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Editoriali

Perché serve affrontare subito i nuovi NPL’s

27 Luglio 2020

Mario Comana

Professore Ordinario di Economia degli intermediari finanziari, Università LUISS Guido Carli di Roma

Di cosa si parla in questo articolo
NPL

È inevitabile che dopo la crisi pandemica dovremo affrontare un nuovo flusso di insolvenze bancarie. Le banche italiane avevano da poco, e con grande fatica, recuperato una buona qualità del credito, con un livello di deteriorati pari al 3%. Non bisogna aspettare che le scorie della nuova crisi si stratifichino progressivamente fino a raggiungere ancora percentuali altissime come in passato. Occorre invece porre in essere da subito strategie e tecniche per il pronto smaltimento dei nuovi NPL’s, anche aprendo a nuove forme di supporto e agevolazione di natura pubblica, magari a un bad bank di sistema.

Ogni crisi economica, quale che ne sia la causa, si lascia alle spalle un’eredità di prestiti bancari insoluti: sono l’evidenza di tutti quei soggetti, imprese, privati, talvolta anche enti pubblici, che non hanno retto alla severità delle condizioni economiche avverse e non sono stati in grado di ripagare i debiti. Dopo la crisi del 2008, i prestiti deteriorati delle banche italiane sono cresciuti al tasso del 22% annuo fino al 2105, quando il valore lordo delle esposizioni ha toccato il picco di 340 miliardi di euro. Poi è stata intrapresa la difficile (e costosa) discesa che ha ridotto tale importo a soli 135 miliardi nel 2019.

È ancora prematuro avanzare delle stime sull’entità dei crediti non performing che si genereranno a seguito della crisi del Covid 19, soprattutto perché non sappiamo quale sarà il punto di svolta dell’andamento economico. Certo, il crollo del Pil del 2020, attualmente stimato oltre l’11% non lascia presagire nulla di buono. Le stime attualmente disponibili parlano di un ordine di grandezza fra i 60 e i 100 miliardi di nuove sofferenze e Utp. Intanto le maggiori banche italiane hanno già stanziato quasi 3 miliardi di nuovi fondi a fronte delle future insolvenze attese. Ma questo evento di crisi, oltre all’intensità del calo dell’attività produttiva, presenta altre caratteristiche peculiari. L’avvento della recessione è stato repentino e molto intenso e questo ha indotto i governi di molti Paesi, fra cui il nostro, a prendere misure di sostegno finanziario a favore delle imprese e, in misura più contenuta, dei privati per garantire la continuità dell’attività economica. Sono stati disposti interventi di moratoria, per congelare la disponibilità finanziaria esistente, e sono state previste forme di garanzia pubblica dei nuovi prestiti per consentire l’accesso al credito anche in queste condizioni di difficoltà. Però le misure hanno escluso proprio le imprese già in difficoltà all’arrivo della pandemia e che quindi saranno ancor più in crisi nei prossimi mesi. Questo è un primo filone di nuove insolvenze, ma bisognerà poi considerare anche l’andamento di quei prestiti che sono stati concessi in virtù delle garanzie pubbliche anche se il merito creditizio dei richiedenti era, se non compromesso, almeno scarso. Le imprese che si trovavano in queste condizioni saranno presto in condizione di non poter rimborsare i prestiti, andando comunque a generare un bad loan, i cui effetti a conto economico saranno mitigati dalla presenza della garanzia statale, che oscilla dal 70 fino al 100% dell’importo nominale. Dovranno le banche concedenti occuparsi del recupero del credito o questo compito sarà affidato al garante? Tecnicamente si tratta di garanzie a prima richiesta, quindi escutibili non appena si manifesta il default, ma rimane ancora piuttosto oscuro come avverrà la gestione di questi che saranno a tutti gli effetti dei non performing loans.

Un’altra variabile di cui conosceremo l’effetto nei prossimi mesi è la conclusione delle moratorie. Esse agiscono come un anestetico che non fa percepire il segnale della sofferenza e generano una sottostima del deterioramento della qualità dei portafogli creditizi. L’emersione di molte insolvenze è differita al termine del periodo di sospensione dei pagamenti e solo in quel momento conosceremo l’entità di un ulteriore filone di non performing exposure.

L’importanza di non lascia accumulare i crediti deteriorati deriva da più ragioni. In primo luogo bisogna evitare che l’appesantimento dei bilanci, con l’eccessivo assorbimento di RWA da parte del bad loans comprometta la capacità di erogazione di credito alle imprese, cosa che aggraverebbe la crisi economica. Una seconda motivazione è che gli NPL’s freschi valgono di più di quelli “stagionati”: cedere a un servicer i crediti inesigibili poco tempo dopo il verificarsi dell’insolvenza consente di spuntare prezzi più alti perché le possibilità di recupero sono più alte e probabilmente i tempi più brevi, circostanze che accrescono il valore attuale del flusso di cassa atteso. Infine, bisogna accelerare la dismissione di questi crediti perché, data la diversa origine della crisi, dobbiamo aspettarci che anche la composizione dei portafogli da cedere sarà diversa, probabilmente con una maggiore incidenza di chirografari e una minore incidenza degli ipotecari. Questo incide, di nuovo, sui tempi e le percentuali di recupero e suggerisce appunto maggiore tempestività nell’aggredire il problema.

Come si ricorderà, l’Italia è stata fra i pochi Paesi che non hanno istituito una bad bank pubblica dopo la crisi del 2008 e dopo la crisi del debito pubblico e questa è stata una delle concause dell’accumulo di crediti deteriorati nei bilanci delle nostre banche. Lo strumento da noi adottato fu la garanzia pubblica delle cartolarizzazioni dei crediti, noto come Gags, a cui hanno fatto ricorso poche banche e per ammontari limitati. Complessivamente, il loro beneficio alla soluzione del problema dei non performing loans è stato modesto.

Come affrontare oggi il problema del rapido smaltimento delle sofferenze e degli UTP che si accumulano? La cessione a prezzi di mercato, per quanto tempestiva, sarebbe estremamente dannosa per i bilanci bancari come lo è stato liberarsi dello stock stratificatosi negli anni precedenti, generando solo il beneficio di vendere crediti più “freschi”. Bisogna dunque costruire un percorso agevolato, in virtù dalla condizione di emergenza sanitaria, che consenta di disancorarsi dal rigido meccanismo di cui sopra.

Uno spunto l’ha offerto nel 2018 Enrico Enria, allora presidente dell’EBA e oggi a capo della vigilanza della BCE. Nel tentativo di attenuare l’impatto sui conti economici delle banche, e di riflesso sulla loro posizione patrimoniale e sulla capacità di erogare credito, si procederebbe alla cessione dei crediti a un “economic value” determinato tenendo conto del valore atteso scontato al tempo presente e consentendo alle banche di colmare l’eventuale differenziale rispetto all’effettivo incasso in un lasso di tempo abbastanza ampio, per esempio 3 o 5 anni. Peraltro, se gli accantonamenti fossero corretti, il differenziale dovrebbe essere nullo.

Dov’è la differenza con la cessione immediata e definitiva a un operatore di mercato? Assumendo lo stesso tempo e percentuale di recupero, cioè la stessa efficacia nel work out, ciò che cambia è l’IRR desiderato dell’investimento, che nel caso degli operatori di mercato è molto elevato, sia per la propensione al rischio sia per il cost of funding. Nel caso delle banche l’IRR ricercato è molto basso e dunque, dati i tempi di recupero piuttosto lunghi, l’impatto sul prezzo finale risulta importante. Prendiamo un credito di 100 di nominale, con una previsione di recupero del 50% a 4 anni. Se il flusso si sconta al tasso di rendimento ricercato da un operatore di private equity, diciamo il 25%, il prezzo di mercato sarà di 17,5 euro. Se a parità di condizione consideriamo il tasso dell’11%, cioè qualcosa nell’intorno del cost of equity corrente delle banche italiane, il prezzo sale a 33 euro. Per converso, nel primo caso la banca dovrà accantonare 82,5 euro mentre nel secondo basterà il 66%, non lontano dal livello medio di coverage delle sofferenze delle banche italiane.

Per realizzare questa condizione si possono seguire due strade: la bad bank pubblica, che anche in virtù del basso costo della provvista potrebbe comperare al valore indicato, oppure la costituzione di uno o più veicoli interbancari che pure interverrebbero a queste condizioni e a loro volta riceverebbero la garanzia pubblica sulla loro provvista. In alternativa, si potrebbe prevedere che siano le stesse banche cedenti coprire eventuali shortage di questo tipo in capo al compratore. In questo caso però la derecognition dai bilanci bancari non sarebbe completa e quindi si renderebbe necessaria una deroga ai vigenti criteri contabili, nei termini per esempio di quella proposta da Enria che consentirebbe appunto di coprire la differenza in un dato periodo di tempo. La garanzia pubblica su questo impegno sarebbe il sigillo finale.

Se invece si volesse usare la leva fiscale, si potrebbe immaginare un meccanismo premiale in termini di credito d’imposta commisurato alla differenza fra l’economic value e il prezzo di mercato. Per esempio, se il primo fosse 40 euro e il secondo 25, si potrebbe prevedere che se l’acquirente paga 40, ogni euro di incasso in meno divenga credito d’imposta immediatamente valorizzabile.

Credo siano evidenti due cose: l’urgenza di affrontare il problema per scongiurare un nuovo accumulo di sofferenze nei bilanci delle banche italiane; la presenza di diverse vie possibili per precostituire un percorso agevolato, così da preservare la capacità di erogazione del credito da parte degli intermediari. È questo superiore interesse comune a giustificare l’adozione di provvedimenti straordinari, eventualmente anche con il concorso delle finanze pubbliche.

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