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Giurisprudenza

Operazioni soggettivamente inesistenti: onere della prova e rapporti con il reverse charge

4 Febbraio 2021

Lorenzo Giannico

Cassazione Civile, Sez. V, 8 ottobre 2020, n. 21706 – Pres. Locatelli, Rel. D’Orazio

Di cosa si parla in questo articolo

Nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, è onere dell’Amministrazione che contesti il diritto del contribuente a portare in detrazione l’IVA assolta su fatture emesse da un concedente diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio, dare la prova che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere, con l’uso della diligenza media, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione fosse iscritta in un’evasione o in una frode.

 La dimostrazione può essere data anche attraverso presunzioni semplici, valutati tutti gli elementi indiziari agli atti, attraverso la prova che, al momento in cui ha stipulato il contratto, il contribuente è stato posto nella disponibilità di elementi sufficienti per un imprenditore onesto che opera sul mercato e mediamente diligente, a comprendere che il soggetto formalmente cedente il bene al cessionario aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode.

In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione nella pronuncia in epigrafe.

Una Società era raggiunta da un avviso di accertamento con il quale l’Amministrazione Finanziaria determinava l’indebita deduzione di costi contabilizzati e documentati con fatture soggettivamente inesistenti, emesse da nei confronti della contribuente da tre Società che risultavano prive di struttura aziendale, contabilità o documentazione tributaria, oltre l’indebita detrazione dell’IVA relativa agli acquisti effettuati da queste ultime.

Recuperava inoltre l’Imposta Sul Valore aggiunto relativa a fatture aventi ad oggetto cessione di rottami, emesse ex art. 74 del D.P.R. 633/1972 (reverse charge interno), senza addebito di IVA, per le quali tuttavia l’acquirente non aveva provveduto alle necessarie formalità documentali ovvero alla regolarizzazione delle stesse.

Nei giudizi di merito la contribuente vinceva in primo grado, per poi veder ribaltato il giudizio di fronte alla Commissione Tributaria Regionale competente che, accogliendo parzialmente l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate, aveva sostenuto come la palese incapacità aziendale delle società terze di realizzare le operazioni commerciali dedotte, nonché la totale assenza di contabilità, determinasse la soggettiva inesistenza delle operazioni interessate dall’accertamento.

La contribuente ricorreva dunque per la cassazione della pronuncia d’appello, lamentando, per quanto di interesse, la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 39, comma primo, lettera c) e d) del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 e 54 comma terzo del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, nel non avere la CTR correttamente evidenziato l’onere della prova a carico delle parti nella dedotta fattispecie, avendo la ricorrente, a suo dire, dimostrato di avere assolto il corrispettivo indicato nelle fatture di acquisto e la propria estraneità alle attività illecite poste in essere dai soggetti emittenti.

Quanto invece alle fatture attive emesse in regime di reverse charge, si è ribadito come l’obbligo di regolarizzazione ricadesse sul cessionario.

La Corte di Cassazione, quanto alla detraibilità dell’IVA, nel rigettare la doglianza del contribuente, corrobora quanto affermato dalla C.T.R. affermando come, a fronte del rapporto diretto tra la contribuente e le altre tre società, fosse onere della prima di dimostrare la propria estraneità alla condotta fraudolenta delle società che emettevano delle fatture nonostante fossero del tutto sfornite di organizzazione dal punto di vista sia del personale che dei mezzi.

Richiamando gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 17788/2018 e n. 5873/2019) e della Corte di Giustizia UE (Causa C-277/14 del 22 ottobre 2015, Causa C-159/14 del 15 luglio 2015, Causa C-123/14 del 15 luglio 2015, Causa C-18/13 del 13 febbraio 2014, Cause C-80/11 E C-142/11 del 21 giugno 2012), la Corte ribadisce come spetti all’Amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni semplici, dimostrare, oltre alla fittizietà del fornitore, che il contribuente, nell’ambito delle operazioni contestate, sapesse o avrebbe potuto sapere, con l’uso di diligenza media, che l’esercizio del diritto alla detrazione si iscrivesse in una frode o evasione.

Assolto detto onere, spetterà invece al contribuente di avere adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, nel rispetto dei principi di ragionevolezza e proporzionalità in relazione alla fattispecie concreta, non rilevando a tal riguardo l’effettivo pagamento del corrispettivo per le prestazioni ricevute.

A giudizio della Corte, nel caso di specie, la contribuente non ha assolto il descritto onere probatorio.

Con riferimento, invece, al reverse chargeinterno, ovvero “domestico”, la Suprema Corte ricorda come il combinato disposto degli artt. 17, c. 5 e 74 del D.P.R. 633/1972 sia stato introdotto al fine di evitare, in settori maggiormente esposti a rischio, il verificarsi di frodi IVA nelle quali il fornitore-cedente, a seguito dell’addebito IVA al cliente-cessionario, non provveda al versamento dell’imposta, fermo il diritto di quest’ultimo all’esercizio della detrazione, 0salva l’ipotesi in cui fosse dimostrata la mala fede o la connivenza con il fornitore.

Sussumendo tale principio al caso di specie, la Corte di Legittimità chiarisce che nel caso in cui l’IVA sia stata detratta dalla cessionaria in reverse charge, a fronte di frode per operazioni soggettivamente inesistenti, non può trovare applicazione il diritto di detrazione, in conformità con i principi dell’ordinamento comunitario (Cfr. Corte di Giustizia UE, Causa C-285/09).

La Società cedente era comunque tenuta a versare l’IVA a debito che non aveva addebitato alla cessionaria, conformemente al novellato disposto dell’articolo 21, comma settimo, del d.P.R. 633/1972, atteso che l’inesistenza soggettiva della prestazione ha determinato il venir meno del presupposto sostanziale per la translazione dell’obbligo di versamento in capo al cessionario.

Relativamente ai motivi concernenti l’Imposta sul Valore Aggiunto, la Corte ha dunque rigettato le doglianze del contribuente.

 

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