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Attualità

Pandora Papers: la storia si ripete

1 Dicembre 2021

Enrico Di Fiorino, Partner, Fornari e Associati

Lorena Morrone, Partner, Fornari e Associati

Di cosa si parla in questo articolo

Di recente, quella che è stata definita “la più grande indagine nella storia del giornalismo” ha portato alla luce i nomi di centinaia di contribuenti, di oltre novanta Paesi, che negli ultimi venticinque anni avrebbero beneficiato di regimi fiscali esteri. Si tratta dell’inchiesta definita Pandora Papers, proprio perché avrebbe scoperchiato il vaso di tutti i mali dell’evasione e dell’elusione fiscale dal 1996 ad oggi, per molto tempo rimasti nascosti e ormai non più celabili.

Oltre seicento giornalisti dell’International consortium of investigative journalism (ICIJ) hanno collazionato e analizzato per due anni 11,9 milioni di dati su beni registrati offshore, da parte di decine di leader mondiali – circa 35, secondo i dati al momento disponibili – e centinaia di personaggi pubblici, tra cui politici, funzionari statali e facoltosi imprenditori. Stando alle informazioni circolanti in rete, i dati (documenti, immagini, email e fogli di calcolo) proverrebbero da quattordici aziende di servizi finanziari basate in vari paradisi fiscali.

Dopo i Panama Papers del 2016 e i Paradise Papers del 2017, anche i Pandora Papers portano con sé numerosi interrogativi sulla provenienza di questi dati e, dunque, sulla loro utilizzabilità nell’ambito di un eventuale procedimento penale.

In particolare – come si è già avuto modo di commentare poco prima dell’estate con riferimento alla divulgazione della cd. Lista Dubai (si veda E. Di Fiorino, L. Morrone, Lista Dubai: quali novità?, Attualità, DB, 14 Luglio 2021) – il nostro ordinamento penale prevede che “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non poss[a]no essere utilizzate” (art. 191 c.p.p.). Ad esempio, nel corso delle attività di perquisizione e sequestro, l’art. 352, comma 1-bis, c.p.p. richiede modalità di apprensione del materiale informatico che possano garantirne la genuinità e l’immodificabilità. Se l’attività di acquisizione avviene in territorio estero nell’ambito di indagini condotte dall’attiva straniera, però, trova applicazione la lex loci, la cui corretta applicazione deve essere valutata dal giudice straniero, così come la risoluzione di ogni eventuale questione relativa alle irregolarità riscontrate. In assenza di queste, vige la presunzione di legittimità dell’attività svolta all’estero e, dunque, l’utilizzabilità degli atti non ripetibili ivi formatisi (cfr. Corte d’Appello di Milano, sez. II pen., n. 286/2019; Cass. pen., sez. II, n. 24776/2010; Cass. pen., sez. IV, n. 18660/2004).

All’epoca del caso della cd. Lista Falciani, alcune pronunce di merito riscontrarono, invece, la violazione dell’art. 240, comma 2, c.p.p. relativo ai “documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni” (perché oggetto di attività di accesso abusivo ad un sistema informatico ex art. 615-ter c.p. e trattamento illecito di dati personali ex d. lgs. n. 196/2003, cfr. Tribunale di Pinerolo, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, 4 ottobre 2011).

Per quanto ad oggi è dato sapere, nel caso in esame – cosi come in quello della Lista Dubai affrontato pochi mesi fa – l’origine dei dati sarebbe ancora anonima.

Volendo, dunque, abbracciare quell’orientamento dottrinale e giurisprudenziale che ritiene l’art. 240, comma 1, c.p.p. espressione di un principio assoluto (non applicabile, dunque, unicamente ai documenti aventi contenuto dichiarativo), si potrebbe, quindi, invocare l’inutilizzabilità della prova di cui non sia rintracciabile la sostanziale paternità (Corte d’Appello di Milano, 1° novembre 2004; Cass. pen., sez. I, n. 461/2001). In questo caso, tuttavia, andrebbe comunque tenuto in considerazione il principio espresso dalla Corte di Cassazione, secondo cui “il documento anonimo non soltanto non costituisce elemento di prova, ma neppure integra notitia criminis, e pertanto del suo contenuto non può essere fatta alcuna utilizzazione in sede processuale. L’unico effetto degli elementi contenuti nella denuncia anonima, infatti, può essere quello di stimolare l’attività di iniziativa del pubblico ministero e della polizia giudiziaria al fine di assumere dati conoscitivi, diretti a verificare se dall’anonimo possono ricavarsi gli estremi utili per l’individuazione di una notitia criminis” (ex multis Cass. pen., sez. IV, n. 39028/2016).

Le informazioni recentemente divulgate, dunque, potrebbero aver stimolato l’attività investigativa della Procura, che potrebbe ottenerli in maniera ufficiale superando eventuali profili di inutilizzabilità di cui si è detto. Prima ancora di trovarsi di fronte alla necessità di valutare attentamente il tema dell’utilizzabilità sopra brevemente riassunto – per evitare che un documento di potenziale provenienza illecita e di dubbia attendibilità venga utilizzato nell’ambito di un procedimento penale – è fondamentale immaginare come le informazioni trapelate possano essere sfruttate a vantaggio del contribuente.

Better safe than sorry

Come noto, a partire dalla legge n. 186/2014, il nostro Paese ha conosciuto dei meccanismi volti alla regolarizzazione della posizione del contribuente, il quale si è potuto avvalere della procedura di collaborazione volontaria (meglio nota come voluntary disclosure), consistente nella spontanea denuncia all’Amministrazione finanziaria della violazione degli obblighi di monitoraggio (per coloro che detenevano illecitamente patrimoni all’estero) o ogni altra violazione di obblighi dichiarativi.

Con il d. lgs. n. 158/2015, invece, si è previsto all’art. 13 d. lgs. n. 74/2000 che l’estinzione del debito tributario (a titolo di imposte, sanzioni e interessi), costituisca causa di non punibilità per i reati omissivi ex art. 10-bis, 10-ter, 10-quater, comma 1, nonché per quelli dichiarativi ex artt. 4 e 5 dello stesso decreto. La legge n. 157/2019, poi, ha esteso l’applicabilità dell’istituto anche ai reati dichiarativi fraudolenti ex artt. 2 e 3 d. lgs. n. 74/2000.

Tuttavia, se, con riferimento ai reati omissivi, il termine entro cui provvedere al pagamento del debito è di facile individuazione (id estprima della dichiarazione di apertura dibattimentale di primo grado”), per i reati dichiarativi viene in gioco la “formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali”, che impedirebbe all’autore del reato di provvedere al “ravvedimento operoso” ovvero alla “presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo di imposta successivo”.

Ci si chiede, dunque, quando l’autore del reato deve intendersi formalmente a conoscenza di tali attività. Nella pratica, la contezza dell’avvio di un’attività ispettiva – sia essa una verifica o un controllo – si deve ritenere che sia ricavabile da un accesso fiscale, ovvero dalla notifica di un invito a presentarsi presso gli uffici dell’Amministrazione finanziaria per l’avvio di un controllo o di una verifica, o, ancora, dalla notifica di un questionario di richiesta dati e notizie relativo ad un accertamento.

Volgendo lo sguardo al procedimento penale, la formale conoscenza potrebbe riscontrarsi in tutte quelle situazioni, contemplate dal codice di procedura, in cui al contribuente viene formalmente notificato un atto del procedimento a suo carico (come, a titolo esemplificativo, l’avviso di garanzia, l’avviso di conclusione delle indagini, la richiesta di proroga delle indagini, il decreto di perquisizione e sequestro, l’ordinanza di applicazione di misure cautelari e così via). Sulla base di quanto detto, dunque, la conoscenza “informale” – dovuta, ad esempio, a notizie di stampa pubblicate proprio qualche giorno prima del pagamento da parte dell’autore del reato – non dovrebbe essere sufficiente per escludere l’applicazione dell’istituto premiale.

Nonostante la ratio della norma – che intenderebbe premiare la volontaria e spontanea resipiscenza del contribuente – ma in aderenza al dato letterale, la conoscenza deve ritenersi, inoltre, riferita al singolo indagato/imputato, non rilevando, quindi, che la notizia sia giunta formalmente ad altri – siano essi obbligati in solido o concorrenti nel reato – che abbiano poi informato i compartecipi del fatto delittuoso. Se si escludessero dal raggio d’azione dell’istituto anche i casi in cui il contribuente sia in qualche modo sollecitato dall’esterno e abbia, dunque, il sentore di un accertamento in corso, la causa di non punibilità vedrebbe una scarsa applicazione.

Una buona notizia per tutti i concorrenti nel reato è che una volta che il suo autore abbia adempiuto all’obbligazione di pagamento, il reato si estinguerà anche nei loro confronti, in conformità all’art. 119, comma 2, c.p.; inoltre, sia l’autore che i suoi concorrenti beneficeranno del pagamento effettuato da un terzo (come, ad esempio, la persona giuridica nell’interesse della quale è stato commesso il reato).

Quest’ultima, invece, non può trarre beneficio del pagamento integrale del debito erariale da parte dell’autore del fatto illecito ex art. 8 d. lgs. 231/2001: si può dedurre facilmente, quindi, il paradosso per cui la persona fisica che ha commesso il reato, potrà godere della causa di non punibilità, onorando il debito tributario grazie alle risorse dell’ente, mentre quest’ultimo rimarrà assoggettato alla pretesa punitiva dello Stato, che ne sarà venuto a conoscenza proprio tramite il ravvedimento dell’autore del reato. Un’assoluta anomalia, cui il legislatore dovrebbe porre rimedio, salvo voler mantenere un sistema non coerente, con sé stesso e con la dichiarata volontà di favorire il recupero del gettito sottratto.

Tornando alle modalità di adempimento, il terzo comma dell’art. 13 ammette anche la rateizzazione del pagamento del debito e che, nel caso in cui i versamenti non siano stati completati prima dell’apertura dibattimentale, il giudice possa concedere ulteriori tre mesi per adempiere, prorogabili della medesima durata per una sola volta. In aggiunta, sembra utile evidenziare come l’attuale disciplina penale-tributaria preveda anche la possibilità di ottenere una riduzione delle pene sino alla metà (ex art. 13-bis, comma 1), a fronte dell’integrale pagamento del dovuto (imposte, interessi e sanzioni) e a prescindere da qualsivoglia valutazione circa la resipiscenza o meno dell’autore del reato.

Infine, il contribuente-imputato per aver commesso uno qualsiasi dei reati previsti dal decreto potrà essere ammesso al rito alternativo del patteggiamento ex art. 13-bis, comma 2, purché abbia ripagato integralmente il debito, ovvero sia intervenuto il ravvedimento operoso, prima dell’apertura del dibattimento. In chiusura, tuttavia, la norma fa “salve le ipotesi di cui all’articolo 13, commi 1 e 2”: dal 2015, quindi, si è posto un tema di conciliabilità tra rito speciale e causa di non punibilità, entrambi conseguenti proprio al soddisfacimento integrale della pretesa erariale (per cui si rimanda nuovamente a E. Di Fiorino, L. Morrone, Lista Dubai: quali novità?, Attualità, 14 DB, Luglio 2021).

Le conseguenze penali per il contribuente, derivanti dalla divulgazione dei propri dati sensibili da parte dell’ICIJ, sembrano, quindi, potenzialmente gestibili grazie agli istituti previsti dal nostro ordinamento.

Più difficile, invece, ottenere ristoro per le gravi conseguenze reputazionali e in materia di privacy, subìte da ciascun soggetto coinvolto.

Con riferimento al primo aspetto, in particolare, dovrà valutarsi attentamente la possibilità di dare impulso, lato civile o penale, ad un’azione per le dichiarazioni diffamatorie divulgate.

Sul punto, come noto, la giurisprudenza è costante nel ritenere che “la divulgazione a mezzo stampa di notizie lesive dell’onore è scriminata dall’esercizio del diritto di cronaca a condizione che sussistano i seguenti requisiti: 1. l’utilità sociale dell’informazione, ossia la c.d. pertinenza; 2. la verità oggettiva dei fatti narrati, intesa come sostanziale corrispondenza (adaequatio) tra i fatti accaduti (res gestae) ed i fatti narrati (historia rerum gestarum). Da ciò consegue che il giornalista deve controllare l’attendibilità della fonte informativa e di accertare la verità del fatto pubblicato; la verità oggettiva (o putativa) non sussiste invece quando, pur essendo veri i singoli fatti riferiti, siano dolosamente o colposamente taciuti altri fatti strettamente ricollegabili ai primi, oppure quando i fatti riferiti siano accompagnati da sollecitazioni emotive, sottintesi, accostamenti, insinuazioni, allusioni idonei a creare nella mente del lettore false rappresentazioni della realtà; 3. la forma dell’esposizione (c.d. continenza formale) che deve essere moderata, misurata, con modalità espressive che non trascendono in attacchi personali diretti a colpire l’altrui dignità morale e professionale” (da ultimo Tribunale di Bari, n. 3477/2021; Tribunale di Bari, sez. I, n. 3027/2021; Cass. civ., sez. III, n. 16740/2021).

Inoltre, nel diffondere i dati raccolti, l’ICIJ ha protetto l’identità di coloro i quali li avrebbero messi a loro disposizione, nascondendo ogni dettaglio in merito a come, quando e chi abbia avuto accesso alle informazioni sensibili e le abbia selezionate. Con riferimento all’Italia e, più in generale, ai Paesi europei, il Regolamento UE 2016/679 (cd. GDPR) prevede all’art. 6 lett. e) che il trattamento dei dati sia lecito nel momento in cui sia “necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”.

Ci si chiede, tuttavia, se fosse veramente nell’interesse pubblico riferire, ad esempio, che nel 1998 un personaggio pubblico – come una modella o un calciatore – avesse degli interessi in una società offshore con sede a Panama. Probabilmente no. È auspicabile, dunque, che, oltre ai rimedi in materia penale, vi sia una maggior attenzione anche alle conseguenze della divulgazione di tali informazioni sulla sfera privata dei soggetti coinvolti: come vuole la leggenda, infatti, insieme ai mali del mondo, il vaso di Pandora conteneva sul fondo anche la speranza.

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