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Attualità

Percorso a ostacoli per la cessione del credito da conversione delle DTA nell’ambito di procedure concorsuali

7 Aprile 2020

Daniel Canola, Ludovici Piccone & Partners

Di cosa si parla in questo articolo
DTA

1. Premessa

Con la Risposta a interpello n. 18/E del 30 gennaio 2020 (l’“Interpello”) l’Agenzia delle Entrate ha fornito alcuni chiarimenti in relazione alle possibili modalità di liquidazione del credito d’imposta derivante dalla trasformazione delle attività per imposte anticipate (c.d. “deferred tax assets” o, in breve, “DTA”) da parte di una società per la quale era stato dichiarato il fallimento ai sensi dell’art. 16 del r.d. 267/ 1942 (legge fallimentare o, in breve, “L.F.”).

Nel caso sottoposto al vaglio dell’Amministrazione finanziaria, la società istante disponeva di un credito da conversione delle DTA, già parzialmente utilizzato in compensazione con debiti erariali ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. 241/1997. La questione controversa riguardava la possibilità di cedere a terzi il credito che residuava dalla compensazione – mediante la procedura competitiva di liquidazione dell’attivo fallimentare di cui all’art. 107 della L.F. – posto che, secondo le indicazioni precedentemente fornite dall’Amministrazione finanziaria[1], la modalità fisiologica sarebbe stata rappresentata dalla richiesta di rimborso, con inevitabile allungamento dei tempi della procedura.

L’Agenzia delle Entrate, pur confermando la tesi interpretativa avanzata dall’istante, ha evidenziato come la possibilità di addivenire a una cessione del credito a terzi sia comunque sottoposta a certe condizioni, alcune delle quali sembrano porre ostacoli non trascurabili alla concreta fattibilità dell’operazione.

2. Il credito da conversione delle DTA e le sue modalità di fruizione (cenni)

Il credito d’imposta in questione, disciplinato dall’art. 2, commi 55-58, del d.l. 225/2010 (come successivamente modificato ed integrato), è stato introdotto con la finalità di attenuare lo svantaggio competitivo delle società italiane rispetto ai competitor europei e internazionali a causa del disallineamento temporale tra l’iscrizione in bilancio di determinati componenti di reddito e il periodo in cui questi sono ammessi in deduzione ai fini IRES e IRAP[2]. Ciò si traduce nella formazione nei bilanci delle società italiane di rilevanti DTA, potenzialmente idonee a generare futuri risparmi d’imposta, con una penalizzazione non solo in termini di liquidità per la generalità delle imprese ma anche (e soprattutto) in termini di dotazione patrimoniale ai fini regolamentari per le banche italiane e altri intermediari vigilati[3].

Al fine di ovviare a tali problematiche è stata quindi introdotta la possibilità di convertire le DTA in credito d’imposta, così da trasformare immediatamente in liquidità poste dell’attivo che avrebbero altrimenti potuto avere manifestazione numeraria solo in futuro. Tale conversione opera in modo automatico per le banche e gli altri intermediari vigilati dalla Banca d’Italia, con la finalità appunto di garantire una “qualità” patrimoniale sufficiente a evitare la deduzione delle stesse dal patrimonio di vigilanza[4], mentre è una mera facoltà per i soggetti diversi dalle banche.

Quanto alle modalità di utilizzo del credito oggetto dell’Interpello, l’art. 2, comma 57, del d.l. n. 225/2010 offre essenzialmente tre alternative:

  1. l’utilizzo in compensazione dei debiti tributari da parte della medesima impresa che ne ha conseguito il diritto, ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 241/1997;
  2. la cessione infragruppo secondo quanto previsto dall’articolo 43-ter del d.P.R. n. 602/1973[5], con la particolarità che tale cessione può avvenire esclusivamente al valore nominale[6];
  3. il recupero mediante attivazione di procedure di rimborso.

Il tenore letterale del citato art. 2, comma 57, prevede un iter procedurale alquanto rigido nella scelta dell’una o dell’altra delle forme di utilizzo offerte; se infatti la discrezionalità nella scelta tra l’utilizzo in compensazione e la cessione del credito infragruppo è piena, non lo è la possibilità di chiedere il credito a rimborso, che invece è ammessa solamente in via residuale dopo aver esaurito la possibilità di compensazione.

3. La posizione dell’Amministrazione finanziaria nella risoluzione in commento

Nella fattispecie oggetto di interpello, la rigidità della procedura sopra descritta comportava come unica alternativa disponibile la richiesta di rimborso, con inevitabile dilatazione dei tempi per concludere la liquidazione dell’attivo fallimentare.

L’Amministrazione finanziaria ha confermato in prima battuta che l’istante, pur avendo facoltà di scelta tra le alternative offerte per l’utilizzo del credito, è tenuto a seguire pedissequamente il descritto iter procedurale che emerge dall’art. 57 del d.l. 225/2010. In altri termini, non è quindi percorribile la cessione diretta del credito che residua dopo l’utilizzo in compensazione, poiché la scelta operata in prima istanza per la compensazione rende inevitabile l’attivazione della richiesta di rimborso una volta esaurite le possibilità di fruizione del credito nel modello F24.

L’Agenzia delle Entrate, tuttavia, nel solco delle soluzioni suggerite in passato dalla dottrina[7], ha precisato che il rimborso può nondimeno preludere alla cessione del credito in base alle disposizioni ordinarie che consentono la cessione (anche non infragruppo) dei crediti chiesti a rimborso in dichiarazione, con applicazione della relativa disciplina normativa (art. 43-bis del d.P.R. n. 602/1973) e prassi. Per analogia con quanto previsto nel caso di cessione dei crediti da conversione delle DTA infragruppo ai sensi dell’art. 43-ter del d.P.R. n. 602/1973, l’Amministrazione finanziaria ritiene comunque che, anche in tal caso, l’acquisto da parte del terzo potrà avvenire esclusivamente al valore nominale.

Infine, considerato che la richiesta di rimborso e la cessione del relativo diritto avvengono nel contesto di un fallimento, l’Agenzia delle Entrate ha precisato che occorre comunque tenere conto dell’art. 56, comma 1, della L.F., secondo cui i “i creditori hanno diritto di compensare coi loro debiti verso il fallito i crediti che essi vantano verso lo stesso, ancorché non scaduti prima della dichiarazione di fallimento”. L’Amministrazione finanziaria può quindi negare il rimborso al richiedente o al cessionario del relativo diritto qualora sussistano passività fiscali del fallito.

4. Commento

La risposta dell’Amministrazione finanziaria conferma opportunamente la possibilità, dibattuta in passato, di trasferire il diritto al rimborso del credito d’imposta da conversione delle DTA avvalendosi dell’ordinario istituto della cessione dei crediti d’imposta di cui all’art. 43-bis del d.P.R. n. 602/1973.

Ciononostante, la concreta realizzazione di tale alternativa rischia di essere oltremodo difficoltosa in ragione del vincolo di cessione al valore nominale che l’Amministrazione finanziaria estende per analogia con quanto previsto nel caso di cessione dei crediti infragruppo.

Quest’ultimo rilievo suggerisce le seguenti considerazioni:

  • il vincolo di cessione al valore nominale, come chiarito dall’Agenzia delle Entrate, trova “la propria ratio nelle […] esigenze di vigilanza prudenziale di assicurare la piena liquidabilità del credito, generato dalla trasformazione delle DTA, nei confronti del soggetto in capo al quale è sorto”[8]. Proprio l’esigenza di “assicurare la piena liquidabilità del credito” avrebbe forse suggerito una soluzione diversa rispetto a quella indicata nella risposta, poiché l’imposizione del menzionato limite alla libertà negoziale delle parti indubbiamente ostacola o, quanto meno, non facilita, l’acquisizione dei crediti d’imposta da parte dei terzi e, dunque, la “piena liquidità” degli stessi. È in effetti prevedibile che un terzo interessato ad acquisire il credito da una società fallita sarà disposto a corrispondere un prezzo scontato rispetto al valore nominale, sia per tenere conto del fattore tempo, sia per la rischiosità insita nell’operazione (la stessa Agenzia delle Entrate richiama la possibilità di opporre in compensazione alla richiesta di rimborso eventuali passività fiscali ai sensi dell’art. 56 della L.F.);
  • anche aderendo alla tesi ministeriale, l’applicazione generalizzata del limite del valore nominale appare esorbitante rispetto alle esigenze che ne hanno ispirato l’introduzione. Come è stato infatti osservato in dottrina[9], il limite del valore nominale ben si attaglia agli enti creditizi e finanziari nei cui confronti trovano applicazione i requisiti patrimoniali ai fini regolamentari (Basilea 3) e che proprio per tale motivo sono obbligati alla trasformazione delle DTA. Non altrettanto può dirsi con riferimento alla restante platea dei soggetti titolati alla conversione delle DTA poiché, se in questi casi la disciplina in esame persegue finalità esclusivamente agevolative, rappresentando una facoltà per i contribuenti, non si vede il motivo di impedire ai titolari dei crediti d’imposta di cederli anche a un valore inferiore a quello nominale.

In passato l’Amministrazione finanziaria aveva già interpretato con una certa elasticità la disciplina in commento con riferimento ai casi di società in amministrazione straordinaria o fallimento[10] con il condivisibile obiettivo di evitare che il rigoroso iter procedurale per la fruizione del credito portasse all’irragionevole risultato di tenere in piedi la procedura al solo fine di incassare il rimborso dall’erario. Proprio la particolarità delle ipotesi descritte rende quindi quanto mai opportuno un ripensamento dell’applicazione indiscriminata del vincolo di cessione al valore nominale, onde conciliare le esigenze di “piena liquidabilità” del credito con l’interesse dei creditori concorsuali alla liquidazione dell’attivo con tempistiche ragionevoli.

 


[1] Si veda la Circolare n. 37/E del 28 settembre 2012, §6.

[2] Si tratta, in particolare, delle svalutazioni e perdite su crediti non ancora dedotte dal reddito imponibile IRES (art. 106, comma 3, del d.P.R. n. 917/1986), delle rettifiche di valore nette per deterioramento dei crediti non ancora dedotte dalla base imponibile IRAP (artt. 6, comma 1, lett. c-bis ), e 7, comma 1, lett. b-bis), del d.lgs. 446/1997), nonché delle quote di ammortamento dell’avviamento e delle altre attività immateriali deducibili in più periodi d’imposta ai fini IRES e IRAP. Per le DTA relative ad avviamento e altre attività immateriali l’art. 17 del d.l. 83/2015 ha da ultimo previsto l’impossibilità di procedere ulteriormente alla conversione con riferimento alle DTA iscritte, per la prima volta, a partire dal bilancio relativo all’esercizio 2015.

[3] La relazione tecnica al d.l. n. 225/2010 evidenzia come l’elevata incidenza delle DTA nel bilancio delle banche italiane a seguito dell’introduzione della disciplina in materia di patrimonio di vigilanza prevista dal Comitato di Basilea (cd. Basilea 3) “si traduca anche in una penalizzazione sul piano della dotazione patrimoniale regolamentare” poiché le DTA, non essendo nella piena disponibilità della banca (ma vincolate alla realizzazione di imponibili futuri), oltre una determinata soglia devono essere dedotte dal patrimonio di vigilanza.

[4] Con particolare riguardo agli intermediari finanziari, la relazione tecnica precisa che “[p]er evitare questo ulteriore svantaggio competitivo, la norma proposta prevede un meccanismo di conversione automatica in crediti d’imposta (…) delle poste rappresentative delle DTA (…); in tal modo, le DTA sarebbero smobilizzabili e, pertanto, concorrerebbero all’assorbimento delle perdite al pari del capitale e delle altre riserve, divenendo per tale via pienamente riconoscibili ai fini di vigilanza”.

[5] Con particolare riguardo alle imprese soggette a liquidazione coatta amministrativa o fallimento, in considerazione della fisiologica assenza di debiti d’imposta da utilizzare in compensazione e dell’irragionevolezza di imporre la richiesta a rimborso del credito, l’Agenzia delle Entrate nella Circolare 37/E del 2012 ha adottato un’interpretazione apparentemente praeter legem, ammettendo che la cessione possa avvenire anche nei confronti di soggetti non espressamente indicati nell’art. 43-ter, sempreché sia rispettata la condizione della cessione al valore nominale.

[6] Tale limitazione, introdotta dal d.l. n. 201/2011, è giustificata dall’esigenza di assicurare una piena monetizzazione del credito, in particolare da parte degli enti creditizi e finanziari per i quali la conversione delle DTA è stata prevista per superare penalizzazioni sul piano del patrimonio di vigilanza.

[7] Si veda, Assonime circolare n. 33 del 5 novembre 2013, §6.

[8] Si veda la Circolare 37/E del 2012.

[9] Si veda, Assonime op. cit., §6.

[10] Si veda la nota 5.

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