Con la Risposta n. 337 del 9 agosto 2019, l’Agenzia delle Entrate ha analizzato la qualificazione ai fini fiscali di uno strumento finanziario (asseritamente) “composto”, costituito da azioni di categoria speciale e da un’opzione put concessa dalla società emittente, IAS/IFRS adopter, al sottoscrittore delle medesime azioni. Dalla descrizione della fattispecie emergerebbe che l’opzione put fosse disciplinata in uno specifico accordo contrattuale (Investment Agreement) e non rappresentasse un diritto incorporato nelle azioni di categoria speciale.
Poiché l’opzione, iscritta dalla società nel proprio stato patrimoniale come passività finanziaria in conformità allo IAS 32, aveva ad oggetto gli strumenti di equity emessi dalla società stessa, l’istante sosteneva l’irrilevanza ai fini IRES dei maggiori o minori valori rilevati annualmente a seguito della valutazione dell’opzione con il metodo del fair value, in applicazione del principio di derivazione rafforzata.
Nella risposta, l’Agenzia delle Entrate confermava l’irrilevanza ai fini IRES delle poste iscritte a seguito alla valutazione dello strumento, pur se attraverso un iter argomentativo affatto diverso, che può riassumersi come segue:
- l’art. 5 del DM 8 giugno 2011prevede la disapplicazione del principio di derivazione rafforzata, privando quindi di rilevanza la qualificazione e classificazione ai fini della rappresentazione in bilancio, in relazione agli strumenti finanziari, i quali saranno considerati “similari alle azioni” o “similari alle obbligazioni” in applicazione dei criteri di cui all’art. 44, comma 2, lett. a) e c) del TUIR;
- ai sensi dell’art. 44, comma 2, lett. a) del TUIR, si considerano “similari alle azioni” gli strumenti finanziari la cui “remunerazione” sia totalmente rappresentata dalla partecipazione ai risultati economici dell’emittente o altra società del gruppo;
- poiché il prezzo di esercizio dell’opzione rifletteva il valore della società al netto dei dividendi medio tempore distribuiti dalla società, lo strumento finanziario (presumibilmente costituito dalla combinazione tra opzione ed azione sottostante) nei fatti realizzava una partecipazione ai risultati economici della società emittente, dovendo essere qualificato come “similare alle azioni”;
- di conseguenza, a prescindere dal relativo trattamento contabile, i differenziali rilevati a conto economico non assumono rilevanza ai fini IRES.
La risposta dell’Agenzia suscita non poche perplessità.
In via preliminare, l’Agenzia puntualizza che la risposta “prescinde dalla corretta applicazione dei principi contabili” e che resta impregiudicato il potere di controllo da parte dell’amministrazione volto alla corretta determinazione, qualificazione e quantificazione fiscale delle poste contabili e dei valori fiscali. Spiace constatare ancora una volta che, in materia di reddito d’impresa, governata dal principio cardine della derivazione rafforzata, l’amministrazione si sottragga all’onere di chiarezza proprio dell’interpello, ma rivendichi il potere di controllo. Un fondamentale principio di civiltà giuridica imporrebbe quanto meno la perfetta coincidenza tra il perimetro dei doveri di chiarimento preventivo e quello dei poteri di controllo[1].
Nel merito, contrariamente a quanto prospettato dall’istante, la valutazione dell’Agenzia pare prendere decisamente le mosse dando per assunto che l’opzione put debba essere considerata incorporata nell’azione sottostante, costituendo con essa un unico strumento finanziario. Tuttavia, è appena il caso di ricordare che, in applicazione del principio IFRS 9, uno strumento derivato non può ritenersi incorporato in un altro, dovendo invece essere considerato in via autonoma, se suscettibile di essere trasferito separatamente dallo strumento finanziario a cui è riferito. Il testo della risposta non consente di svolgere la relativa analisi in via autonoma; ma la circostanza che l’istante avesse presentato una soluzione interpretativa che prendeva le mosse da presupposti opposti a quelli assunti dall’Agenzia autorizza quanto meno un ragionevole dubbio. E’ inoltre prassi di mercato che l’opzione ed il titolo che ne forma oggetto siano disciplinati separatamente ed abbiano un diverso regime convenzionale di circolazione (essendo di norma per l’opzione prevista una possibilità di circolazione decisamente più limitata). Ragion per cui sarebbe interessante indagare quale sarebbe stata la conclusione ove l’opzione put fosse stata considerata isolatamente. Questo rappresenta un passaggio chiave dell’analisi, che risulta quindi omesso: ove il derivato fosse stato ab origine incorporato, infatti, poiché uno degli strumenti risultanti dalla relativa scomposizione contabile sarebbe stata l’azione di categoria speciale, l’art. 5 del D.M. 8 giugno 2011[2]avrebbe privato di rilevanza fiscale la scomposizione ai fini contabili.
Tanto premesso, l’Agenzia imposta l’analisi nel senso di appurare se lo “strumento finanziario” (apparentemente rappresentato dalla combinazione tra l’azione e l’opzione) debba essere considerato “similare alle azioni” ai sensi dell’art. 44, comma 1, lett. a) del TUIR e, in caso affermativo, debba quindi essere disciplinato ai fini del reddito d’impresa dall’art. 5 del D.M. 8 giugno 2011. Come è noto, a prescindere dalla relativa qualificazione civilistica e dalla causa giuridica del rapporto sottostante, ai fini delle imposte sui redditi si considerano “similari alle azioni” gli strumenti finanziari comunque denominati la cui remunerazione sia totalmente costituita dalla partecipazione ai risultati economici della società emittente o di altre società appartenenti allo stesso gruppo o dell’affare in relazione al quale i titoli e gli strumenti finanziari sono stati emessi. La norma definitoria ha la dichiarata finalità di assoggettare al regime degli utili distribuiti tutti i redditi che partecipano alla ripartizione degli utili dell’impresa[3].
Per individuare la nozione rilevante di partecipazione ai risultati, l’Agenzia richiama la Circolare 4/E del 2006, laddove la stessa Agenzia aveva chiarito che tale partecipazione dovesse essere “effettiva”, “non essendo sufficiente che la remunerazione sia soltanto parametrata agli utili della società né tantomeno che sia collegata esclusivamente a parametri finanziari […] ovvero a parametri diversi dai risultati economici di un’impresa o di un affare”[4].
L’Agenzia rileva quindi come il prezzo di esercizio dell’opzione sia fissato in misura pari al maggiore tra il fair value della corrispondente quota sociale ed il prezzo pagato dagli investitori per la sottoscrizione delle azioni sottostanti, in entrambe le ipotesi al netto dei (i) dividendi distribuiti, e di (ii) eventuali indennità contrattuali percepite[5].
L’Agenzia si fa invece portatrice di una nozione di partecipazione ai risultati del tutto nuova, e potenzialmente suscettibile di attrarre alla nozione di titoli similari alle azioni strumenti finanziari (i.e. titoli e contratti derivati) la cui valorizzazione, e non necessariamente remunerazione, dipenda dall’andamento economico dell’impresa emittente o di altra società del gruppo. Infatti, secondo l’Agenzia, la circostanza che il prezzo di esercizio dell’opzione rifletta il “valore” della società emittente e contempli lo scomputo dei dividendi distribuiti comporta un “legame” tra l’arricchimento che l’investitore può trarre dallo strumento finanziario e l’andamento economico della società che ha emesso lo strumento finanziario sottostante (azione di categoria speciale).
Ma non vi è chi non veda che il valore di ogni strumento finanziario, incorporando diritti ed obblighi nei confronti dell’emittente, dipenda necessariamente, in maggiore o minore misura, dall’andamento economico dell’emittente/controparte. E, quindi, fino dove può giungere una definizione di “partecipazione ai risultati” quale quella utilizzata dall’Agenzia?
A parere di chi scrive, la risposta non può che essere nel riportare decisamente al centro la nozione di “remunerazione” quale diritto ai frutti nei confronti dell’emittente derivante dall’investimento di capitale; così da considerare “similari alle azioni” solo gli strumenti finanziari i cui frutti riconosciuti dall’emittente stesso siano (totalmente) rappresentati dal concorso alla effettiva ripartizione degli utili distribuiti, in una posizione analoga, o quanto meno comparabile, a quella dei soci.
[1] Analoga conclusione dovrebbe discendere naturalmente dall’art. 1, comma 1 della L. 27 aprile 200, n. 2012 (statuto dei diritti del contribuente), a mente del quale “I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”.
[2] Comma 3-bis, introdotto dall’art. 1 del D.M. 10 gennaio 2018. La norma disciplina la rilevanza fiscale dell’eventuale scorporo contabile dei derivati “incorporati”, ma non troverebbe applicazione in relazione ai derivati non incorporati (stand alone). Nella fattispecie non è così chiaro, ed anzi la prospettazione dell’istante induce a ritenere il contrario, che il derivato dovesse essere considerato incorporato ai fini contabili, per essere poi oggetto di scorporo. In tale ipotesi, l’Agenzia, dopo aver respinto la propria responsabilità in materia contabile, avrebbe comunque proceduto a “ricomporre” contabilmente gli strumenti finanziari per poi interrogarsi, negandola, sulla possibilità di scorporo. Ma si tratta, evidentemente, di supposizioni di chi scrive.
[3] Come chiarito dalla Relazione Illustrativa, “è stata esclusa la rilevanza fiscale degli strumenti finanziari derivati incorporati in strumenti similari alle azioni al fine di salvaguardare i principi che presiedono la tassazione/esenzione sanciti dalla riforma del TUIR del 2003 e, quindi, non si è inciso sul perimetro di strumenti finanziari nei cui confronti trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 87 e 89 del testo unico (participation exemption ed esclusione dei dividendi).”
[4] La risalente precisazione dell’Agenzia, come evidente dal relativo contesto, intendeva chiarire come la “partecipazione” dovesse essere intesa nel senso di concreto concorso alla ripartizione dei risultati, in una posizione assimilabile a quella dei soci.
[5] La funzione dell’opzione è evidente: assicurare agli investitori una stop loss sull’investimento, da cui potranno uscire almeno in pari cedendo le azioni alla società, ad un prezzo che tenga conto di eventuali arricchimenti intervenuti nella forma di dividendi o di indennità contrattuali. Si tratta di una forma di protezione non infrequente nel caso di investimenti di preferred equity o private capital.