In materia di servizi di investimento, a fronte di una domanda di nullità protettiva esercitata dall’investitore in termini selettivi, il mezzo processuale al quale è legittimato l’intermediario per paralizzare gli effetti della dichiarazione di nullità degli ordini selezionati, non è una contrapposta azione di nullità, bensì l’eccezione di buona fede.
In particolare, la Suprema Corte ha chiarito come appaia errato il riferimento codicistico alla vis espansiva dell’art. 36 c.p.c., poiché la connessione oggettiva qualificata tra la nullità selettiva, azionata dall’investitore, e la nullità radicale del contratto d’investimento, promossa dall’intermediario in via riconvenzionale, frustrerebbe la ratio di tutela finale che comunque l’istituto di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 3 in una lettura di coerenza costituzionale ai sensi degli artt. 2, 3, 41 e 47 Cost., intende assicurare proprio circoscrivendo l’azione stessa al solo investitore.
All’intermediario, dunque, è normativamente precluso far accertare non solo in via autonoma (art. 2033 c.c.), ma anche come iniziativa riconvenzionale, la nullità dell’intero contratto quadro ove l’effetto sia, anche solo potenzialmente, quello di giungere ad una pronuncia restitutoria per un debito a carico dell’investitore, cioè del soggetto che la norma intende proteggere, imponendo requisiti informativi specifici, una condotta di elevata ed adeguata informazione e, per quanto qui d’interesse, una forma contrattuale apposita a pena di nullità, anche in deroga agli artt. 1421 e 1422 c.c..