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Giurisprudenza

Nella determinazione del tasso usurario deve essere inclusa la commissione di massimo scoperto

4 Aprile 2014

Avv. Filippo Maria De Stefano Grigis

Tribunale di Roma, 23 gennaio 2014

Di cosa si parla in questo articolo

Massima

Nella determinazione del tasso usurario, stante il tenore dell’art. 644, comma 3, cod. pen., nel novero delle <commissioni, remunerazioni a qualsiasi titolo e delle spese> deve essere inclusa anche la commissione di massimo scoperto, dal che a nulla rilevano le diverse istruzioni o direttive della Banca d’Italia ai fini della determinazione del TEGM. Ciò posto, ove, nell’ambito di un rapporto di conto corrente, il CTU abbia accertato il supero del tasso soglia relativamente ad alcuni trimestri, in relazione a tali periodi non va riconosciuto alcun importo a titolo di interessi.

Commento

Il Tribunale di Roma interviene con una pronuncia, per certi versi, piuttosto discutibile. Ciò non tanto per le statuizioni sopra massimate, quanto per altri arresti, che avremo modo di analizzare, e che contraddicono la stessa disciplina delle operazioni bancarie in conto corrente. Ma andiamo con ordine. Si tratta di due giudizi riuniti per connessione oggettiva e soggettiva; il primo, diretto all’accertamento del saldo di un conto corrente aperto nel 1999, lamentando anatocismo ed usura; il secondo, di opposizione al decreto ingiuntivo emesso per l’esposizione debitoria derivante dallo stesso rapporto di conto corrente. Sull’anatocismo, il Tribunale rileva che la Banca non aveva assolto all’onere della prova sugli adempimenti previsti dalla delibera CICR 9.2.2000 per l’adeguamento dei contratti di conto corrente entro il 30 giugno 2000; dal che la capitalizzazione trimestrale, pur contrattualmente prevista, deve essere esclusa. Il Tribunale nulla aggiunge sulla eventuale legittimità di un’altra periodicità di capitalizzazione, con il che deve ritenersi che il CTU abbia escluso, correttamente, qualsiasi altra forma di capitalizzazione, anche annuale.

A questo punto, il Tribunale argomenta sull’eventuale supero del tasso soglia, ed osserva che il CTU: “ha rilevato, relativamente ad alcuni trimestri, il superamento dei limiti fissati in applicazione della l. n. 108/96”; dal che deduce: “[…] in relazione ai periodi in cui è stato rilevato il superamento dei tassi soglia non va riconosciuto alcun importo a titolo di interesse”. Precisa, inoltre, che, nel calcolo del tasso soglia, va inclusa anche la CMS, in quanto la diversa direttiva della Banca d’Italia (precedente, ovviamente, alle Istruzioni del 2009) si sarebbe risolta: “in un aggiramento della norma penale che impone alla legge di stabilire il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari”.

E’ il tema dell’usura sopravvenuta, sul quale non mancano ormai diverse pronunce di legittimità e di merito, e, da ultimo, anche la pronuncia del Collegio di Coordinamento ABF 10.1.2014, n. 77, cui altri e più autorevoli Autori hanno dedicato analisi più approfondite. Non è certo questa la sede per ripercorrerle, ma, più semplicemente, per offrire un contributo prendendo le mosse dalla sentenza in commento. Innanzitutto, il Tribunale assume che, in un rapporto di conto corrente, anche l’eventuale supero del tasso soglia nel corso di detto rapporto integrerebbe il delitto di usura presunta di cui all’art. 644, comma 3, cod. pen., mentre, apparentemente, a nulla rileverebbe che, nel momento genetico, il tasso convenuto superasse o meno il tasso soglia. Lo assume quasi fosse un postulato, senza offrire la benché minima spiegazione in merito. Ma una spiegazione va data e non può prescindere dalla fondamentale circostanza che di usura si parla perché l’usura è un delitto previsto e punito dall’art. 644 cod. pen. (mentre l’art. 1815, comma 2, cod. civ., parla appena di “interessi usurari”, dal che bisogna risalire ancora alla fattispecie delittuosa); delitto che, come tale, non può essere valutato opinando soltanto con le categorie giuridiche (e financo mentali) del civilista, ma che va riguardato, prima di ogni altra considerazione, per ciò che è, ovverosia un reato. Un reato che è posto a tutela di un determinato bene giuridico; che ha dei requisiti fondamentali, oggettivo e soggettivo, e che si consuma in un determinato momento, con la lesione del bene giuridico protetto. Tali requisiti, poi, non possono essere riguardati in modo atomistico, perché, in realtà, già definire il bene giuridico finisce per condizionare anche la determinazione del momento consumativo. Soffermiamoci, in particolare, sull’usura presunta. L’opinione dottrinale maggioritaria risolve il bene giuridico protetto in una dimensione pubblicistica, e cioè nell’interesse dello Stato ad un corretto andamento del mercato creditizio. Ora, se ciò è vero – e chi scrive lo condivide – significa che, attraverso la punizione del delitto di usura, si mira a tutelare l’ordinato svolgersi dell’economia nazionale, e non tanto, invece, la tutela del patrimonio individuale; ove “l’ordinato svolgersi dell’economia nazionale” è dato dall’insieme di tutti e ciascuno i momenti in cui le volontà di due o più contraenti si formano, si incontrano e si fondono nel vincolo negoziale. A tal proposito, è sintomatico che la Legge n. 108/96 non soltanto modificasse l’art. 644 cit., ma introducesse anche il secondo comma dell’art. 1815, comma 2, cit., e che la dizione esatta dell’ipotetica fosse e sia: “Se sono convenuti interessi usurari”; dal che il Legislatore, nell’utilizzare il verbo “convenire”, dimostrava – già allora – di voler focalizzare la protezione del bene giuridico sul momento della convenzione, vale a dire della pattuizione, sul momento, insomma, dell’incontro e fusione delle volontà dei contraenti. Momento che, peraltro, in un rapporto creditizio a tempo indeterminato, riguarda certamente la genesi del rapporto, ma non soltanto questa, dovendosi, in effetti, considerare anche tutte le altre, successive situazioni in cui la volontà dei contraenti è chiamata ad esprimersi, anche fosse soltanto in virtù dell’art. 118 TUB. L’usura, quindi, dal punto di vista della classificazione dei reati, può ragionevolmente definirsi come un reato istantaneo (pur nella consapevolezza delle diverse interpretazioni), che, cioè, viene ad esistenza e si conclude nello stesso istante; istante, che, poi, è quello dell’originaria pattuizione degli interessi o, comunque, quello in cui le parti ritornano sull’originaria convenzione e diversamente determinano la misura degli interessi.

In questo quadro, appare pienamente giustificata la norma d’interpretazione autentica di cui all’art. 1, comma 1, D.L. n. 394/2000, convertito, con modificazioni, nella Legge 28 febbraio 2001, n. 24, secondo cui:

Ai fini dell’applicazione dell’articolo 644 del codice penale e dell’articolo 1815, secondo comma, del codice civile, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge nel momento in cui essi sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento”.

Vale, in questo caso, l’antico brocardo: “In claris non fit interpretatio”. Appare, cioè, davvero fuori luogo spendersi in ulteriori sforzi interpretativi di una norma che è, già, di per sé, dettata per l’interpretazione e che, in modo assolutamente pacifico, individua il momento consumativo del reato nella pattuizione. Questo stesso momento consumativo – come visto – si ricava anche ragionando sul bene giuridico protetto dalla fattispecie dell’usura, applicando, quindi, il principio di frammentarietà della tutela penale per tale fattispecie. Tale norma, peraltro, ribadisce quanto già enucleabile dall’ipotetica di cui all’art. 1815, comma 2, cit., che recita: “Se sono convenuti interessi usurari”.

Tutto ciò posto sul piano penale, volendo ridiscendere sul piano della sanzione civile, hanno ragione coloro i quali differenziano, sul piano sanzionatorio, la fattispecie di un’usura originaria da quella di un’usura sopravvenuta (ove per quest’ultima, coerentemente a quanto sopra statuito, deve intendersi non ogni e qualsiasi supero del tasso soglia nel corso del rapporto, bensì soltanto quei momenti in cui la volontà delle parti si esprime, anche per silenzio/assenso ex art. 118 TUB): nel primo caso, la sanzione della non debenza di qualunque somma a titolo di interessi investirà l’intera durata del rapporto creditizio, mentre, nel secondo caso, essa riguarderà quel lasso temporale che decorre dalla nuova espressione della volontà negoziale sino all’eventuale successiva manifestazione della stessa volontà o, quantomeno, quel lasso temporale che decorre dalla nuova espressione di volontà e che dura fin tanto che perduri il supero del tasso soglia.

Non appare, quindi, disprezzabile la soluzione del Tribunale di Roma che, non essendo stata rinvenuta dal CTU un’usura originaria, bensì un supero del tasso soglia nel corso di determinati trimestri, ha ritenuto di comminare la sanzione della nullità (e, quindi, della non debenza di qualunque somma a titolo di interessi) limitatamente a quei trimestri.

Bene ha fatto, poi, il Tribunale a respingere la tesi (piuttosto ardita) della Banca secondo cui i fideiussori avrebbe dovuto pagare l’esposizione debitoria, dalla Banca quantificata, a semplice richiesta, senza potersi giovare dell’accertamento di tale esposizione (e, quindi, della minor somma dovuta, anzi, addirittura del saldo AVERE ricalcolato) in capo al debitore principale; tesi che stride con i più elementari principi in materia di fideiussione (in ispecie l’art. 1941 cod. civ.), oltre che – come osservato dal Tribunale – non potere mai un garante, quand’anche si fosse trattato di un’obbligazione autonoma di garanzia – rispondere per un debito accertato come inesistente.

Discutibile, invece, come il Tribunale sia giunto a concludere che tanto la Banca quanto il correntista non possono chiedere “il pagamento di somme risultanti quale saldo del conto dedotto in giudizio”, volta che “[…] ai sensi dell’art. 1823 c.c., i crediti derivanti da reciproche rimesse sono inesigibili sino alla chiusura del conto che, allo stato, non risulta essere intervenuta”. Una statuizione che sorprende non poco, perché contrasta, librescamente, con la speciale disciplina di cui all’art. 1852 cod. civ. dettata per le operazioni bancarie in conto corrente e, perché, non ultimo, l’art. 1823 cit. è ben lungi dall’essere richiamato dall’art. 1857 cod. civ.. Forse il Tribunale alludeva alla conclusione di cui a Cass. civ., Sez. III, 15.01.2013, n. 798; ma, certo, l’orientamento espresso dal Supremo Collegio ha ben altri presupposti. Una soluzione infelice, insomma, quella del Tribunale, dalla quale ci si permette di dissentire.

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