Prima di leggere la sentenza delle Sezioni Unite n. 28314 del 4 novembre 2019, sulla nullità c.d. selettiva, conviene rileggere la sentenza delle Sezioni Unite 3 giugno 2013, n. 13905, sulla nullità del contratto di investimento, concluso fuori sede con l’investitore retail, per la mancata indicazione della facoltà di recesso.
Subito dopo aver affermato il principio che estendeva quella severa ipotesi di nullità testuale a tutti i servizi di investimento, non confinandola al solo servizio di collocamento, la Corte di cassazione, nel 2013, passava a porsi un non-problema che risolveva con un non-principio.
Il non-problema era questo: che <<durante il periodo di sospensione degli effetti del contratto le condizioni di mercato po(ssono) mutare, prestandosi così a comportamenti opportunistici da parte dell’investitore>>. Un non-problema, perché il dato fattuale per cui l’alea propria di qualsiasi strumento finanziario determina mutamenti di valore sia nel periodo iniziale di riflessione sia nel corso dell’intero processo è un dato fattuale troppo ovvio per immaginare che il legislatore, sancendo quella nullità, non lo abbia considerato. Un dato ovvio per qualsiasi investimento finanziario, per qualsiasi contratto aleatorio, per qualsiasi contratto commutativo caratterizzato da alea economica, perché inciso da possibili variazioni di valore.
Il non-principio era questo: che <<il rischio di un utilizzo non corretto del diritto di recesso potrà eventualmente, ove si dia il caso, essere neutralizzato invocando il principio generale di buona fede>>. Un non-principio, perché nessuno ha mai saputo, dal 2013 ad oggi, e nessuno sa, che volto abbia l’investitore che impugna in modo scorretto un investimento, invocando la nullità da mancata indicazione della facoltà di recesso, salvo identificare l’investitore scorretto con qualsiasi investitore che all’atto di notificare la citazione stima di ottenere un guadagno dalla declaratoria di nullità, quindi con chiunque ricorre alla nullità con un minimo di sale in zucca.
Il principio è la buona fede, bisogna trovare l’investitore scorretto separandolo dall’investitore corretto, ma nessuno sa come si fa.
Pensammo, allora, che fosse un peccato che le Sezioni Unite avessero affermato un non-principio: il principio X, che però è Y alla condizione Z, che non si sa quale sia, o, se si sa, è quella condizione che cancella del tutto il principio X, sostituendolo con il principio Y.
Oggi, la buona fede è di nuovo protagonista nella vicenda delle nullità dei contratti finanziari, ma in modo diversissimo.
Le Sezioni Unite del 2019 affermano che la nullità per difetto di forma del contratto di investimento, quindi dei singoli atti di investimento, può essere fatta valere soltanto dal cliente, ma, se il risultato utile dell’azione per il cliente è 10, in ragione degli atti di investimento impugnati, occorre ridurre, se del caso fino a 0 (non oltre, perché la legittimazione è relativa, e il segno della condanna non può invertirsi), la misura delle restituzioni a favore del cliente, il quale non è in buona fede se sceglie di impugnare, tra gli investimenti compiuti dopo aver concluso un contratto quadro nullo per difetto di forma, solo quelli svantaggiosi.
A differenza del 2013, la regola è chiarissima: la regola è una sottrazione aritmetica.
Non è chiaro però come e perché una sottrazione aritmetica costituisca applicazione della regola di buona fede.
Come nel 2013, la sensazione è che la buona fede sia una narrazione, buona a condurre alla creazione giurisprudenziale di qualsiasi regola operativa, più o meno prevedibile.
Che la regola operativa sia poi enunciata dalla stessa Cassazione che ha affermato il principio di buona fede, come nel 2019 accade alla sottrazione aritmetica, o che la sua creazione sia affidata ai giudici di merito, dopo che la Cassazione ha affermato il principio, come nel 2013 accadeva per l’identificazione dell’investitore scorretto, è un dettaglio.
Personalmente dichiaro che:
– l’egoismo è una virtù del contraente (giusto azionare in corte una nullità, se e perché si giudica ex ante che ciò conviene, negli investimenti finanziari, nei contratti aleatori, nei contratti commutativi che presentano alea economica);
– è in corte, davanti al giudice, che il diritto svela la sua vera identità: e l’egoismo in corte, se accentuato, può essere un autogol (delicato, azionare una nullità senza ponderare saggiamente se detrarre da sé i guadagni, non valutando se rassegnarsi a rinunciare ad agire, quando il vizio, come la nullità per difetto di forma, è di quelli che si estendono a tutti gli investimenti, e i guadagni sono uguali o superano le perdite);
– l’applicazione di regole consolidate, diverse dalla narrazione della buona fede – regole, su cui riflettere in altra sede, non a caldo – avrebbe consentito alle Sezioni Unite di pervenire comunque alla soluzione di evitare gli esiti indesiderabili dell’esercizio della nullità c.d. selettiva per vizio di forma del contratto di investimento (il problema è un altro e la soluzione è un’altra se il vizio censurato concerne i singoli atti di investimento).
Siccome però le Sezioni Unite sono le Sezioni Unite, comincia ora, e deve cominciare, la stagione dei commenti costruttivi a queste Sezioni Unite del 2019, anche perché gli effetti del principio affermato dalla sentenza n. 28314 cominciano a sgorgare, già nei processi in corso.
Se il giudice crea il diritto, chi commenta pensi da giudice, scriva pochissimo sui massimi sistemi e riservi la fatica del pensiero a elaborare esempi concreti di quando il giudice deve, e quando invece non, respingere la domanda dell’investitore motivando che l’azione di nullità è stata esercitata contro la regola di buona fede oggettiva, tenendo presente, nel segno di un’ideale continuità – che significa anche ricerca di coerenza del diritto finanziario – la sentenza n. 13905 del 2013 sulla nullità da mancata indicazione della facoltà di recesso, e non dimenticando che, se si ammette che è un problema, il problema dell’impugnazione c.d. selettiva da parte dell’investitore riguarda, e sempre più riguarderà, vizi diversi dalla nullità testuale per difetto di forma.