1. I fatti di causa
La vicenda in oggetto trae origine dal licenziamento intimato da una società ad un lavoratore, precedentemente in forza con contratto di lavoro a tempo pieno, per impossibilità sopravvenuta della prestazione a seguito di visita di idoneità al lavoro del medico competente.
Il licenziamento era stato impugnato dinanzi al Tribunale di Tivoli che, con ordinanza del 15.4.2016, aveva condannato il datore di lavoro alla reintegrazione del ricorrente sul posto di lavoro, in quanto parte datoriale non era stata in grado di fornire la prova dell’impossibilità di ricollocare il lavoratore in un’altra attività.
L’azienda, pertanto, in ottemperanza all’ordine giudiziale, procedeva a stabilire con comunicazione del 6.7.2016 le modalità con cui sarebbe stato reintegrato il dipendente. In particolare, il datore di lavoro prevedeva sì il rientro in servizio del lavoratore, ma questa volta con un orario di lavoro a tempo parziale, alternando periodi di part time orizzontale a periodi di part time verticale, con mansioni di “addetto allo spazzamento manuale con carretto e alla raccolta porta a porta di umido, plastica o cartoni dalle utenze domestiche”.
Il lavoratore, ritenendo che la posizione lavorativa dove avrebbe dovuto riprendere servizio non era la stessa occupata in precedenza, si rifiutava pertanto di presentarsi a lavoro.
Il dipendente veniva, quindi, nuovamente licenziato, questa volta per giusta causa, e si vedeva costretto ad impugnare anche il secondo licenziamento.
Nella fase di merito, il Tribunale di Tivoli rigettava le richieste del dipendente, ma la decisione veniva integralmente riformata dalla Corte d’Appello di Roma che, in accoglimento del reclamo promosso dal lavoratore, annullava il licenziamento condannando – nuovamente – il datore di lavoro alla reintegrazione del dipendente sul posto lavoro, oltre a dover corrispondere allo stesso una indennità risarcitoria di dodici mensilità.
In particolare, la Corte territoriale riteneva sussistente il diritto del lavoratore ad avvalersi della c.d. “eccezione di inadempimento” ex art. 1460 c.c., in quanto il rapporto di lavoro era stato ripristinato in una forma contrattuale non espressamente concordata dalle parti, con la conseguenza che il datore di lavoro era, di fatto, da ritenersi inadempiente all’ordine di reintegrazione.
Diversamente dal Tribunale di Tivoli, che aveva ritenuto utilizzabile l’istituto dell’eccezione di inadempimento solo nel caso di totale inadempimento datoriale, la Corte territoriale riteneva applicabile analogicamente la giurisprudenza di legittimità in tema di riammissione in servizio dei lavoratori dopo l’accertamento della nullità del termine. Specificatamente, nonostante le mansioni individuate fossero compatibili con le limitazioni individuate dalle competenti strutture sanitarie, per la Corte d’Appello il datore di lavoro non poteva in ogni caso disporre unilateralmente la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, in quanto la normativa in tema di part time prevede un apposito accordo tra datore di lavoro e lavoratore, nonchè la forma scritta ad substantiamper tale trasformazione del rapporto contrattuale.
La società proponeva, quindi, ricorso dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione per la riforma della sentenza della Corte d’Appello, deducendo una serie di motivi di doglianza, di cui i più rilevanti verranno analizzati nel paragrafo che segue.
2. La decisione della Corte di Cassazione
In primo luogo, il datore di lavoro lamentava nel ricorso la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1460 c.c., che regola la c.d. eccezione di inadempimento, in quanto riteneva violati i criteri di equivalenza e proporzionalità tra l’adempimento richiesto e quello non eseguito.
La Suprema Corte riteneva il motivo infondato, in quanto la Corte d’Appello di Roma si era correttamente conformata alla consolidata giurisprudenza di legittimità, che ha ben chiarito e delineato i casi in cui il datore di lavoro risulta inadempiente all’ordine di reintegrazione, dovendosi pertanto considerare legittima l’eccezione di inadempimento del lavoratore consistente nel non presentarsi a lavoro. In particolare: “l’ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, altrimenti configurandosi (salvo sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive) una condotta datoriale illecita, che giustifica la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore, sia in attuazione di un’eccezione di inadempimento ai sensi dell’articolo 1460 c.c., sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti”.
In secondo luogo, parte datoriale lamentava nel ricorso che vi fosse stata una errata valutazione dell’inadempimento rispetto all’ordine di reintegrazione, poichè, a suo dire, la scelta di riammettere il lavoratore a tempo parziale anzichè a tempo pieno sarebbe derivata dalla necessità di tutela della salute del dipendente, a seguito delle limitazioni intervenute con gli accertamenti sanitari.
Tuttavia, la Suprema Corte osservava in motivazione come, nel caso di specie, non vi fosse mai stata una specifica indicazione sanitaria che richiedesse la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale, ma che il datore di lavoro avesse deciso – unilateralmente – di modificare l’orario di lavoro in assenza dei requisiti di cui agli artt. 5 e 8 del D.Lgs. n. 81/2015, che richiedono un apposito accordo delle parti risultante da atto scritto. Dunque, nel rigettare anche questo motivo di doglianza, la Corte ha pronunciato il principio di diritto secondo cui “costituisce inadempimento all’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, cui il lavoratore può opporre eccezione di inadempimento ai sensi dell’articolo 1460 c.c., la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale disposta unilateralmente dal datore di lavoro, senza accordo del lavoratore e senza pattuizione in forma scritta”.
Infine, risulta interessante menzionare anche le motivazioni relative al rigetto dell’ultimo motivo di doglianza, nel quale la società riteneva che i giudici di merito avessero errato nel considerare insussistente il fatto posto a fondamento del licenziamento per giusta causa, ovverosia il rifiuto del lavoratore di presentarsi in servizio.
Anche tale motivo, come il resto del ricorso, risultava infondato per il giudice di legittimità, il quale, richiamando una serie di pronunce ormai consolidate (in particolare, Cass., Sez. Lav., 7.2.2019, n. 3655 e Cass. Sez. Lav., 19.7.2019, n. 19579) osservava che, in tema di licenziamento per giusta causa, vi è insussistenza del fatto contestato, con conseguente diritto del lavoratore ad essere reintegrato, anche nel caso in cui sussista effettivamente il fatto, ma questo sia totalmente privo del carattere della illiceità. In particolare, laddove il comportamento addebitabile al lavoratore, consistente nel rifiuto di rendere la prestazione lavorativa secondo determinate modalità, sia giustificato da una accertata illegittimità dell’ordine datoriale, questo da luogo ad una legittima eccezione di inadempimento e il fatto che viene contestato nel procedimento disciplinare “deve ritenersi insussistente perchè privo del carattere dell’illiceità”.
Alla luce delle sopra indicate argomentazioni, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della società, posto che il lavoratore aveva il pieno diritto di rifiutarsi di rendere la prestazione con modalità diverse da quelle in essere prima dell’intervenuto licenziamento e, conseguentemente l’ordine datoriale era da ritenersi illegittimo. Nello specifico, l’esame della pronuncia della Suprema Corte fa emergere che il diritto alla reintegrazione non è qualificabile semplicemente come un diritto di proseguire a svolgere l’attività lavorativa con lo stesso datore di lavoro, ma come un vero e proprio diritto di ricondurre la propria posizione lavorativa all’esatto status quo precedente al licenziamento illegittimo. Questo risultato non potrebbe essere raggiunto se il datore di lavoro avesse la facoltà di variare unilateralmente una delle caratteristiche essenziali che definiva il rapporto di lavoro prima del licenziamento quale è, appunto, l’orario lavorativo.