L’allarme lanciato dal Copasir(!) nei giorni scorsi sugli NPL risulta assordante in quella che appare da tempo una inspiegabile, generalizzata disattenzione (inconsapevolezza?) della politica ma anche delle “parti sociali”, su un tema tanto cruciale. Meglio tardi che mai! E’ chiaro che il problema non è meno grave – anzi, lo è sicuramente di più, risultando assai più diffuso, radicato e subdolo – rispetto a quello che in questa situazione di inedita emergenza economica ha condivisibilmente indotto il Governo ad una estensione del raggio di azione del c.d. Golden Power.
I NPL continuano ad essere presentati nel dibattito pubblico come un problema essenzialmente delle banche (occorre “ripulire” i bilanci delle banche dalla presenza dei crediti deteriorati che determina evidenti effetti negativi sull’economicità della gestione…), pur nella (in?)consapevolezza di quanto essi possano rappresentare talora una “ghiotta” opportunità per gli “investitori” che li acquistano (i crediti deteriorati da “smaltire” in non pochi casi hanno rappresentato e rappresentano unasset da comprare a “prezzi di stralcio” e dal quale poter poi estrarre un valore latente potenzialmente non indifferente… da questo punto di vista l’assimilazione anche linguistica col fenomeno dello “smaltimento” dei rifiuti – vero “oro” per chi li sappia trattare – è certamente paradigmatica e suggestiva).
Ma in un momento come quello che stiamo vivendo, regolatori e policy-makers sono urgentemente chiamati a mediare tra tutti i beni primari collettivi oggi minacciati: quello della stabilità ed efficienza del sistema bancario, certo ma non meno quello (intimamente connesso) della tenuta del tessuto imprenditoriale; diventa allora improrogabile pensare ad interventi “di sistema” capaci di conciliare virtuosamente quegli interessi, evitando altresì che opacità del mercato, asimmetrie informative e fenomeni di free-riding determinino destabilizzanti e occulte traslazioni di ricchezza tra risparmiatori inconsapevoli – equity-holders delle banche sacrificati sull’altare degli aumenti di capitale iperdiluitivi causati dalle perdite di bilancio effetto di frettolose dismissioni – e lungimiranti investitori pronti ad intervenire come “salvatori” in quelle operazioni di ricapitalizzazione delle banche; il tutto con ricadute (dirette e indirette) in campo sociale che non possono più essere ignorate.
Il problema si pone oggi con particolare urgenza per quei NPL – più spesso meglio qualificabili in termini di UTP (Unlikely To Pay) – vantati dal sistema bancario, tipicamente in maniera polverizzata, verso debitori di natura corporate e tipicamente piccole-medie imprese (PMI) che, nel momento della crisi attuale e/o prospettica, possono/potranno intraprendere percorsi virtuosi di uscita da essa, presentandone i presupposti, attraverso il ricorso alle molteplici procedute giudiziali o stragiudiziali approntate in questo ultimo decennio da molti legislatori europei e, tempestivamente, anche dal nostro e ad altre a cui occorrerà pensare nel l’immediato futuro.
Proprio con riferimento, allora, a questa categoria di UTP, occorre ripensare urgentemente e criticamente a quella che sin qui è spesso apparsa come una vera e propria petizione di principio; quella in base alla quale – nell’ottica delle banche – la riduzione dello stock di NPL (secondo il modello c.d. portfolio reduction) e l’abbattimento del NPL Ratio (un vero “mantra”, ripetuto dai più senza considerare le ben diverse modalità con cui quell’obiettivo può essere perseguito… con ben diversi effetti sui vari stakeholders), ricorrendo allo schema della “cartolarizzazione”, sia sempre e necessariamente la strada migliore ed auspicabile; strada resa però assai discutibile dall’assenza spesso di un efficace mercato “secondario” dei crediti, capace di esprimere valutazioni e prezzi razionali e trasparenti.
E tuttavia, anche laddove fossero presenti mercati secondari di NPL razionali, efficienti e trasparenti, cionondimeno l’approccio “acritico” al modello della cartolarizzazione (sempre e comunque) presenta l’ulteriore rilevante limite di non considerare mai le ricadute e gli impatti che si determinano su una categoria centrale di stakeholders, tendenzialmente negletta nel dibattito specialistico e pubblico sui NPL, oltreché nell’ambito di iniziative legislative (anche europee) assai discutibili: quella dei debitori.
Nella narrativa sugli NPL, considerare il “credito” alla stregua di un “bene” qualunque – e non di una “relazione” – per di più in una prospettiva unidimensionale, senza valutare le rilevantissime e delicate conseguenze/ricadute/significati (anche culturali e financo simbolici) che esso viene ad assumere nella prospettiva (invertita) del debitore, appare un limite di quel dibattito e delle molte iniziative legislative e regolamentari sin qui messe in campo.
Si impone dunque l’urgenza di recuperare, con particolare riguardo agli UTP un c.d. debtor level approach finora sostanzialmente ignorato. Da questo punto di vista, il modello operativo della cessione a terzi (cartolarizzazione) ignora e sacrifica la prospettiva del sistema imprenditoriale per il quale dovrebbe essere evidente il rischio di un radicale cambio di paradigma nella relazione col creditore che intervenga all’improvviso. Il rischio di un’apertura violenta, indiscriminata e improvvisa del mercato dei crediti deteriorati a soggetti investitori spesso lontani dagli interessi sottesi a quei crediti e (pur legittimamente) guidati da una logica eminentemente finanziaria, è infatti quello di una irrimediabile destabilizzazione e/o “colonizzazione” di buona parte del sistema imprenditoriale nostrano. Sia quello che risultava già impegnato – prima della pandemia – nel percorso di uscita dalla crisi, sia quello rappresentato dalla moltitudine di imprese che la crisi la dovranno affrontare ora, dando luogo a volumi immensi di nuovi UTP.
Oggi più che mai, il sistema economico ha quindi bisogno di poter contare sulla presenza di creditori che siano interlocutori “empatici”, esperti, pazienti e costruttivi e sulla disponibilità di meccanismi e schemi operativi finalizzati ad agevolare e magari ad imporre – in presenza di una pluralità di creditori bancari esposti verso lo stesso debitore – una concentrazione delle posizioni creditorie (altrimenti polverizzate e rappresentative spesso di interessi disomogenei o talora conflittuali), in un unico interlocutore professionale del debitore, così come avviene con il modello virtuoso di gestione degli UTP rappresentato dai “Fondi di Ristrutturazione”, oggetto del recente intervento di Banca d’Italia-Consob-IVASS, commentato in questa sede nei giorni scorsi. Quello della concentrazione delle posizioni creditorie è infatti un fattore determinante e vincente – estraneo al modello della “cartolarizzazione” e anche a quello della “gestione in-house” – per ottenere efficienti e accelerati processi di ristrutturazione/recovery, altrimenti destinati a rimanere impantanati in defatiganti, inconcludenti ed eterni “tavoli interbancari”. E questo fattore cruciale per la tenuta del sistema del sistema imprenditoriale che sarà endemicamente colpito dalle crisi aziendali, non è certo antagonista rispetto all’interesse del sistema bancario (e di tutti i suoi vari stakeholders); è oggi possibile e doveroso, dunque, incentivare il ricorso a strumenti capaci di allineare virtuosamente gli interessi bella banca con quelli dell’ impresa – in una nuova “alleanza” – essendo evidente come entrambe possano solo beneficiare dall’approntamento di schemi di intervento capaci di razionalizzare, efficientare e velocizzare i percorsi di ristrutturazioni aziendali, recuperando il valore embedded negli UTP e mantenendolo all’interno della banca senza disperderlo all’esterno.
Non pare dunque oggi azzardato pensare a misure normative che, perlomeno transitoriamente, sospendano la possibilità per le banche di ricorrere al modello “cartolarizzazione” – limitando il regime di libera cedibilità degli UTP e magari associandolo ad un regime di loro subordinazione quale “quasi-equity”, come proposto nella interessante “provocazione” avanzata da Maurizio Irrera in questa stessa sede – e prevedano invece meccanismi di “creditor drag along” che inducano (impongano a) le banche di ricorrere in maniera coordinata a quella nuova strategia di gestione pro-attiva dei NPL, allineando e coniugando efficacemente i propri legittimi interessi (e quelli dei loro azionisti) con un approccio debtor level che preservi al contempo tessuto imprenditoriale, valori aziendali, livelli occupazionali, e territorio.