Come già ampiamente documentato su Diritto Bancario, il Consiglio di Stato, con sentenza n. 5962 del 27 novembre 2012, ha definito la controversia in materia di contratti derivati fra la Provincia di Pisa e le banche Dexia Crediop e Depfa.
Nel caso di specie, la Provincia di Pisa aveva annullato in autotutela i contratti derivati stipulati con le banche nell’ambito di una complessiva operazione di ristrutturazione del debito dell'ente.
L’annullamento era stato giustificato in ragione di una supposta violazione del principio di convenienza economica ex art. 41 Legge 28 dicembre 2001 n. 441, per la presenza di costi impliciti al momento della conclusione degli stessi contratti.
Il Consiglio di Stato, nell’escludere una simile violazione, ha evidenziato, fra l’altro, come non sia possibile fondare la valutazione negativa circa la convenienza economica della complessiva operazione di ristrutturazione sulla mera presenza di costi impliciti nei contratti derivati in essere fra le parti.
La sentenza tocca temi di particolare importanza per il contenzioso in materia di contratti derivati da parte degli enti locali.
La settimana scorsa ne abbiamo discusso con l’avv. Massimiliano Danusso, senior partner di Allen & Overy, che ha assistito le due banche nel procedimento avanti il Consiglio di Stato.
Stante l’importanza della sentenza, abbiamo voluto dar voce anche all’orientamento critico alla decisione del Consiglio, qui espresso dall’avvocato Luca Zamagni, socio dello Studio legale Cedrini Urbinati Zamagni e membro di Axiis Network legale, che ha ottenuto la prima sentenza favorevole ad un Ente locale in materia di swap e che assiste numerosi Enti in controversie civili domestiche ed internazionali su strumenti finanziari derivati.
Avvocato Zamagni, qual è la sua opinione sulle motivazioni della recente sentenza del Consiglio di Stato ?
Si tratta di una pronuncia che, non solo a mio avviso, presta il fianco a diversi rilievi critici.
Anzitutto lascia perplessi la recezione acritica delle risultanze peritali: la quasi totalità delle oltre cento pagine della sentenza riporta le statuizioni del consulente tecnico d’ufficio, le cui valutazioni sono “convalidate” dal Consiglio di Stato senza che lo stesso si ponga il problema – eminentemente giuridico – della compatibilità di diverse affermazioni del CTU con la normativa in materia di intermediazione finanziaria, certamente più spesso portata al vaglio del Giudice civile, ma rispetto alla quale era lecito attendersi tutt’altra profondità di interpretazione da parte del Consiglio di Stato.
A riprova di ciò è significativo constatare come sia lo stesso consulente d’ufficio che nella propria relazione peritale richiami, a mio avviso del tutto impropriamente, norme giuridiche e precedenti giurisprudenziali al fine di replicare alle osservazioni critiche dei consulenti di parte dell’Ente locale, senza che il Giudice amministrativo si ponga il problema della corretta contestualizzazione giuridica delle argomentazioni spese dal suo ausiliario.
Si parla spesso di “finanziarizzazione dell’economia”, ma in questo caso non pare improprio parlare di “finanziarizzazione del diritto”.
A cosa si riferisce, in particolare? Quali aspetti della pronuncia (e quindi della consulenza tecnica d’ufficio acquisita dal Consiglio di Stato) non la convincono ?
Innanzitutto affermare che costi occultati al cliente, ma nondimeno addebitati allo stesso, possano dirsi legittimi è conclusione che non convince e che è giustamente avversata dalla corrente giurisprudenza civile, certamente più adusa alle controversie aventi ad oggetto vicende contrattuali.
Mi pare poi si possa dire che la consulenza, e quindi la sentenza, costituiscono il tentativo di legittimare ex post l’operato degli intermediari finanziari.
In estrema sintesi, il consulente afferma che i costi impliciti esistono, ma che nel caso di specie la loro portata non sarebbe tale da compromettere la convenienza economica, imposta dall’art. 41 della Legge n. 448/2001, dell’operazione di ristrutturazione del debito effettuata dall’Amministrazione.
Per giungere a tale conclusione l’ausiliario del Giudice costruisce un modello in cui giustifica numerose correzioni ed aggiustamenti al fair value, così pervenendo ad una quantificazione di costi impliciti “non dannosa”, salvando la convenienza economica dell’operazione.
E se è vero che il consulente concepisce il suo modello di valutazione a partire dal principio contabile IAS 39, è altrettanto vero che le statuizioni di tale principio vengono interpretate in maniera talmente estensiva da pervenire a legittimare di fatto ogni prassi degli intermediari finanziari.
Per fare un esempio, il CTU, e quindi il Consiglio di Stato, ammette e giustifica il ricarico di “costi amministrativi” da parte delle banche (e, si badi bene, stiamo discutendo di IRS Collar non caratterizzati da particolare complessità) nell’ordine di Euro 135.800! Considerato che il modello implementato dal CTU quantifica i costi impliciti in Euro 320.000, stimando altresì l’effetto vantaggioso dell’operazione di ristrutturazione del debito in Euro 402.000, non è difficile notare l’incidenza dell’ipervalutazione della componente “costi amministrativi” (per tacere di altri componenti correttive del fair value) ai fini della determinazione della complessiva convenienza economica dell’operazione: dalla “clemenza” nel giustificare o meno le componenti correttive del fair value dipende in sostanza la certificazione della convenienza economica dell’operazione.
Un altro esempio che lascia davvero perplessi è la propensione del CTU a valutare componenti di costo e di rischio in maniera del tutto unilaterale: per quale motivo il modello tiene conto del rischio di controparte cui sono esposti gli istituti di credito e non del rischio di controparte a cui è esposto l’Ente locale? Allorquando si è chiesto conto all’ausiliario di tale disparità di valutazione, lo stesso ha precisato, come si legge nella sentenza, che “nella prassi di mercato gli operatori ancora non ricorrono ad una valutazione bilaterale del rischio di controparte”.
Ma non è tutto. Più in generale, se nel modello del CTU, i costi giustificabili non sono costi impliciti e fra questi costi vi sono poste che soltanto le banche possono calcolare, come è possibile poi sostenere, come si evince dalla sentenza, che l’Ente locale possa conoscere anticipatamente tali costi ?
Insomma, quello adottato nella consulenza fatta propria dal Consiglio di Stato pare essere un modello la cui funzione primaria è quella di giustificare prassi “autoreferenziali” degli intermediari finanziari.
Il costante richiamo alle “prassi” della sentenza pare non convincerla.
Basta leggere quante volte nella sentenza si richiamano prassi, usi, best practises ecc.
Nel nostro ordinamento esiste una disposizione imperativa, l’art. 23 comma 2 del Testo Unico della Finanza, secondo cui “è nulla ogni pattuizione di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e di ogni altro onere a suo carico. In tali casi nulla è dovuto”.
Questa è una norma dimenticata dal Consiglio di Stato, circostanza che, a mio parere, ridimensiona notevolmente il pregio giuridico della recente sentenza.
La sentenza esclude obblighi di disclosure in capo alle banche relativamente ai costi impliciti, affermando che non esiste un obbligo normativo riguardante la loro preventiva comunicazione al cliente. Lei cosa ne pensa ?
Per la verità, a quanto è dato leggere, tale convinzione è manifestata dall’ausiliario del Giudice.
Il Consiglio di Stato afferma invece che lo svolgimento di una gara ufficiosa “consente di escludere ragionevolmente la pretesa violazione degli obblighi di informazione in ordine al valore dello swap ed a quello dei suoi elementi correttivi ai fini della determinazione del fair value”, considerazione che, in una prospettiva civilistica, mi pare assolutamente criticabile, visto e considerato che gli obblighi di cooperazione gravanti sull’intermediario finanziario non possono essere surrogabili in alcun modo.
Ad ogni modo sugli obblighi di disclosure relativi alla struttura dei costi la più attenta giurisprudenza civile formatasi in materia di contratti derivati degli Enti locali è di contrario avviso e diversi provvedimenti hanno puntualizzato – uso ad esempio le parole della recente ordinanza del 13 aprile 2012 del Tribunale di Orvieto – che nel disvalore iniziale di mercato del contratto derivato deve individuarsi “un costo comunque sostenuto dall’Ente (quale soggetto in capo al quale il disvalore si attesta)”, costo che “avrebbe dovuto essere adeguatamente illustrato, indipendentemente da ciò che tale costo rappresenta”.
Nella corretta prospettiva della giurisprudenza civile, tali obblighi informativi affondano le radici nell’art. 21 TUF (e ciò, al contrario delle tesi del CTU, indipendentemente dalle modifiche ad esso apportate post MIFID, considerato che anche il vecchio testo era sufficientemente preciso in merito agli obblighi di trasparenza) ed è evidente come una puntuale disclosure dei costi, oltre ad essere un obbligo connaturato all’attività di intermediazione finanziaria, agevoli la confrontabilità delle offerte e, in definitiva, la corretta concorrenza fra operatori.
La sentenza del Consiglio di Stato riprende tuttavia le statuizioni della sentenza n. 47421/2011 della Cassazione penale.
Anche in questo caso si tratta di valutazioni del consulente che pare “brandire” la sentenza della Cassazione penale a sostegno delle sue tesi, duramente criticate dai consulenti dell’Ente locale.
E’ bene ricordare, tuttavia, che la sentenza della Cassazione evocata dal CTU riguarda una vicenda prettamente penalistica (ricorrenza o meno di presupposti per la concessione di un sequestro preventivo) e c’è da dubitare sul fatto che simile pronuncia possa porre principi d’ordine generale in materia.
Ciò anche per il fatto che la Cassazione si avventura in interpretazioni di concetti finanziari del tutto discutibili, oggetto di severa critica anche su questa “Rivista” da parte di docenti di Economia, non solo di giuristi.
Basti considerare che nella sentenza in questione si precisa che per poter stabilire se il mark to market di un contratto derivato “rappresenti o meno un vantaggio o un danno per l’Ente contraente, occorre procedere ad una disamina a posteriori, allorché, cioè, il contratto abbia raggiunto la sua normale scadenza”, affermazione che si pone in contrasto con l’art. 41 della L. n. 448/2001 e con la normativa regolamentare successiva, la quale sottende il concetto per cui, ai fini della corretta valutazione della convenienza dell’operatività in derivati, si deve valutare (ex ante, ovviamente) il costo di quella operatività. Concetto acquisito da tutta la giurisprudenza contabile e civile e che peraltro risulta sotteso nella precedente sentenza dello stesso Consiglio di Stato relativamente al caso di specie, laddove il Giudice amministrativo parla dei costi impliciti come potenzialmente in grado di vulnerare la convenienza economica.
A maggior ragione stupisce che un esperto della materia finanziaria (e, per osmosi, il Consiglio di Stato) giunga a fare proprie simili considerazioni, atteggiamento che al sottoscritto è parso sottendere una discutibile replica alle critiche ricevute dai CTP dell’Ente locale, replica che potremmo così sintetizzare: se anche il modello concepito nella consulenza non fosse valido, tanto c’è la Cassazione che afferma che il mark to market è un concetto “virtuale” e che i derivati vanno valutati a scadenza…
E’ stato detto che questa sentenza del Consiglio di Stato è destinata a fare scuola. Qual è la sua opinione ?
La sentenza del Consiglio di Stato si pone in netta controtendenza rispetto agli orientamenti della giurisprudenza contabile e di quella civile, che al sottoscritto paiono ben più meditati, anche in riferimento alla corretta contestualizzazione giuridica delle emergenze peritali (cito ad esempio la recente sentenza del Tribunale di Pescara del 24 ottobre 2012 che, sulla base di argomentazioni giuridiche poggianti sui medesimi concetti che ho cercato di riassumere, ha radicalmente disatteso le opinioni del consulente tecnico d’ufficio).
Dissento pertanto da quanti sostengono che possa trattarsi di un precedente a cui altri giudici si adatteranno in maniera acritica.