In tema di iva, posto che le operazioni denominate di factoring che consistano, nel loro nucleo essenziale, nel recupero e nell’incasso dei crediti di un terzo configurano prestazioni imponibili non esenti, occorre accertare lo scopo pratico dell’operazione, che sarà esente da iva qualora riveli natura finanziaria, conformando altresì l’attività svolta dal mandatario senza rappresentanza incaricato della stipulazione dei relativi contratti.
Questo il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione nell’odierna pronuncia.
Il contenzioso traeva origine dall’impugnazione di un avviso d’accertamento emesso in seguito ad una verifica fiscale, svolta dall’Agenzia delle Entrate, concernente il menzionato recupero dell’IVA su alcune fatture relative a contratti di factoring, mediante i quali erano stati ceduti alcuni crediti maturati da una società consortile nei confronti dei propri clienti.
Ai documenti contabili relativi alle prestazioni di recupero dei crediti ceduti rese dal factor era stato applicato il regime di esenzione di cui all’articolo 10, comma primo n. 1) del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, essendosi ritenuta l’obbligazione avente ad oggetto la gestione e l’incasso dei crediti come accessoria, nell’ambito del sinallagma, rispetto a quella di finanziamento propria della cessione dei crediti.
La società consortile risultava vittoriosa in entrambi i gradi di merito, dove, da ultimo, la Commissione Tributaria Regionale aveva sostenuto che nel contratto di factoring, indipendentemente dalla cessione pro soluto o pro solvendo, l’obbligazione con oggetto la gestione e l’incasso dei crediti è considerabile come accessoria rispetto a quella di finanziamento, che non potrebbe mai costituire un distinto rapporto contrattuale.
L’Amministrazione finanziaria ricorreva quindi per la cassazione della pronuncia della CTR, dolendosi di violazione e falsa applicazione dell’articolo 10, comma primo, n. 1 del d.P.R. 633/1972 nonché degli articoli 1362 e 1363 del codice civile, oltre che di omessa o insufficiente motivazione.
Assumerebbe infatti rilevanza, secondo la ricorrente, la qualificazione della cessione dei crediti come pro solvendo o pro soluto; nel caso specifico, infatti, non di causa di finanziamento si sarebbe trattato, ma di un rapporto per la gestione ed il recupero dei crediti trasferiti.
La Corte di Cassazione ha anzitutto evidenziato, in continuità con altro precedente (Cfr. 16850/2017) che il nucleo fondamentale del contratto di factoring sia costituito da un accordo complesso, in virtù del quale il factor si obbliga ad acquistare, per un periodo di tempo determinato e rinnovabile, la totalità o parte dei crediti di cui un’impresa è già ovvero diventerà titolare, facendosi carico della gestione dei rapporti contrattuali ceduti; alla scadenza dei crediti, il factor verserà il prezzo convenuto, pari all’importo del credito detratta la remunerazione per il servizio reso ed i rischi assunti.
Sul punto, viene citata la Corte di Giustizia dell’Unione Europa, la quale, nella Causa C-305/01, aveva tratteggiato la distinzione tra factoring in senso proprio, da intendersi come quello in cui avviene la cessione di crediti pro soluto ed il rischio d’insolvenza è in capo al factor, e factoring in senso improprio, nel quale la cessione è pro solvendo, ed il cedente è esposto alla rivalsa del factor in caso di insolvenza del debitore.
Nel primo caso – factoring in senso proprio – vi sarà un’effettiva qualificazione come operazione di servizi imponibile ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, in quanto, sollevando il cedente dal recupero del credito, si fornisce un servizio, remunerato con il differenziale tra valore nominale del credito ceduto e la somma che effettivamente percepirà dal factor come pagamento per la cessione.
Sussiste quindi una marcata differenza con la mera cessione di credito, dove il prezzo di vendita non è corrisposto al fine di remunerare un servizio, ma rappresenta il valore economico del credito trasferito.
Anche nel secondo caso – factoring in senso improprio – la Corte di Cassazione ha evidenziato come la prestazione del factor possa comunque dar luogo ad un’operazione imponibile.
Al riguardo, come rimarcato dalla giurisprudenza di Legittimità evocata dalla Corte (Cfr. Cass 12774/2015, Cass. 10004/2003) è necessaria un’indagine per verificare l’aspetto prevalente del contratto ed il fine pragmatico al quale questo volge.
Tale indagine risulta tanto più sollecitata in funzione dell’analisi sull’applicabilità di una esenzione, attesa la necessità di una interpretazione restrittiva di disposizioni derogatorie al principio di rilevanza ai fini IVA delle prestazioni di servizi (Cfr. CGUE, Cause C-607/14 e C-5/17).
Nel caso del regime di cui all’articolo 10, comma primo, n.1) del d.P.R. 633/1972, l’esenzione è accordata proprio in funzione della natura della prestazione, che deve presentare causa finanziaria.
Difatti, nell’ipotesi in cui si riscontri una prevalenza della finalità e natura finanziaria del contratto di factoring, le prestazioni a questo riconducibili saranno esento ai fini dell’imposta sul valore aggiunto; diversamente, dovranno considerarsi pienamente imponibili.
Poiché il giudice di appello ha apoditticamente individuato nel contratto di factoring una causa finanziaria, la Corte ha rinviato a quest’ultimo per una puntuale analisi del concreto dispiegarsi del rapporto contrattuale.