operazione posta in essere da quest’ultimo appare essere irragionevole dal punto di vista economico, non è nemmeno possibile valutare le scelte imprenditoriali del soggetto economico verificato, in quanto quest’ultimo gode di un’autonomia non sindacabile.
[1] Norma oggi abrogata dall’art. 1, comma 637, lett. c), n. 2), della legge 23 dicembre 2014, n. 190, a decorrere dal 1° gennaio 2015. Tale strumento accertativo è stato sostituito dal cd. nuovo ravvedimento operoso, istituito con la legge n. 190 del 2014.
[2] L’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000 così recita: “Nel rispetto del principio di cooperazione tra amministrazione e contribuente, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori. L’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza. Per gli accertamenti e le verifiche aventi ad oggetto i diritti doganali di cui all’articolo 34 del testo Unico delle disposizioni legislative in materia doganale approvato con del decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, si applicano le disposizioni dell’articolo 11 del decreto legislativo 8 novembre 1990, n. 374.”
[3] L’art. 9, comma 4, lett. c) afferma che “Il valore normale è determinato […] c) per le obbligazioni e gli altri titoli diversi da quelli indicati alle lettere a) e b), comparativamente al valore normale dei titoli aventi analoghe caratteristiche negoziati in mercati regolamentati italiani o esteri e, in mancanza, in base ad altri elementi determinabili in modo obiettivo”.
[4] Così come previsto dal comma 3 del medesimo art. 5 bis.
[5] Per un commento di tale ordinanza, cfr. C. Scalinci, La Cassazione muta ancora orientamento e riafferma il generale diritto al contraddittorio preventivo (nota a Cass., sez. VI-T, ordinanza 12 febbraio 2016, n. 2879), in Rivista di Diritto Tributario -supplemento online, 8 marzo 2016.
[6] La Suprema Corte in tale sentenza richiama infatti la sentenza Cass. Civ. Sez. Un. n. 26635 del 2009, la sentenza Cass. Civ. Sez. Un. n. 18184 del 2013, nonché la sentenza Cass. Civ. Sez. Tributaria n. 15311 del 2014.
[7] Si legge infatti all’interno della circolare n. 16/E del 2016, con riferimento allo svolgimento della ordinaria attività di prevenzione e contrasto, che “Il controllo dovrà del pari essere finalizzato alla definizione della pretesa tributaria, garantendo l’effettiva partecipazione del contribuente al procedimento di accertamento. In quest’ottica il contraddittorio assume nodale e strategica centralità per la “compliance” e, come tale, dovrà essere considerato un momento significativamente importante del procedimento e non un mero adempimento formale.
Un’attività di controllo sistematicamente incentrata sul contraddittorio preventivo con il contribuente, da un lato rende la pretesa tributaria più credibile e sostenibile, dall’altro scongiura l’effettuazione di recuperi non adeguatamente supportati e motivati perché non preceduti da un effettivo confronto.
A tal proposito, si richiama, l’attenzione dei responsabili delle strutture operative sul corretto utilizzo delle presunzioni di legge e, più in generale, dei poteri istruttori”.
[8] Per maggiori approfondimenti in merito vedasi G. Zizzo, La nozione di abuso nel nuovo art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente, in Corriere Giur., 2015, 11, 1337; A. Giovannini, L’abuso del diritto tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2016, 3, 895; G. Corasaniti, Il dibattito sull’abuso del diritto o elusione nell’ordinamento tributario, in Dir. e Prat. Trib., 2016, 2, 465; P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione ed abuso del diritto in materia tributaria: spunti critici e ricostruttivi, in Dir. e Prat. Trib., 2016, 1, 10001.
[9] Cfr. sentenza Cass. civ., Sez. V, del 30 dicembre 2015, n. 26060.
[10] Così sentenza Cass. Civ., Sez. tributaria civile, del 4 marzo 2016, n. 4345. In materia, vedasi altresì Cass. Civ., sez. tributaria civile, del 20 maggio 2015, n. 10319.