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Omesso versamento di imposte e ‘crisi di liquidità’ da Covid-19

17 Luglio 2020

Emanuele Angiuli, partner, Nicolò Biligotti, associate, Fornari e Associati

Di cosa si parla in questo articolo

Sommario: Premessa. 1. Le fattispecie di reato (ad oggi) rilevanti. 2. Il (rigoroso) orientamento della giurisprudenza di legittimità. 3. Le prospettive esimenti della ‘crisi di liquidità’ post Covid. 3.1. L’omesso versamento di IVA non incassata dal contribuente. 3.2. L’omesso versamento di IVA e ritenute dovuto a ‘causa di forza maggiore’. 3.3. L’omesso versamento di IVA giustificato da finalità sociali. 4. Conclusioni.

 

Premessa

Ciò che si auspica è che quello in corso di svolgimento sia l’inizio di un percorso di costante e graduale riduzione delle limitazioni imposte alla libertà personale dei singoli e all’attività delle imprese, destinato a concludersi con la definitiva archiviazione dell’emergenza sanitaria all’indomani della sintesi del vaccino.

Eppure – anche muovendosi all’interno della più rosea delle prospettive – permane il dato di fatto che vede il Covid-19, pur se rapidamente debellato, lasciare in eredità una pesante crisi economica suscettibile di protrarsi per un lasso di tempo ben maggiore di quello che caratterizzerà l’emergenza sanitaria.

Al pari di quella sanitaria, anche la crisi economica necessita dunque di un vaccino e, esattamente in questo senso, si sono finora mossi una serie di interventi normativi contraddistinti dallo stesso carattere di eccezionalità proprio del fenomeno in corso. Non solo l’iniezione nel mercato di ingente liquidità posta sotto garanzia pubblica [1], ma altresì l’inedita (e temporanea) rivisitazione dell’impianto normativo di diritto societario-fallimentare, che ha indotto – tra l’altro – il parziale rinvio dell’entrata in vigore del nuovo Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza [2], la sospensione della postergazione del finanziamento all’impresa in crisi da parte del socio [3], la sospensione delle norme disciplinanti la riduzione del capitale sociale per perdite e la tutela della soglia legale minima di capitalizzazione delle società [4], nonché il cambio di paradigma circa la valutazione contabile del requisito di continuità aziendale [5]. Per quanto attiene specificatamente al versante tributario, inoltre, l’intervento normativo posto in essere dalla legislazione di emergenza si è concentrato principalmente sulla temporanea sospensione dei versamenti dei contributi, delle ritenute e dell’imposta sul valore aggiunto per le imprese afferenti a settori o a province significativamente colpite dalla crisi in corso, nonché sul generalizzato differimento delle scadenze previste per i rispettivi pagamenti.

Complessivamente considerati, dunque, gli interventi finora elevati dal legislatore a ‘vaccino’ della crisi economica risultano sorretti da una precisa ratio unitaria, la stessa da cui uno dei principali testi di legge ha tratto il proprio nome: fornire ‘liquidità’ a quella parte preponderante di tessuto imprenditoriale italiano ora composta da imprese sane e – in condizioni fisiologiche – capaci di operare sul mercato in modo sostenibile e concorrenziale, seppur al netto del deterioramento delle risorse immediatamente disponibili scaturente dalla limitazione, se non interruzione, dell’attività imposta dall’emergenza sanitaria.

Colta in questi termini, la ‘crisi di liquidità’ delle imprese italiane – lungi dall’essere una dinamica occasionale e di breve respiro – assume la portata di un evento endemico destinato a costituire il principale ostacolo alla ripartenza economica delle unità produttive. Non solo nell’immediato, ma per mesi (se non anni) avvenire. Esattamente in questa prospettiva, d’altronde, il fenomeno è stato riconosciuto ed oltretutto normato nei termini anzidetti.

Colta dalla visuale del diritto penal-tributario (posta a fondamento del presente contributo), l’endemica ‘crisi di liquidità’ in atto si candida dunque ad assumere le vesti di un fatto giuridicamente rilevante, capace di determinare le sorti dei futuri processi penali che dovessero instaurarsi a carico dell’imprenditore inerte nel versare al Fisco l’imposta sul valore aggiunto o le ritenute entro i termini previsti dalle rispettive fattispecie incriminatrici.

A queste condizioni, infatti, il rigido orientamento della giurisprudenza di legittimità – da sempre ostile al riconoscimento dell’efficacia esimente della c.d ‘crisi di liquidità’ in relazione al prolungato omesso versamento dei debiti erariali – potrebbe cedere il passo alla dirompente ed inedita situazione economico-sociale in atto, nonché alle perplessità sul suo conto che da tempo si levano dalla dottrina e da singole sentenze di merito.

1. Le fattispecie di reato (ad oggi) rilevanti

Quando si tratta dell’incriminazione dell’imprenditore per omesso versamento di tributi e imposte, si tratta di una vicenda giuridica che – da un punto di vista storico – risulta composita e contraddistinta da una marcata eterogeneità di vedute da parte del legislatore.

L’incriminazione dell’imprenditore per omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto fu originariamente introdotta nell’ordinamento giuridico italiano dal D.P.R. n. 633/1972, salvo poi essere abrogata dalla l. n. 516/1982. Non ci si lasci ingannare, tuttavia, da questa sporadica eccezione: la legge in commento (n. 516/1982) passerà alla storia con il nome di ‘manette agli evasori’ e sarà il provvedimento normativo che consegnerà al settore penale dell’ordinamento la repressione di violazioni – come gli omessi versamenti di ritenute, ad esempio – prima di allora considerati meramente formali e correttamente presidiati dalla sola sanzione amministrativa.

Un cambio di tendenza, quello ora in parola, destinato ad essere drasticamente contraddetto dal d.lgs. n. 74/00 (ancora ad oggi, il testo unico di riferimento del diritto penal-tributario): un testo di legge che – anche preso atto della ventennale inefficacia general- e special-preventiva dimostrata dalla logica delle ‘manette agli evasori’ – si ripromise di focalizzare la sanzione penale “su un ristretto catalogo di fattispecie criminose, connotate da rilevante offensività e dolo specifico di evasione” [6], espungendo così ogni omesso versamento dal perimetro del penalmente rilevante.

Fu soltanto negli anni seguenti – con l. n. 311/2004 (finanziaria per l’anno 2005) e con d.l. n. 223/2006 (Decreto Bersani) – che il settore penale dell’ordinamento tornò ad attrarre a sé condotte di puro omesso versamento: condotte il cui oggetto materiale venne appositamente selezionato – con una scelta che, come si avrà modo di vedere, fu tutto fuorché casuale [7] – fino a coincidere esclusivamente con l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla rispettiva dichiarazione fiscale e con le ritenute certificate.

La selezione compiuta fu, in questo senso, definitiva e le norme incriminatrici degli omessi versamenti di ritenute e IVA possono ad oggi essere rintracciate là dove furono in allora inserite, ossia, rispettivamente agli artt. 10-bis e 10-ter d.lgs. n. 74/00. I legislatori successivi, a dire il vero, non furono immuni dalla tentazione di ricalibrare l’assetto normativo, ma non arrivarono mai a mettere in discussione l’opportunità della sanzione penale nei confronti dell’omesso versamento delle summenzionate imposte, limitandosi ad agire, invece, sulle sole soglie di punibilità previste dalle fattispecie incriminatrici o su alcuni loro elementi costitutivi. L’ultimo intervento andato a segno, in questa direzione, fu quello attuato nel periodo del Governo Renzi, stante l’abbassamento delle soglie di punibilità proclamato e poi non concretamente attuato in vigenza del Governo Conte. Un intervento – per l’appunto, quello del Governo Renzi – che ebbe l’effetto di espandere e restringere allo stesso tempo il perimetro del penalmente rilevante in materia di omesso versamento; infatti: (i) da un lato, le soglie di punibilità per omessi versamenti di ritenute e IVA vennero rispettivamente innalzate a € 150.000 e € 250.000, rendendo irrilevanti omessi versamenti per importi inferiori a tali soglie; (ii) dall’altro lato, per quanto attiene alle ritenute, venne assegnata rilevanza penale non solo alle ritenute attestate da apposita certificazione rilasciata al lavoratore dipendente, bensì anche alle ritenute risultanti dalla sola dichiarazione fiscale (il modello 770).

All’esito dell’intero percorso legislativo più sopra sintetizzato, il contribuente si trova oggi a doversi confrontare con le seguenti responsabilità penali a titolo omesso versamento di debiti erariali:

  1. art. 10-bis d.lgs. n. 74/00: “è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta”;
  2. art. 10-ter d.lgs. n. 74/00: “è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta”.

A ciò si aggiunga la fattispecie incriminatrice – non contenuta nel corpus normativo ex d.lgs. n. 74/00, bensì prevista dall’art. 2 c. 1-bis d.l. n. 463/1983 – alla cui stregua: “l’omesso versamento delle ritenute [previdenziali e assistenziali], per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032”.

Da un punto di vista di analisi delle fattispecie, ci si trova dinnanzi a dei reati:

  • di pura condotta (omissiva). È infatti evidente che il baricentro della fattispecie incriminatrici viene a consolidarsi in una pura omissione e, nello specifico, nell’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto o delle ritenute. In altri termini, la sanzione penale in capo all’agente non postula – sul piano della condotta – requisiti ulteriori e diversi rispetto al mancato versamento dell’imposta.
  • a consumazione istantanea. Le condotte omissive di cui si tratta vengono ad assumere rilevanza penale in maniera istantanea. Ciò a dire che l’omesso versamento dell’imposta oltre la sua fisiologica scadenza fiscale rimane silente dal punto di vista penale fino allo scoccare di un determinato istante e, soltanto dopo di questo, esso giustifica l’incriminazione dell’agente. Diversi sono i momenti (recte: gli istanti) consumativi dei delitti di omesso versamento: (i) 27 dicembre di ogni annualità in quanto all’omesso versamento IVA, ossia la data prevista dall’ordinamento per il versamento dell’acconto IVA relativo al periodo di imposta successivo [8]; (ii) 30 settembre o 31 ottobre di ogni annualità in quanto all’omesso versamento di ritenute, ossia la data rispettivamente prevista dall’ordinamento per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta semplificata o ordinaria (i cc.dd. modelli 770) [9]; (iii) il giorno 16 del mese successivo a quello a cui si riferiscono i contributi per quanto attiene all’omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali, ossia, in questo specifico caso, la medesima data prevista sul versante fiscale per il versamento dei contributi da parte del datore di lavoro [10].
  • a dolo generico. L’omesso versamento dell’imposta oltre il termine previsto dalle norme incriminatrici è presidiato da sanzione penale a prescindere dall’intento psicologico posto dall’agente a giustificazione dell’omesso versamento stesso. Ai fini della sanzione penale, non rileva la finalità a cui le somme distratte all’Erario avrebbero dovuto essere impiegate nelle intenzioni dell’agente, né le concrete finalità a cui tali somme sono state (eventualmente) asservite. Quel che rileva è la sola ‘consapevolezza’ e la (a tratti conseguente)‘volontà’ dell’agente di omettere il pagamento dovuto al Fisco entro il termine previsto per la consumazione del reato [11].

La ‘cruda’ esegesi degli elementi costitutivi delle fattispecie di omesso versamento ora svolta è utile ad àncorare il dato normativo al diritto vivente nella più attuale e consolidata giurisprudenza di legittimità.

D’altro canto, è proprio ai summenzionati tratti caratteristici delle fattispecie di omesso versamento che la giurisprudenza corrente si appiglia per giungere alla indiscriminata repressione penale di pressoché ogni ammanco alle casse del Fisco – a titolo di IVA o ritenute – esuberante dalle soglie di punibilità previste dalle norme incriminatrici: € 10.000 per le ritenute previdenziali e assistenziali; € 150.000 per le ritenute ex art. 10-bis d.lgs. n. 74/00; € 250.000 per l’imposta sul valore aggiunto ex art. 10-ter d.lgs. n. 74/00.

2. Il (rigoroso) orientamento della giurisprudenza di legittimità

Una volta privato di rilevanza ogni elemento oggettivo che si collochi al di fuori dell’angusto perimetro costituito dall’omesso versamento dell’imposta per un valore superiore alla soglia di punibilità entro il termine sancito dalla norma incriminatrice ed altresì confinato l’elemento soggettivo del reato alla sola consapevolezza volontaria di compiere l’omissione penalmente rilevante, le sorti dell’imprenditore che ha fatto registrare un perdurante ammanco alle casse del Fisco a titolo di IVA o ritenute paiono pressoché segnate.

L’irregolarità fiscale è infatti destinata ad emergere in sede di controllo automatico delle dichiarazioni disposta dai competenti Uffici, i quali – sempre in via automatica – saranno tenuti a segnalare tale irregolarità all’Autorità Giudiziaria con apposita denuncia.

Giunto sulla scrivania di un Pubblico Ministero, il fascicolo attiverà in capo all’inquirente l’obbligo di esercizio dell’azione penale, giustificato in questo caso dalle sole verifiche circa la scadenza del c.d. termine lungo previsto per l’adempimento e circa il superamento dalla soglia di punibilità indicata dalla norma incriminatrice.

Approdato a processo, l’imprenditore si troverà dinnanzi ad una alternativa secca:

  • pagare integralmente il debito tributario – comprensivo di sanzioni e interessi – prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. In questo caso, la condotta postuma dell’imputato renderebbe il reato contestato non punibile ai sensi dell’art. 13 d.lgs. n. 74/00, vincolando così il Pubblico Ministero a formulare richiesta di archiviazione ed il Giudice ad emettere decreto di archiviazione o, in caso di intervenuto esercizio dell’azione penale, a pronunciare sentenza di proscioglimento [12];
  • astenersi dal pagamento del debito tributario ed affrontare il proprio processo, sia nelle forme del rito ordinario [13] (mediante la celebrazione di un’istruttoria dibattimentale in cui all’imputato verrebbe garantito il pieno esercizio del diritto di difesa in contraddittorio tra le parti), sia nelle forme di un rito alternativo quale, ad esempio, il rito abbreviato (nel cui ambito la parziale rinuncia al diritto di difesa da parte dell’imputato verrebbe premiata con una sconto sul quantum di pena eventualmente inflitto) [14].

E se la scelta dell’imputato – magari vincolata, stante l’assenza di risorse liquide immediatamente disponibili per il pagamento – dovesse ricadere sulla seconda alternativa, di certo gli spazi concessi ad argomentazioni difensive non brillano per ampiezza. Ciò che residua, in buona sostanza, è la dimostrazione (recte: l’allegazione) da parte dell’imputato di una ‘crisi di liquidità’ dell’impresa tale da rendere l’omesso versamento un’eventualità obbligata, ineludibile o, quantomeno, non socialmente riprovevole e, quindi, non meritevole di sanzione penale [15].

Eppure, è proprio su questo versante che la consolidata giurisprudenza di legittimità serra i propri ranghi per fornire una ricostruzione ermeneutica dei reati di omesso versamento nell’ambito della quale la circostanza fattuale della ‘crisi di liquidità’ dell’impresa è destinata ad essere confinata nella pressoché totale irrilevanza.

E, d’altronde:

  • non rileverebbe l’omesso incasso dell’imposta sul valore aggiunto dalla propria controparte commerciale, con la conseguenza che il contribuente risponderebbe dell’omesso versamento IVA in favore del Fisco anche laddove lui stesso, per primo, non dovesse ricevere tali somme dalla propria clientela. In questo senso, infatti, è stato evidenziato come “l’obbligo di indicazione nella dichiarazione annuale e, conseguentemente, di versamento dell’I.v.a. è […] ordinariamente svincolato […] dall’effettiva riscossione delle somme corrispettivo delle prestazioni effettuate”. Ne conseguirebbe la punibilità dell’omesso versamento IVA “a prescindere dal fatto che le somme […] siano poi state o meno riscosse dal predetto contribuente” [16];
  • non rileverebbe l’assenza di risorse liquide in seno all’impresa al momento della scadenza del termine previsto dalle norme incriminatrici per provvedere al versamento delle imposte, con la conseguenza che il contribuente risponderebbe dell’omesso versamento di IVA o ritenute anche laddove al giungere del c.d. termine lungo non disponesse materialmente delle provviste necessarie per far fronte ai propri debiti erariali. Sul punto, infatti, si è evidenziato come “non può essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alle esigenze predette” [17]. In questa prospettiva, quindi, è costante l’assoggettamento a sanzione penale dell’imprenditore che – pur non avendo accantonato l’IVA al momento della sua percezione dalla clientela o le ritenute al momento della liquidazione dei compensi dei dipendenti – abbia agito in tal senso mosso dalla ragionevole convinzione di poter agevolmente recuperare in seguito la liquidità necessaria al pagamento delle imposte, salvo essere colto a mezza via da un evento imprevedibile, a lui non addebitabile e cogente che ha finito col rendere irrealizzabile il suo originario proposito di adempimento [18].
  • non rileverebbe, da ultimo, la decisione dell’imprenditore – senz’altro carica di valore morale – di omettere il versamento delle imposte al fine di destinare le (uniche) riserve di liquidità disponibili a finalità terze, quali – prima tra tutte – il pagamento dei compensi ai propri dipendenti. E infatti, financo in tempi molto recenti, si è ribadito come una tale circostanza possa essere apprezzata al più in termini di circostanza attenuante dei reati di omesso versamento, i quali restano nondimeno integrati in ogni loro elemento costitutivo e giustificano, quindi, la sanzione penale a carico del contribuente (“[tale] scelta imprenditoriale attiene ai motivi a delinquere e non può pertanto minimamente escludere la sussistenza del dolo [generico di fattispecie]”) [19].

Gli orientamenti giurisprudenziali ora richiamati – compatti nel loro rigore – non hanno mancato di sollevare perplessità nell’ambito della dottrina ed in seno ad alcune sparute pronunce di merito, che si sono progressivamente distaccate dalla consolidata impostazione maggioritaria.

Opportuno, quindi, approfondire le lacune e le criticità insite negli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, così da evidenziare i non pochi ‘ponti d’oro’ che potrebbero condurre ad una rivalutazione della circostanza fattuale della ‘crisi di liquidità’ nell’ambito dei reati di omesso versamento.

Ciò nel timore che la iterazione dei rigorosi orientamenti giurisprudenziali di cui si è detto – pure a fronte dell’eccezionalità del momento storico in atto – possa sfociare in condanne di difficile giustificazione da un punto di vista economico e, come tali, rigettate – e non assimilate – dal tessuto sociale di riferimento, con conseguente (dannosa) tensione tra la percezione del fenomeno naturalistico posto al vaglio del Giudice e le norme in cui esso è chiamato ad essere sussunto.

3. Le prospettive esimenti della ‘crisi di liquidità’ post Covid

3.1. L’omesso versamento di IVA non incassata dal contribuente

Assoggettare a pena l’omesso versamento di IVA non materialmente incassata dal contribuente significa assegnare rilevanza penale alla violazione di un duplice obbligo per l’impresa: (i) l’obbligo di corresponsione dell’imposta sul valore aggiunto in favore delle proprie controparti commerciali e (ii) l’obbligo di accantonamento di riserve di liquidità destinate al Fisco a titolo di IVA pure a fronte del loro mancato incasso in ragione dell’inadempienza della clientela.

La violazione del primo dei summenzionati obblighi non assume rilevanza penale ex se per l’impresa contribuente e, tuttavia, l’omessa corresponsione dell’IVA in favore delle proprie controparti commerciali scaricherebbe su quest’ultime il rischio penale di non poter in seguito procedere al rispettivo versamento in favore del Fisco. È la violazione del secondo degli obblighi, invece, ad assumere diretta rilevanza penale: una volta realizzata un’operazione imponibile, infatti, l’impresa viene sottoposta all’obbligo – penalmente sanzionato in caso di successiva omessa liquidazione dell’imposta nel c.d. termine lungo – di accantonare l’IVA non percepita in vista del suo successivo versamento al Fisco; e ciò in un momento in cui l’impresa – non solo non ha percepito l’imposta dalla propria controparte commerciale – ma, naturalmente, nemmeno il corrispettivo previsto a titolo di remunerazione per la prestazione svolta.

Non sembra difficile prevedere che l’illiquidità endemica che affliggerà le aziende all’indomani della ripresa dell’attività post-Covid sfocerà in primo luogo in una serie di inadempimenti (magari anche parziali, intesi come ritardi nei pagamenti) tra le varie imprese coinvolte nelle rispettive transazioni commerciali. Eppure, così strutturata, la sanzione penale da omesso versamento IVA sembra proprio voler colpire l’imprenditore trascinato nella spirale di illiquidità generata da una serie di inadempimenti a catena, selezionando e punendo il suo singolo inadempimento nei confronti del Fisco ignorando allo stesso tempo la (magari nutrita) sequela di inadempimenti contrattuali da cui – in ultima analisi – lo stesso inadempimento sanzionato deriva.

Come si è già avuto modo di accennare, la punibilità del contribuente che omette di versare al Fisco l’IVA non incassata deriva, secondo giurisprudenza costante, da due considerazioni ben precise: (i) la prima è inerente alla condotta del reato di omesso versamento, che si sostanzierebbe nella sola e semplice omissione del pagamento dell’imposta nel c.d. termine lungo, con conseguente irrilevanza di ogni accadimento ad essa pregresso; (ii) la seconda è inerente al regime fiscale IVA, il quale imporrebbe la liquidazione dell’imposta sul valore aggiunto al Fisco a prescindere dal suo effettivo previo incasso da parte del contribuente.

A parere di chi scrive, nessuna delle due considerazioni risulta dirimente sul tema.

È senz’altro vero che il regime fiscale IVA impone il versamento dell’imposta al Fisco anche in caso di mancato previo incasso da parte del contribuente. Eppure, in questa sede, non si sta discutendo della doverosità del versamento al Fisco. A prescindere dall’attuazione del presidio penale, il versamento dell’imposta al Fisco permane infatti doveroso e – in caso di inadempimento da parte del contribuente – si registrerà l’attivazione di una serie di procedure a stampo amministrativo finalizzate a far confluire nella casse dell’Erario la totalità dell’imposta precedentemente omessa, maggiorata di interessi e sanzioni.

Ciò che rileva, invece, è l’opportunità di sottoporre a sanzione penale (oltre che amministrativa) l’omesso versamento dell’imposta non incassata e, in questa prospettiva, appare superficiale giungere all’affermazione di una tale opportunità sulla scorta di una esegesi riduttiva e troppo semplicistica del delitto di omesso versamento IVA.

Indubbio, d’altro canto, che la condotta del reato di omesso versamento IVA si risolva nella semplice omissione del versamento dell’imposta al 27 dicembre di ogni annualità; eppure – e ciò viene sovente pretermesso dalla giurisprudenza di legittimità – tale condotta omissiva si pone all’esito di una serie di circostanze fattuali che assumono sul piano tecnico la veste di ‘presupposti del reato’: circostanze fattuali, dunque, che – al pari della condotta omissiva in sé e per sé considerata – vanno a comporre l’elemento oggettivo della fattispecie di omesso versamento IVA e la cui sussistenza nel caso di specie è da considerarsi imprescindibile ai fini dell’integrazione del reato.

In altri termini, è scorretto affermare che il reato di omesso versamento IVA reprime il semplice ammanco dell’imposta nelle casse del Fisco entro il termine del 27 dicembre. Al contrario, l’art. 10-ter d.lgs. n. 74/00 punisce il soggetto che: (i) compie operazioni imponibili; (ii) percepisce il corrispettivo, comprensivo di tassazione, dalla controparte commerciale, omettendone l’accantonamento; (iii) presenta la dichiarazione annuale I.V.A; (iv) persevera nell’omissione fino al termine previsto dalla legge per il versamento dell’acconto I.V.A. relativo al periodo di imposta successivo (il 27 dicembre di ogni annualità); (v) omette volontariamente il versamento dell’imposta per un importo superiore alla soglia di punibilità prevista dalla norma incriminatrice, attualmente pari a € 250.000.

In questo senso, l’inserimento dell’incasso dell’imposta nel catalogo dei ‘presupposti’ del reato di omesso versamento IVA pare ineludibile. D’altronde, se il reato di omesso versamento IVA risulta oggi – unico tra gli omessi versamenti di imposte e tributi, insieme alle ritenute – attratto dal settore penale dell’ordinamento è proprio in ragione dell’eventualità del previo incasso dell’imposta da parte del contribuente in un momento antecedente a quello della sua doverosa liquidazione al Fisco.

Sul punto, si noti infatti che vi è una peculiarità che distingue l’oggetto materiale dei delitti ex artt. 10-bis e 10-ter d.lgs. n. 74/00 da ogni altro tributo o imposta e, come tale, giustifica le rispettive incriminazioni: la materiale disponibilità da parte dell’agente (e, dunque, il mancato accantonamento da parte del medesimo) delle somme destinate all’Erario. Poiché l’imprenditore entra nella disponibilità materiale dell’importo dovuto al Fisco – esclusivamente poiché l’imprenditore entra nella disponibilità materiale dell’importo dovuto al Fisco in un momento antecedente al versamento dell’imposta – egli risponde penalmente del suo omesso versamento nel c.d. termine lungo.

È d’altronde questa la ragione per cui nel 2004-2006 il legislatore ha ritenuto di dover inserire – in seguito alla depenalizzazione di ogni omesso versamento avvenuta per mano del d.lgs. n. 74/00 – soltanto l’IVA e le ritenute nel catalogo delle imposte il cui omesso versamento è suscettibile di giustificare la risposta penale dell’ordinamento. La condotta (omissiva) del reato – come correttamente evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità – viene ad esaurirsi nell’omesso versamento dell’imposta nel c.d. termine lungo; eppure il disvalore insito in questa singola condotta si colloca a monte, ossia nella ‘infedeltà’ dimostrata dall’imprenditore nella gestione delle somme da lui detenute in via provvisoria ma spettanti in via definitiva al Fisco: nel loro omesso accantonamento e nella loro distrazione verso finalità terze rispetto alla soddisfazione delle pretese erariali.

Ecco dunque che – laddove viene a mancare il previo incasso dell’imposta da parte del contribuente – viene altresì a mancare la ‘infedeltà’ dell’imprenditore nella gestione delle risorse spettanti al Fisco. A tale stregua, ciò che residua sul piano fenomenico è una condotta omissiva soltanto apparentemente sussumibile nella norma incriminatrice, ma in realtà priva di tutto il disvalore sociale che nell’intento del legislatore giustifica la reazione penale da parte dell’ordinamento. E la giurisprudenza di merito – a differenza di quella di legittimità – sembra dimostrare un buon governo di tale criterio interpretativo [20].

In ultima analisi, ad esimere l’imprenditore da sanzione penale per omesso versamento dell’imposta non precedentemente incassata non è soltanto un’interpretazione ‘gius-utilitaristica’ improntata ad una migliore adesione del dato letterale della norma alle eccezionali caratteristiche della crisi socio-economica in atto, bensì un’interpretazione della legge ispirata in primo luogo dall’intento psicologico del legislatore storico, dal fondamento teleologico della norma incriminatrice e, infine, dal principio costituzionale di offensività (astratta e concreta) sempre vigente in materia penale.

3.2. L’omesso versamento di IVA e ritenute dovuto a ‘causa di forza maggiore’

Stante la crisi in atto, è plausibile ipotizzare – tra gli scenari che nel prossimo futuro saranno sottoposti al vaglio dei Giudici – anche quelli che vedono l’imprenditore omettere scientemente di accantonare l’IVA (seppur incassata) o le ritenute da versare al Fisco in veste di sostituto d’imposta. Ciò, tuttavia, nella ragionevole convinzione di recuperare in seguito – ed altrove – le risorse liquide per far fronte al pagamento dei debiti erariali.

È il caso dell’imprenditore che nel corso dei primi mesi del 2020 ha ritenuto di dover sopperire ad una temporanea esigenza di risorse liquide con l’utilizzo di accantonamenti a titolo di IVA e ritenute, seppur con le migliori intenzioni di reintegrare tali accantonamenti in un secondo momento (magari proprio con la maggior liquidità derivante dalle operazioni commerciali per cui gli originari accantonamenti erano stati utilizzati). È il caso, tuttavia, dell’imprenditore che in questo suo intento è stato colto a mezza via dall’avvento del Covid: un evento esterno, dirompente e imprevedibile che – complice la interruzione o la limitazione dell’attività aziendale – ha cristallizzato nel tempo l’ammanco di risorse a titolo di accantonamenti, rendendo di fatto impossibile il loro reintegro in tempo utile per procedere al versamento delle imposte entro il c.d. termine lungo previsto dalle norme incriminatrici.

L’eventualità non pone dubbi circa la sussistenza del ‘presupposto’ del reato di omesso versamento: si registra a pieno titolo, infatti, quella ‘infedeltà’ dell’imprenditore nella gestione degli accantonamenti IVA (incassata) e ritenute destinati in ultima istanza al Fisco. La destinazione a finalità terze (seppur provvisoria negli intenti) di tali risorse integra in tutto e per tutto quella condotta lato sensu distrattiva che giustifica l’attrazione della fattispecie di omesso versamento nel settore penale dell’ordinamento.

Ciò nonostante, ci si focalizzi sulla condotta delle fattispecie di omesso versamento: esattamente quella omissione di versamento dell’imposta entro il c.d. termine lungo contemplata – in via pressoché esclusiva – dalla giurisprudenza di legittimità.

Difficilmente essa potrà dirsi oggettivamente addebitabile al soggetto agente. D’altronde, quando si tratta di reati omissivi, la possibilità effettiva e concreta di adempiere allo specifico imperativo imposto dalla norma incriminatrice – nello specifico istante in cui esso è richiesto – costituisce una componente irrinunciabile della condotta tipica. Una componente – irrinunciabile ai fini dell’integrazione del reato – che in questo caso viene ad essere travolta dalla sopravvenuta assenza di liquidità sui conti correnti sociali alla scadenza del termine penalmente rilevante. Non vi è dubbio, infatti, che – a prescindere da ogni ‘infedeltà’ pregressa registratasi nell’amministrazione dell’imprenditore delle risorse destinate al Fisco – alla scadenza del c.d. termine lungo il contribuente si sia trovato nella oggettiva impossibilità di porsi in conformità con l’imperativo sancito dalla norma incriminatrice.

Tanto sembrerebbe bastevole ad integrare i presupposti necessari all’applicazione dell’istituto della c.d. causa di forza maggiore’. Così per come definita dalla stessa giurisprudenza di legittimità, la ‘causa di forza maggiore’ viene a consolidarsi in un “evento, naturalistico od umano, che fuoriesca dalla sfera di dominio dell’agente e che sia tale da determinarlo incoercibilmente (vis maior cui resisti non potest)verso la realizzazione di una determinata condotta, attiva od omissiva, la quale, conseguentemente, non può essergli giuridicamente attribuita” [21]. Parafrasando, un tale evento – imprevedibile, cogente ed ingovernabile, come nel caso di specie l’assenza della liquidità propedeutica alla corresponsione dell’imposta – spinge per inerzia l’agente verso una condotta – nel caso di specie omissiva e costituita dal mancato versamento dell’imposta nel termine previsto dalla norma incriminatrice – che diviene per questo motivo addirittura avulsa dai connotati dell’umanità necessari all’addebito ‘personale’ della responsabilità penale.

Non è addebitabile ad un ‘fatto umano’ l’omissione del versamento dell’imposta entro il c.d. termine lungo, bensì ad un evento esterno e cogente; ad una ‘forza maggiore’ che libera l’agente (e la sua ‘non-condotta’) da ogni responsabilità penale.

L’unico ‘fatto umano’ ravvisabile in una tale eventualità è, infatti, proprio quella ‘infedeltà’ dell’imprenditore dimostrata dal mancato progressivo accantonamento delle riserve liquide a titolo di imposta. Ciò nonostante, tale condotta non sembrerebbe – laddove svincolata dall’omesso versamento finale – autonomamente assoggettabile a sanzione penale. Non da un punto di vista oggettivo, nella misura in cui il d.lgs n. 74/00 – nel ridisegnare la risposta penale dell’ordinamento in materia tributaria – ha imposto una frammentazione delle condotte penalmente rilevanti scientemente avulsa da qualsiasi violazione fiscale formale o preparatoria all’omesso versamento finale; violazioni, quest’ultime, che risultano dunque ad oggi correttamente assorbite dalla sola sanzione amministrativa [22]. Non da un punto di vista soggettivo, nella misura in cui la risposta punitiva dell’ordinamento verrebbe a fondarsi su una inammissibile anticipazione del dolo fino ad una deliberazione estranea alla fattispecie tipica strettamente intesa, in questo caso rappresentata dalla decisione dell’imprenditore (imprudente e, dunque, per lo più colposa) di omettere l’accantonamento progressivo dell’imposta anziché sulla ‘volontà’ dell’imprenditore di omettere il versamento finale dell’imposta entro il c.d. termine lungo. Una ‘volontà’ invero inesistente quest’ultima nel caso di specie, poiché coartata in via irresistibile dalla sopravvenuta inesistenza di ogni riserva di liquidità utile a procedere al versamento, il quale si configura quindi quale un adempimento impossibile a prescindere da ogni ‘volontà’ contraria del contribuente [23].

Rimane, tuttavia, un dato di fatto. La ‘causa di forza maggiore’ non potrà essere ravvisata dall’organo giudicante nel contagio da Covid e nella conseguente limitazione-interruzione dell’attività aziendale in sé e per sé considerata. Sarà l’imprenditore-contribuente a dover dimostrare (recte: allegare) in giudizio l’assenza – totale ed oggettiva – della liquidità necessaria per procedere all’adempimento del debito tributario nel c.d. termine lungo, nonché il permanere di una tale impossibilità pure a fronte dell’attivazione di tutte le iniziative imprenditoriali e personali utili al recupero di tali somme [24]. E sotto questo versante, un ruolo di rilievo potrebbe giocare anche l’eventuale attivazione delle misure disposte a sostegno della liquidità delle imprese, tra cui, in primis, la richiesta agli istituti di credito dei finanziamenti assistiti da garanzia pubblica.

3.3. L’omesso versamento di IVA giustificato da finalità sociali

A causa del Covid, la grande maggioranza delle imprese italiane si troverà ad operare in deficit di liquidità. In ultima analisi, ciò significa che le risorse liquide a disposizione delle imprese non saranno quantitativamente sufficienti per far fronte alla totalità dei fabbisogni richiesti dall’attività aziendale.

Posto di fronte a questa eventualità, l’imprenditore sarà chiamato a delle scelte di razionalizzazione della liquidità aziendale: dovrà, insomma, decidere a quali finalità asservire le limitate risorse disponibili, soddisfacendo così alcune esigenze e lasciandone frustrate altre. Così facendo, l’imprenditore – pur incassandola – potrebbe omettere scientemente di accantonare l’imposta sul valore aggiunto, e ciò non nella ragionevole previsione di poter far comunque fronte al debito tributario nel c.d. termine lungo mediante risorse ulteriori, bensì con il consapevole e volontario intento di destinare l’importo incassato al soddisfacimento di esigenze terze; esigenze cariche di valore morale, inerenti alla vita dell’impresa o comunque scevre da connotati distrattivi o appropriativi (si pensi al pagamento delle retribuzioni dei dipendenti o al pagamento dei fornitori: trattasi della c.d. evasione di sopravvivenza). Trattasi, insomma, della subordinazione delle esigenze del Fisco a necessità diverse, non alimentate da un intento ‘egoistico’ dell’imprenditore bensì apprezzabili da un punto di vista sociale.

Non vi è dubbio che, in tale scenario, il reato di omesso versamento venga ad integrarsi in ogni suo elemento oggettivo e soggettivo:(i) vi è incasso dell’imposta e vi è un volontario omesso accantonamento di quanto incassato; (ii) non vi è una impossibilità oggettiva di procedere al versamento dell’imposta nel c.d. termine lungo, bensì una precisa scelta imprenditoriale di non procedere in tal senso, pure a fronte di risorse astrattamente disponibili al fine. In ultima analisi, le lodevoli finalità dell’agente rimangono apprezzabili soltanto sul piano morale, poiché si scontrano, su quello giuridico, con la materiale possibilità di adempiere all’obbligo di legge, nonché con il dolo generico di fattispecie, i quali espungono, rispettivamente sul versante oggettivo e soggettivo, i motivi che sorreggono la condotta del reo dalla struttura tipica del reato.

Eppure, è un’analisi superficiale quella che relega le apprezzabili finalità poste alla base della condotta dell’imprenditore alla sfera del giuridicamente irrilevante, in particolar modo laddove ciò che venga ad essere evidenziato a sostegno di tale assunto sia la sola circostanza per cui il dolo generico di fattispecie non postula – ai fini della sua integrazione – alcuna considerazione circa i ‘motivi a delinquere’ del reo.

Innanzitutto, è indubbio che le finalità perseguite dall’agente per il tramite della condotta penalmente rilevante compiano un primo salto dalla sfera ‘morale’ a quella ‘giuridica’ per il tramite della circostanza attenuante comune prevista al n.1) dell’art. 62 c.p., ai sensi della quale la pena inflitta al reo subisce uno sconto fino a un terzo del suo ammontare laddove quest’ultimo abbia “agito per motivi di particolare valore morale o sociale” [25].

In seconda battuta, si ritiene di evidenziare come non manchino di certo gli strumenti concettuali per ipotizzare il compimento di un ulteriore salto delle finalità perseguite dall’agente dalla sfera ‘morale’ a quella ‘giuridica’. Un salto più incisivo, poiché in grado di porre in discussione la stessa opportunità di applicare una sanzione penale al caso di specie.

Dice il giusto la giurisprudenza quando afferma che il dolo generico richiesto dalla fattispecie di omesso versamento non richiede alcuna valutazione circa le finalità perseguite dall’agente. Eppure, l’elemento soggettivo del reato – nel caso di specie, il dolo generico – è soltanto un tassello della più complessa categoria governata dal ‘principio di colpevolezza’: trattasi di un principio insito nel combinato disposto della tutela accordata alla dignità dell’uomo dall’art. 2 Cost., alla ragionevolezza normativa dall’art. 3 Cost., alla precipua finalità rieducativa della pena dall’art. 27 c. 3 Cost. e, in ultima analisi, alla personalità della responsabilità penale dall’art. 27 c. 1 Cost. Un reticolato di norme fondamentali che restituisce la colpevolezza in termini di ‘effettiva ragionevolezza’ del rimprovero mosso dall’ordinamento dinnanzi ad un fatto oggettivamente antigiuridico, così come statuito dalla Corte Costituzionale nella storica Sentenza n. 364/1988.

È in ragione di ciò che la giurisprudenza dovrà dunque dimostrarsi attenta nell’accantonare frettolose analisi in punto di diritto e nel dispiegare anzi giusta accortezza nella valutazione di ogni indice fattuale allegato dall’imputato in giudizio, così da restituire una esauriente indagine delle ragioni per cui la sanzione penale eventualmente applicata possa ritenersi giustificata alla luce di ‘quanto umanamente esigibile dal soggetto su cui incombe il dovere di adempiere’ [26].

La condanna penale per un’omissione tributaria il cui disvalore non viene percepito dal tessuto sociale di riferimento (al punto che, magari, ogni contribuente nella sua sfera personale potrebbe arrivare a convincersi che – posto nelle condizioni del reo – avrebbe agito lui stesso nel medesimo modo) rischia di provocare una dannosa scollatura tra la sfera giuridica e la sfera naturalistica che essa è chiamata a governare, in particolar modo in corrispondenza di un evento inedito e dirompente come il contagio da Covid.

E senz’altro non assimilabile dal tessuto imprenditoriale pare la condanna del contribuente che scelga consapevolmente di finalizzare le risorse destinate all’Erario per favorire la prosecuzione dell’attività aziendale e lo faccia nel comprovato intento di provvedere – una volta superata la congiuntura economica negativa – al pagamento di tutto quanto dovuto, così come magari comprovato da un accordo di rateizzazione nel frattempo concordato con il Fisco.

Tutto ciò senza considerare che sancire la rilevanza penale di tale condotta significherebbe, per l’ordinamento, arrecare esso stesso un ingente danno all’Erario e al tessuto imprenditoriale: la presenza sul mercato di un operatore economico in grado di generare redditi nell’immediato futuro (e conseguentemente versare regolarmente imposte) verrebbe in questo modo sacrificata sull’altare dell’immediata percezione del singolo debito tributario pregresso, perseguita a costo di condurre il soggetto economico all’insolvenza. Insolvenza da cui deriverebbero ulteriori oneri accessori per la Pubblica Amministrazione, tra cui, non da ultimo, il costo degli ammortizzatori sociali previsti in favore dei dipendenti ormai disoccupati.

4. Conclusioni

Le soluzioni giuridiche per giungere ad una ricalibrazione del rigoroso orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di omesso versamento di imposte non mancano e, anzi, brillano per varietà e coerenza sistematica Non resta che da vedere quale governo di tali criteri verrà posto in essere in sede di valutazione postuma da parte della magistratura penale, la quale a parere di scrive – ad emergenza rientrata ed a mente fredda, allorquando la magnitudo di questa crisi economica sarà auspicabilmente un ricordo – dovrà essere immune dalla tentazione di rendere giudizi asettici e avulsi dalle eccezionali peculiarità del fenomeno ora in corso.

 

[1] Questo il principale intervento economico a sostegno del tessuto imprenditoriale italiano previsto con il d.l. n. 23/20 (c.d. decreto liquidità).

[2] Decreto liquidità, art. 5.

[3] Decreto liquidità, art. 8.

[4] Decreto liquidità, art. 6.

[5] Decreto liquidità, art. 7.

[6] Con l’introduzione del d.lgs. n. 74/00 la scelta del legislatore fu quella di “limitare la repressione penale ai soli fatti direttamente correlati, tanto sul versante oggettivo che su quello soggettivo, alla lesione degli interessi fiscali, con correlata rinuncia alla criminalizzazione delle violazioni meramente formali e preparatorie”. Ciò nel dichiarato intento di sacrificare le numerose fattispecie previamente introdotte sull’altare dei generali principi di legalità e offensività, così da formare una serie di lacune normative volte, in ultima analisi, a focalizzare la punibilità “su un ristretto catalogo di fattispecie criminose, connotate da rilevante offensività e dolo specifico di evasione” (Cfr. Relazione governativa al Decreto legislativo n. 74/00, par. 1).

[7] V. infra, Paragrafo 3.1., ‘L’omesso versamento di IVA non incassata dal contribuente’.

[8] Il momento consumativo del reato di cui all’art. 10-ter d.lgs. n. 74/00 coincide con la scadenza del termine per il versamento dell’acconto I.V.A. relativo al periodo d’imposta successivo, fissato dall’art. 6 c. 2. l. n. 405/1990 al 27 dicembre di ciascuna annualità (c.d. termine lungo, in contrapposizione con le scadenze mensili o trimestrali previste dalla normativa fiscale, irrilevanti sul versante penalistico). La sanzione (meramente amministrativa) per l’omissione dei versamenti periodici è comminata dall’art. 13 c. 1 d.lgs. n. 471/1997.

[9] Anche in questo caso sono irrilevanti sul versante penale i termini previsti dal punto di vista fiscale per il versamento delle ritenute. La loro scadenza, dunque, attiverà la sola applicazione delle sanzioni amministrative previste dall’ordinamento.

[10] Si noti tuttavia che – in caso di omessi versamenti di ritenute previdenziali ed assistenziali afferenti a più mensilità – il reato di cui all’art. 2 c. 1-bis l. n. 638/1983 si configura eccezionalmente come un reato a consumazione prolungata, il cui perfezionamento coincide con la data del 16 gennaio dell’annualità successiva, ossia, la data prevista per il versamento dell’ultima mensilità dei contributi. In questo senso, si sono infatti espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la recente Sent. n. 38954/2019: “il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali si configura oggi come una fattispecie connotata da una progressione criminosa nel cui ambito, superato il limite di legge, le ulteriori omissioni consumate nel corso del medesimo anno si atteggiano a momenti esecutivi di un reato unitario a consumazione prolungata, la cui definitiva cessazione coincide con la scadenza del termine previsto per il versamento dell’ultima mensilità, ovvero, con la data del 16 gennaio dell’anno successivo”.

[11] Le letture giurisprudenziali, del tutto minoritarie, che, nel tentativo di arginare l’applicabilità delle fattispecie di omesso versamento, hanno individuato il dolo specifico risultano ad oggi totalmente superate, poiché datate, in aperto contrasto con il tenore letterale delle norme incriminatrice e mai accolte dalla giurisprudenza di legittimità.

[12] Art. 13 d.lgs. n. 74/00: “i reati di cui agli articoli 10 bis, 10 ter e 10 quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso”. Per quanto attiene all’omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali, invece, il termine previsto per il pagamento integrale dei contributi non versati – e la conseguente non punibilità del trasgressore – viene individuato dall’art. 2 c. 1-bis l. n. 638/1983 in “tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione”.

[13] Il quale nel caso di specie non prevede la celebrazione dell’udienza preliminare, stante il fatto che l’esercizio dell’azione penale per reati di omesso versamento avviene mediante decreto di citazione diretta a giudizio e non mediante richiesta di rinvio a giudizio.

[14] Sempre laddove non si registri il pagamento dell’imposta, l’indagato-imputato potrebbe richiedere l’applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento). In questo caso – sempre a fronte di una serie di benefici premiali, tra cui lo sconto di pena – nei confronti dell’indagato-imputato verrebbe emessa una sentenza di patteggiamento: un provvedimento giuridicamente equiparabile ad una sentenza di condanna.

[15] Si ravvisano a dire il vero ulteriori, marginali, linee di difesa. L’assoluzione dell’imputato potrebbe essere giustificata dal fatto che egli non ha ricoperto il ruolo di rappresentante legale della società nel corso dell’annualità di riferimento e al momento della scadenza del c.d. termine lungo previsto per il versamento. La non punibilità dell’indagato-imputato (e, quindi, il suo proscioglimento) potrebbe invece essere sostenuta in ragione della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., in particolar modo laddove l’importo dell’imposta non versata superi di poco la soglia di punibilità prevista dalla norma incriminatrice. In questo senso la recente Cass. Pen. Sent. n, 15020/2019, in applicazione in materia penal-tributaria del principio di diritto stabilito dalle Sezioni Unite della Corte con Sent. n. 13681/2016.

[16] Cass. pen., Sent. n. 19099/13: “l’obbligo di indicazione nella dichiarazione annuale e, conseguentemente, di versamento dell’I.v.a. è stato, soprattutto sino ad oggi, ordinariamente svincolato, fatti salvi i casi di applicabilità del regime di I.v.a per cassa dall’effettiva riscossione delle somme corrispettivo delle prestazioni effettuate. Ciò posto, proprio la strutturazione del reato in termini di condotta omissiva svincolata dall’effettivo incasso rende manifesto l’errore di prospettiva del ricorrente nell’avere circoscritto il profitto del reato alla sola somma incassata e non versata, senza considerare altresì il profitto necessariamente insito nel risparmio economico comunque derivante dal mancato versamento dell’imposta”. Si veda, in modo particolarmente netto sul punto, anche Cass. pen., Sent. n. 38279/14: “applicando i difettivi criteri espressi dal Tribunale di Pescara alla fattispecie penale provvisoriamente contestata al D.G., risulterebbe che la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 – ter, ricorra solo nel caso in cui il preteso sostituto di imposta, in realtà soggetto passivo di essa, omettesse di rimettere allo Stato quanto da lui effettivamente percepito. Viceversa, la ricostruzione della fattispecie è assai più piana; integra, infatti, la violazione del D. Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, la condotta di chi ometta di versare, entro la scadenza del termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo a quello cui ci si riferisce, la imposta sul valore aggiunto che risulta essere dovuta sulla base della dichiarazione annuale dallo stesso soggetto passivo redatta, a prescindere dal fatto che le somme in tale dichiarazione indicate come dovute a titolo di IVA siano poi state o meno riscosse dal predetto contribuente”.

[17] Cass. Pen., Sent. n. 37424/2013: “la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia entro il termine lungo previsto”. Ne consegue che “non può essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte alle esigenze predette”.

[18] Drastica, su punto, Cass. Pen., Sent. n. 37873/2015: “il dolo è integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, in quanto la norma non richiede, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato. La scelta di non pagare prova il dolo; i motivi della scelta, ivi compresa la crisi di liquidità, non lo escludono”.

[19] In questo senso la recente Cass. pen. Sent. n. 5007/19.

[20] Trib. Bergamo, Sent. n. 1907/2017: “in poche parole la norma incriminatrice punisce una condotta dell’imprenditore lato sensu appropriativa di somme cui è stata dalla legge impressa una diversa destinazione […] occorre dunque chiedersi la ragione per cui il legislatore ha ritenuto di sanzionare solo questi – e non altri – omessi versamenti, e la ragione va individuata nella natura appropriativa dei medesimi […] Se dunque, sotto il profilo meramente tributario, l’obbligazione rimane, viene meno la rilevanza penale dell’omissione poiché difetta il presupposto appropriativo: manca cioè la prova che la cliente abbia versato alla l’IVA esposta nelle fatture non onorate, con conseguente assoluzione dell’imputato”.

[21] Così la recente Cass. Pen. Sent. n, 9960/2020.

[22] Se così non fosse, dopotutto, verrebbe meno la cifra distintiva del delitto rispetto al corrispettivo illecito tributario, con conseguente caducazione del rapporto di progressione criminosa sussistente tra i medesimi. Interpretazioni di segno contrario sono pertanto da ritenersi precluse, poiché è (anche) la discrasia temporale tra il momento consumativo dell’illecito penale e di quello amministrativo a consentire il disconoscimento dell’eadem factum posto a fondamento dei rispettivi illeciti e, dunque, a salvaguardare il fondamentale divieto di bis in idem. Si veda Cass. pen., SS.UU., Sent. n. 37424/2013: “la fattispecie penale, secondo l’indirizzo di politica criminale adottato in generale dal D.lgs. n. 74/00, costituisce in sostanza una violazione molto più grave di quella amministrativa e, per contenendo necessariamente quest’ultima (senza almeno una violazione del termine periodico non si possono evidentemente determinare i presupposti del reato), la arricchisce di elementi essenziali (dichiarazione annuale, soglia, termine allungato) che non sono complessivamente riconducibili al paradigma della specialità (che, ove operante, comporterebbe ovviamente l’applicazione del solo illecito penale, in quanto recano decisivi segmenti comportamentali (in riferimento alla presentazione della dichiarazione annuale IVA e al protrarsi della condotta omissiva), che si collocano temporalmente in un momento successivo al compimento dell’illecito amministrativo

[23] Un percorso argomentativo, quello da ultimo proposto nel testo, che è ben sintetizzato in una pronuncia del Tribunale di Firenze, Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari, del 27 luglio 2012: “il processo penale, a differenza di quello tributario, impone di valutare e di provare la volontarietà dell’omissione (nel senso richiesto dalla norma violata, di tal che deve risultare che l’agente si è rappresentato e ha voluto l’omissione del versamento nel termine richiesto), volontarietà che nel caso di specie non sussiste a causa della crisi finanziaria in cui si era venuto a trovare l’imputato”

[24] I margini per ritenere insussistente la dimensione oggettiva dei reati di omesso versamento sono descritti in modo particolarmente chiaro da una pronuncia del Tribunale di Milano, Sent. n. 13701/2015: “occorrerebbe cioè la dimostrazione che il soggetto che abbia omesso il versamento delle ritenute operate nei termini contemplati dalla disciplina fiscale avesse inteso provvedervi entro il termine penalmente rilevante, ma il verificarsi di accadimenti del tutto eccezionali, imprevedibili e non imputabili all’agente abbiano successivamente reso impossibile il versamento, in quanto determinanti una situazione di illiquidità assoluta, a cui era impossibile far fronte con il ricorso a qualsivoglia misura, anche a scapito della prosecuzione dell’attività aziendale. Si tratta, insomma, di situazioni in cui l’esito assolutorio risulta imposto da una considerazione sintetizzabile nel noto brocardo latino ‘ad impossibilia nemo tenetur’”.

[25] In questo senso la recente Cass. Pen. Sent. n. 10084/2020, pronuncia che ha riconosciuto la sussistenza dell’attenuante in oggetto in capo all’imprenditore avente omesso il versamento IVA in favore della liquidazione della retribuzione ai propri dipendenti.

[26] ‘Quanto umanamente esigibile dal soggetto su cui incombe il dovere di adempiere’è il concetto fondante delle sparute sentenze di merito e legittimità che sono giunte, in casi come quello in analisi, all’assoluzione del contribuente. Tra la giurisprudenza di legittimità, si veda Cass. pen., Sent. n. 15176/2014; Cass. pen. Sent. n. 9264/2014. Tra la giurisprudenza di merito, invece, Trib. Milano, Sent. n. 8741/2015; Trib. Milano, Sent. n. 13701/15.

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Emanuele Angiuli, partner, Nicolò Biligotti, associate, Fornari e Associati

Sommario: Premessa. 1. Le fattispecie di reato (ad oggi) rilevanti. 2. Il (rigoroso) orientamento della giurisprudenza di legittimità. 3. Le prospettive esimenti della ‘crisi di liquidità’ post Covid. 3.1. L’omesso versamento di IVA non incassata dal contribuente. 3.2. L’omesso versamento
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