Trascorsi ormai quasi 20 anni dai più noti crack finanziari che coinvolsero un gran numero di risparmiatori italiani, la Corte di Cassazione continua ad essere chiamata a pronunciarsi su questioni che muovono dalle peculiari vicende, anche processuali, dei contenziosi sul c.d. ‘risparmio tradito’.
Tra tali questioni una, in particolare, aveva sino al 2019 visto dividersi la Giurisprudenza, anche della stessa Suprema Corte, e cioè la legittimità dell’uso c.d. ‘selettivo’, da parte dell’investitore, della nullità di protezione prevista dall’art. 23 del Testo Unico della Finanza nel caso di inosservanza della forma scritta per il contratto quadro di intermediazione (che, ai sensi del relativo terzo comma, “può essere fatta valere solo dal cliente”).
Ed infatti, di fronte ad un intermediario che, vistosi contestare la nullità del contratto quadro per carenza di forma, eccepisca i risultati complessivamente favorevoli delle altre operazioni eseguite nell’ambito di quel medesimo rapporto nel quale ricadeva l’operazione oggetto di causa, la Prima Sezione della Cassazione aveva manifestato una disparità di vedute, ben rappresentate rispettivamente dalla sentenza n. 8395/2016 e n. 6664/2018. Nella prima, il regime giuridico delle nullità di protezione operava, sotto il punto di vista processuale e sostanziale, esclusivamente a vantaggio dell’investitore, senza quindi che l’intermediario potesse avvalersi della dichiarazione di nullità del rapporto in relazione alle conseguenze che ne potessero scaturire a suo, anche solo parziale, vantaggio (eccependo le plusvalenze incassate dal cliente con le ‘altre’ operazioni). La seconda opzione, al contrario, vedeva il regime di protezione esaurirsi nella legittimazione esclusiva del cliente a far valere la nullità del contratto quadro, mentre i conseguenti effetti caducatori (delle operazioni) e restitutori restavano fruibili anche dall’intermediario, financo per importi che risultassero superiori a quello del petitum introdotto dall’investitore/attore (pari al controvalore della singola operazione contestata).
A tale divergenza le Sezioni Unite hanno come noto posto rimedio con la sentenza n. 28314 del 2019 (per un commento della quale si veda Pisapia V., Intermediazione finanziaria: le Sezioni Unite sull’uso selettivo della nullità di protezione, novembre 2019, su questa medesima Rivista) che muove dal rilievo che “la questione della legittimità dell’uso selettivo delle nullità di protezione nei contratti aventi ad oggetto servizi d’investimento possa essere risolta ricorrendo, come criterio ordinante, al principio di buona fede” per poi chiarire che a tal fine dovrà procedersi ad “un esame degli investimenti complessivamente eseguiti, ponendo in comparazione quelli oggetto dell’azione di nullità, derivata dal vizio di forma del contratto quadro, con quelli che ne sono esclusi, al fine di verificare se permanga un pregiudizio per l’investitore corrispondente al petitum azionato”.
In buona sostanza, qualora dalla verifica dei risultati delle altre operazioni emerga un complessivo guadagno per l’investitore, in quanto maggiore del petitum da questi ‘selezionato’ come effetto della nullità dell’intero rapporto, l’intermediario potrà vedersi accogliere l’eccezione di buona fede eventualmente articolata “al fine di non determinare un ingiustificato sacrificio economico in capo all’intermediario stesso”, ma senza che l’effetto possa andare oltre la neutralizzazione delle restituzioni conseguenti alla dichiarazione di nullità ‘a catena’ della singola operazione censurata dall’investitore. Qualora invece lo sbilancio tra risultati (positivi per il cliente) delle altre operazioni e risultati (negativi) dell’ordine contestato risulti comunque in danno di quest’ultimo, l’effetto paralizzante dell’eccezione di buona fede non sarà integrale, ma limitato a quello che le SS.UU. definiscono il “vantaggio ingiustificato conseguito”, con conseguente condanna dell’intermediario pari a tale sbilancio.
Quanto alle ricadute che potremmo definire processuali, nel 2019 le Sezioni Unite si sono limitate ad aggiungere che l’eccezione di buona fede così delineata “non è configurabile come eccezione in senso stretto” (ed è quindi sottratta alla decadenza di cui all’art. 167 c.p.c.) ma “deve essere, tuttavia, oggetto di specifica allegazione”.
Ecco quindi che l’interesse, in fase di applicazione del principio fissato dalle Sezioni Unite, si sposta -tra l’altro- sulle implicazioni istruttorie dell’accertamento dei risultati complessivi delle ‘altre’ operazioni. Ed è sotto questo particolare profilo che merita di essere segnalata la sentenza che qui passiamo rapidamente ad esaminare, depositata dalla Prima Sezione della Cassazione il 22.10.2020 con n. 23168 (cfr. contenuti correlati) e che fornisce utili indicazioni sulle modalità con le quali l’intermediario può arrivare a quantificare all’’interno del processo detti risultati, che l’investitore/attore ha -comprensibilmente- interesse a non far emergere.
Cominciamo quindi col dire che per la Cassazione l’intermediario dovrà allegare che “gli investimenti, relativi agli ordini non coinvolti nell’azione, abbiano prodotto vantaggi economici per l’investitore”. Potrà inoltre, come era avvenuto nel caso di specie, veder ammettere una CTU atta a quantificare il risultato complessivo del rapporto di intermediazione titoli. Al riguardo pare interessante descrivere il contraddittorio svoltosi nella fase istruttoria del giudizio di merito, dove il CTU incaricato si era visto opporre dagli investitori/attori un rifiuto a consegnare documenti ulteriori a quelli già in atti e dai quali poter (evidentemente) ricavare la prova di risultati positivi conseguiti alle ‘altre’ operazioni; il Consulente dell’Ufficio si era così visto costretto a ricostruire gli esiti dell’intero rapporto sulla base dei documenti già in atti (e che si immagina essere di provenienza della sola Banca) anche con riferimento alla “valutazione del portafoglio titoli all’epoca del loro trasferimento presso altra banca” (peraltro avvenuto cinque anni dopo il default argentino che aveva coinvolto i bond per cui è causa).
Sulla scorta di tale impostazione la Cassazione rigetta il motivo di ricorso, articolato dagli investitori, che contestava una carenza di prova in relazione alla composizione del deposito titoli ed in particolare al fatto che solo presuntivamente se ne era sostenuta una sua “formazione imputabile a soli acquisti intermediati dalla banca stessa”. Al riguardo la Suprema Corte osserva come la sentenza di appello avesse ben “chiarito che le operazioni affidate al consulente, pur se limitate ai documenti prodotti dalle parti” (essendovi stato il “rifiuto dei ricorrenti di permettere l’acquisizione ulteriore rispetto agli ordini di acquisto oggetto di domanda di nullità”), si erano “comunque espletate sul rapporto di debito-credito proprio dell’intero contratto di intermediazione finanziaria”. Definisce inoltre corretto il modus operandi,seguito dal CTU, di ritenere l’intero portafoglio titoli come generato da operazioni intermediate dalla Banca (con conseguente possibilità di portare in detrazione alla condanna i risultati positivi ottenutine dagli investitori) avendo i controricorrenti solo genericamente ipotizzato “una potenziale affluenza di titoli da altro intermediario” e non essendo essi riusciti a dimostrare “un diverso, più selettivo, andamento del medesimo rapporto e del suo esito finale, per come desunto dagli estratti conto”, non risultando “elementi puntuali indicativi di valori di carico differenti in capo ad altro soggetto trasferitario del portafoglio”.
Pare quindi di poter trarre dalla sentenza in commento alcuni spunti utili per la distribuzione degli oneri probatori e, conseguentemente, per l’accertamento anche a mezzo di CTU dei complessivi risultati di un rapporto travolto dalla dichiarazione di nullità. In particolare, il probabile rifiuto degli investitori a esibire, anche in sede di perizia, documentazione attestante le operazioni chiusesi in attivo, non impedisce il relativo accertamento da parte del Consulente, eventualmente a mezzo di presunzioni. Come, ad esempio, quando non sia esattamente ricostruibile l’andamento del dossier titoli sin dalla sua apertura, o non sia analiticamente verificabile il prezzo di ‘scarico’ verso altro depositario al momento della sua chiusura.
In altre parole, se da un lato è prevedibile il rifiuto dell’investitore/attore a produrre documentazione a sé sfavorevole, dall’altro lato risulterà consigliabile per l’intermediario/convenuto procedere ad una quanto più completa ricognizione dei risultati delle ‘altre’ operazioni, e ciò possibilmente già in fase di istruttoria della posizione contenziosa non appena dovessero emergere criticità formali relative all’instaurazione del rapporto (in tal modo potendosi sollevare l’eccezione di buona fede, nei limiti previsti dalle Sezioni Unite, prevedendosene già l’esito). Fermo restando, come appena visto, che a tale ricostruzione di risultati potrà giungersi anche nel processo a mezzo di CTU, e senza che l’eventuale atteggiamento ostruzionistico dell’altra parte possa impedirlo.