Con la pronuncia in commento, la Cassazione conferma la decisione del Tribunale di Salerno ed esclude in via definitiva dallo stato passivo di una società fallita il credito di un’impresa concorrente, la cui domanda di insinuazione era fondata su presupposti di fatto assai peculiari. In sintesi, il credito originava da consistenti anticipi in denaro (eseguiti in più tranches nell’arco temporale di circa un anno) a fronte di supposte forniture di merce che tuttavia la società fallita non aveva mai eseguito, e che erano poi state oggetto di risoluzione consensuale accompagnata da una scrittura ricognitiva del debito per gli anticipi ricevuti. Parallelamente, tra le medesime parti veniva pattuito un preliminare per la vendita in favore della creditrice di cespiti immobiliari, da pagarsi con la cessione pro soluto dei crediti per la restituzione degli anticipi (in favore di una società collegata alla debitrice).
L’operazione in questione veniva ritenuta, con apprezzamento di fatto fondato su una motivazione che è confermata in sede di legittimità, un’operazione di finanziamento dissimulata (o comunque un negozio “indiretto” di finanziamento) idonea a ritardare il manifestarsi dell’insolvenza della debitrice – che infatti con gli anticipi pagava i debiti correnti, alla luce di una perdita operativa già consistente e di una sottile patrimonializzazione –, accompagnata dal tentativo predatorio della creditrice (competitor della fallita) di accaparrarsi come corrispettivo i cespiti di valore presenti nel patrimonio della controparte. Il complessivo negozio in questione è ritenuto nullo per contrarietà a norme imperative ed in specie all’art. 217, comma 1, n. 4, l.f., che punisce l’aggravamento del dissesto anche a mezzo di operazioni dilatorie che espandono le dimensioni dell’insolvenza.
L’aspetto forse più interessante della pronuncia riguarda il trattamento disciplinare del credito da restituzione (art. 2033 c.c.) derivante dalla dichiarata nullità dell’operazione. La Corte di Cassazione ritiene che l’operazione in questione meriti un ulteriore giudizio di disvalore, sul differente piano della contrarietà all’ordine pubblico economico e al buon costume, con conseguente applicazione dell’art. 2035 c.c. che come noto sancisce l’irripetibilità di quanto prestato (nel caso di specie, gli “anticipi” in denaro versati).
In particolare, la Corte rileva che “nella condotta preordinatamente volta ad alterare altresì la correttezza delle relazione di mercato e a costituire fattore di disinvolta attitudine c.d. predatoria rispetto ad altro soggetto economico in dissesto, vi sia violazione delle regole giuridiche del buon costume, secondo i “principi e le esigenze etiche costituenti la morale sociale in un determinato ambiente e in un certo momento storico” (Cass. 9441/2010)” e che dunque il credito in questione, “esprimendo una posizione soggettiva … costituzionalmente tutelata in misura condizionata all’utilità sociale”, “finisce con il divenire in concreto cedevole rispetto ad altri valori omogenei parimenti protetti, quali i crediti di terzi”. In altre parole, l’erogazione in questione, in quanto idonea a ritardare l’emersione del fallimento per assicurare al creditore un vantaggio illecito, merita di essere colpita dalla regola della soluti retentio. “Sanzione” che non va peraltro nel caso di specie a beneficiare (nemmeno di fatto) l’accipiens (concorrente nell’esecuzione di un disegno contrario alla correttezza delle relazioni commerciali), ma la massa dei creditori (e quindi in ultima analisi il mercato), e che si pone da questa visuale come strumento coerente con l’obbiettivo di politica legislativa di incentivare l’emersione quanto più anticipata possibile dello stato di crisi, disincentivando l’esecuzione di operazioni di finanziamento ad imprese già decotte.