Il presente contributo analizza la rilevanza dei piani di transizione climatica, previsti dal D.Lgs. n. 125/2024 che recepisce la nuova disciplina europea sulla rendicontazione di sostenibilità, il cui fine è l’integrazione della transizione e dei relativi rischi e opportunità nella strategia e nella pianificazione finanziaria e di investimenti delle società. Tale integrazione richiederà una nuova definizione dei modelli di governance delle imprese e apre a nuovi profili di conformità normativa e conseguente responsabilità degli amministratori, nonché di due diligence da parte del sistema bancario.
Con la recente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Legislativo 6 settembre 2024, n. 125 (il “Decreto Legislativo”) di recepimento della direttiva (UE) 2022/2464 sulla rendicontazione societaria di sostenibilità (la “CSRD”) viene introdotta nel nostro ordinamento la rendicontazione del piano di transizione climatica, che dovrebbe costituire il fulcro della governance della sostenibilità societaria. Novità significativa che, come vedremo, riveste una rilevanza che va oltre la mera rendicontazione, trattandosi di un vero e proprio piano di azione strategico e operativo sulla gestione e governance dei rischi climatici e delle opportunità connesse. Tale novità offre due principali prospettive di analisi: una prima legata alla congruità degli attuali modelli di governance per affrontare la transizione all’interno delle società ed una seconda che riguarda il regime di conformità normativa dei piani di transizione e la responsabilità dell’organo amministrativo.
Innanzitutto, la scelta del Decreto Legislativo di attribuire alla relazione sulla gestione degli amministratori la funzione di “contenitore” del piano di transizione, come per le altre informazioni afferenti alla sostenibilità della società, conferisce una nuova veste alla relazione che diventa così documento programmatico ed esecutivo di gestione delle opportunità, rischi ed impatti connessi ai fattori climatici, dettagliato e puntuale. Tale scelta, nel contesto delle informazioni di sostenibilità che le società tenute a redigere il piano devono fornire, è coerente con il ruolo del piano di transizione che, nelle intenzioni del legislatore europeo, è lo strumento strategico che interagisce con il modello di business e la sua resilienza, il piano finanziario nonché il piano di investimenti dell’impresa.
Inoltre, la CSRD, e conseguentemente il Decreto Legislativo, a differenza della Task Force on Climate-Related Financial Disclosure (TCFD) e dell’IFRS S2 dell’International Sustainability Standard Board, opera una scelta di governance netta, attribuendo all’organo amministrativo la definizione del piano di transizione.
Il nostro legislatore, infatti, in sede di recepimento della CSRD, ha previsto al primo comma dell’articolo 10 del Decreto Legislativo che “[l]a responsabilità di garantire che le informazioni richieste [tra cui il piano di transizione climatica] … siano fornite in conformità a quanto previsto dal presente decreto compete agli amministratori delle società tenute agli obblighi ivi previsti. Nell’adempimento dei loro obblighi costoro agiscono secondo criteri di professionalità e diligenza”.
Il “contenuto” minimo del piano deve conformarsi allo standard di rendicontazione sul cambiamento climatico (ESRS E1) di cui all’atto delegato della Commissione n. 2772/2023. Tale piano si deve, infatti, confrontare con i rischi fisici e di transizione che l’impresa deve affrontare, con diversi scenari climatici e con l’allineamento agli obiettivi di sostenibilità dell’Unione e del Green Deal europeo, tra cui l’obiettivo climatico di 1,5°C di riscaldamento globale nel 2050, previo calcolo dell’impronta carbonica Scope 1, 2 e 3 applicando le metodologie dell’intensità carbonica con riferimento ai singoli prodotti e della riduzione assoluta di emissioni della società, nonché prevedendo obiettivi temporali nel breve, medio e lungo termine basati sulla scienza, così come richiesto dallo standard di rendicontazione ESRS E1. La valutazione della resilienza del modello di business e della strategia richiedono un coordinamento con tre obblighi informativi di cui allo standard ESRS 2, che affronta in termini più generali gli elementi della strategia che riguardano le questioni di sostenibilità o che influiscono su di esse: il modello aziendale e la catena del valore (SBM-1); gli interessi ed opinioni dei portatori di interesse (SBM-2); e gli impatti, rischi e opportunità rilevanti e il modo in cui questi interagiscono con la sua strategia e il suo modello aziendale (SBM-3).
In ultima analisi, il piano dovrebbe consentire non solo agli amministratori ma anche ad azionisti, investitori, ceto creditorio e stakeholder nel loro complesso di valutare la capacità di allineamento della società agli obiettivi di transizione fissati dall’Unione e di reazione alle sfide connesse, nonché di vagliare il rischio che i beni aziendali possano essere oggetto di “lock-in” carbonico (ovvero esposti al rischio di continuare a contribuire al cambiamento climatico, pur in presenza di alternative ecosostenibili) e di “stranding” (ovvero di perdita di valore e di redditività dei beni aziendali) ed il rischio di impatti sulla resilienza della strategia e del modello di business.
Come si può notare, il piano affronta tematiche scientifiche, tecnologiche, climatiche, ambientali, contabili, legali, di policy e di competitive intelligence strettamente collegate tra di loro, che richiedono competenze specifiche e che dovrebbero guidare la strategia aziendale futura e le operazioni ordinarie e straordinarie della società. Attesa la rilevanza del piano per la resilienza della strategia e del modello di business, la decisione di attribuire la competenza di redigere il piano agli amministratori appare del tutto congrua e coerente con il sistema di governance delle società. Tale approccio è stato confermato dal nostro legislatore, in sede di recepimento, al poc’anzi citato primo comma dell’articolo 10 del Decreto Legislativo.
Gli standard di rendicontazione europei non offrono delle linee guida sulla redazione dei piani di transizione e sulla loro credibilità e nell’ordinamento dell’Unione manca una vera e propria soft law. Ciò nonostante, importanti spunti possono essere ricavati dalla Raccomandazione della Commissione Europea del 27 giugno 2023 sulla finanza di transizione, dalle linee guida dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) nonché dalla Transition Plan Taskforce, le cui linee guida è previsto siano utilizzate a livello internazionale nell’IFRS 2.
Alla luce di queste linee guida ed attesa la rilevanza della soft law nella CSRD nonchè la crescente attenzione alla soft law da parte della giurisprudenza, l’organo amministrativo, partendo da una disamina dei “drivers of change” che impattano a livello globale il settore di appartenenza della società, dovrebbe operare un’attenta analisi del processo produttivo adottato e del modello di business in un’ottica di compatibilità con la Legge Climatica ed il Green Deal Europeo (e quindi, ad es., con il Net Zero Industry Act, la Zero Pollution Policy, il Circular Economy Action Plan, l’Ecodesign Regulation, il Regolamento sulle Materie Prime Critiche per citare solo le principali fonti). Di seguito, andrebbe effettuata dalla società un’analisi dell’impatto dei singoli beni aziendali sull’ambiente, applicando la metodologia del Life-Cycle Assessment, ovvero del ciclo di vita dei prodotti anche con riferimento all’impatto sulla perdita di biodiversità ed ecosistemi, laddove rilevante. Infine, il piano dovrebbe, ai sensi dell’ESRS E1, offrire soluzioni di mitigazione climatica congrue, tenendo anche presente, alla luce delle best practice del singolo settore industriale, le diverse tecnologie esistenti e future e la loro adozione da parte dei concorrenti della società.
La società dovrebbe indicare, ad esempio, quali siano queste soluzioni ed il loro livello di maturità tecnologica e di allineamento con il Regolamento Tassonomia, il costo delle stesse relativamente alla loro capacità di ridurre le emissioni di CO2, nonché il costo connesso alla dismissione dei beni aziendali e gli impatti economici derivanti dall’ingresso in nuove catene del valore e dalla normativa sulle quote di emissioni, la prioritizzazione degli interventi sui singoli beni partendo da quelli con più alto “lock-in” carbonico, ovvero da quelli per i quali esiste un’alternativa a basso livello di emissioni carboniche, individuando inoltre eventuali impedimenti, anche di natura legale, derivante da impegni di approvvigionamento di lunga durata, ad es. nel contesto delle materie prime critiche.
Le soluzioni di mitigazione individuate, ai sensi del Decreto Legislativo e dell’ESRS E1, vanno poi coordinate con i piani finanziari e di investimento della società, andando ad indicare le possibili fonti per finanziare la transizione. Laddove, nell’ambito di un’analisi di materialità, la società ritenga che sia esposta anche a dipendenze e/o impatti legati alla perdita di biodiversità o degli ecosistemi, il piano dovrebbe integrare anche questi temi ai sensi dell’ESRS E4, sempre contenuto nell’atto delegato della Commissione n. 2772/2023.
Data la complessità dei temi, diventa in questo contesto centrale la definizione dei ruoli e della gestione del flusso informativo tra, da una parte, gli organi delegati, che presumibilmente assumeranno responsabilità diretta per la preparazione del piano di transizione climatica, e, dall’altra, i consiglieri privi di delega e i membri dell’eventuale comitato endoconsiliare di sostenibilità. Siamo in una situazione ben differente rispetto alla redazione della dichiarazione non finanziaria, che è soggetta a principi di rendicontazione non vincolanti e la cui redazione nella prassi è demandata a terzi e soggetta ad un controllo formale da parte dell’organo amministrativo. Nel caso del piano di transizione, l’organo deve affrontare delle scelte strategiche e valutare l’impatto di varie esternalità sulla strategia della società e sul modello di business: si tratta di dati ed informazioni che generalmente non solo sono di dominio degli amministratori delegati, bensì richiedono una visione complessiva dell’attività di impresa che non concerne i consiglieri senza deleghe e quelli indipendenti.
Il comitato endoconsiliare di sostenibilità può senz’altro favorire lo scambio di informazioni, fornire dei pareri non vincolanti e suggerire l’applicazione di metodologie o di piani di azione per la redazione del piano, ma, in ultima analisi, la responsabilità della redazione del piano dovrebbe ricadere in capo ai consiglieri delegati, atteso che solo tali consiglieri sono tenuti, congiuntamente al dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, ad attestare, ai sensi del nuovo art. 154-ter del TUF, che la rendicontazione di sostenibilità inclusa nella relazione sulla gestione sia stata redatta conformemente agli standard di rendicontazione applicati ai sensi della CSRD e del Decreto Legislativo. Al contempo, i comitati endoconsiliari e i consiglieri senza deleghe assumono un significativo ruolo di valutazione e controllo, cercando di vigilare sulla coerenza, logicità e credibilità del piano. Data la complessità dei temi affrontati è però essenziale che la società conferisca degli strumenti efficaci di controllo agli amministratori non esecutivi e ai componenti dei comitati endoconsiliari, prevedendo, ad es., la possibilità di accedere a tutte le informazioni richiamate nel piano o comunque desumibili dallo stesso e di instaurare un contradditorio con le funzioni aziendali. Al fine di guidare la propria attività di valutazione e controllo, gli amministratori senza deleghe ed i componenti del comitato endoconsiliare di sostenibilità dovrebbero far leva sulle best practice di redazione dei piani nel settore specifico in cui opera l’impresa.
La rilevanza del piano di transizione per il modello di business e per la strategia imporrebbe un ampliamento delle competenze del comitato di sostenibilità per includere anche materie di indirizzo strategico o alternativamente la costituzione di un unico comitato di strategia e sostenibilità, che adotti una policy interna che miri ad individuare gli indicatori qualitativi e quantitativi di credibilità del piano di transizione climatica a cui i consiglieri delegati devono attenersi.
La conformità normativa del piano di transizione è sottoposta a tre regimi paralleli, uno di diritto di societario, uno civilistico ed uno penale ed amministrativo.
Il primo trova innanzitutto la sua fonte negli articoli 2392 e 2428 c.c.. Una volta, infatti, individuati negli amministratori i soggetti responsabili del piano stesso, questi dovranno attenersi ai principi generali di professionalità e diligenza e a quelli specifici applicabili alla relazione sulla gestione, desumibili dall’art. 2428 c.c., che devono condurre ad un’analisi “fedele, equilibrata ed esauriente della situazione della società”. Come indicato dalla giurisprudenza di merito (trib. Milano, 23 dicembre 2022, n. 10200), laddove le informazioni contenute nella relazione sulla gestione (e quindi nel piano) siano connesse ai dati di bilancio e falsino o rendano non intelleggibili tali dati, la deliberazione di approvazione del bilancio è affetta da nullità, mentre se i vizi non sono collegati a dati di bilancio, ciò può solo causare l’annullabilità del bilancio o della relazione. È rilevante, a tal fine, la previsione dell’obbligo di rendicontazione E1-9 che riguarda gli effetti finanziari attesi dei rischi fisici e di transizione rilevanti. Pertanto, laddove la società abbia colposamente o dolosamente omesso o incorrettamente valutato tali rischi ed i loro effetti finanziari avrebbero dovuto essere inclusi tra i dati di bilancio, all’azionista è data la possibilità di agire in giudizio per fare dichiarare la nullità ovvero l’annullamento del bilancio o della relazione sulla gestione.
Sebbene ciò non si traduca in un obbligo positivo in capo agli amministratori di attuare il piano, previsto invece dalla direttiva (UE) 2024/1760 (Direttiva Due Diligence) come una obbligazione di mezzi, l’obbligo di predisporre con professionalità e diligenza un piano di transizione che sia fedele, equilibrato ed esauriente offre un primo canone di “credibilità” a cui il piano deve attenersi. Ciò a prescindere dalla necessità che lo stesso si conformi agli standard di rendicontazione generali adottati dalla Commissione con atto delegato n. 2772/2023. L’amministratore che non condivida gli obiettivi di mitigazione climatica è comunque tenuto a comportarsi con professionalità e diligenza e a cooperare con gli altri amministratori e con i soggetti preposti a coadiuvare l’organo nella preparazione del piano.
In tale contesto, assume rilievo anche il sesto comma dell’articolo 2381 c.c. che impone agli amministratori di agire in modo informato. Se è vero che il piano di transizione climatica costituisce una componente essenziale della strategia della società potenzialmente in grado di guidare scelte future e che le decisioni successive assunte dall’organo dovranno confrontarsi con lo stesso, allora questo non può che essere adottato a seguito di una conoscenza e valutazione da parte degli amministratori di tutti gli elementi fattuali e metodologici. Anche atteso che la relazione sulla gestione è atto congiunto non riferibile ai soli delegati, gli amministratori hanno un obbligo di attivarsi per richiedere ai consiglieri delegati ulteriori informazioni laddove queste non sia state fornite ovvero siano carenti, contraddittorie o inattendibili, non accogliendo in maniera passiva il deficit informativo.
Inoltre, posto che il piano deve affrontare la resilienza della strategia e del modello di business, è implicitamente richiesto agli amministratori di dotare innanzitutto la società di una strategia dettagliata e di un modello di business strutturato (ad es. con riferimento ai “Business Model Canvas”), obbligo non desumibile in altre fonti del nostro ordinamento. Una volta definita la strategia ed il modello di business, questi vanno testati con riferimento ai rischi, impatti, dipendenze e opportunità dell’impresa, non solo quelle di derivazione climatica. La definizione delle variabili ed i flussi informativi connessi dovrebbero poi considerare tutte le componenti dei rischi fisici e di transizione, incluso quelli derivanti dalla policy, dalla normativa e dal contenzioso ambientale e climatico.
Agli amministratori è quindi richiesto di valutare e adottare le necessarie modifiche agli assetti organizzativi, amministrativi e contabili ex articolo 2086 c.c., prevedendo l’inserimento delle nuove variabili previste non solo dai suddetti standard di rendicontazione generali, ma anche, alla luce dell’orientamento della dottrina sull’utilizzo di linee guida non vincolanti, dalle best practice sulla redazione dei piani di transizione adottati internazionalmente e considerando l’adeguatezza del modello di struttura organizzativa, dei piani industriali ed operativi adottati, e delle professionalità all’interno della società, nonché dei sistemi di controllo interno e di gestione dei rischi (SCIGR) e di Enterprise Risk Management. Gli assetti amministrativi ed organizzativi, così modificati, dovrebbero quindi essere testati utilizzando i criteri di credibilità dei piani sia qualitativi che quantitativi adottati a livello settoriale. Dal punto di vista contabile, gli assetti della società, alla luce dei principi contabili internazionali, dovrebbero consentire di valutare, ad es., l’impatto dei rischi climatici con riferimento al deprezzamento e ammortamento dei beni aziendali (IAS 16) e alla riduzione del valore contabile (IAS 36 e art. 2426 c.c.) nonché dovrebbero introdurre degli indicatori del percorso di transizione, ovvero dei Key Performance Indicator (KPI) per calcolare almeno il rischio di “lock-in” carbonico ed introdurre l’applicazione di una “Marginal Abatement Cost Curve” per valutare l’efficienza di costo di ciascuna misura di decarbonizzazione.
In un’ottica civilistica, le informazioni di sostenibilità contenute nella relazione sulla gestione (e quindi il piano di transizione) sono automaticamente richiamate nel prospetto informativo di titoli emessi dalla società o nel supplemento del prospetto relativo a tali titoli ai sensi del nuovo Regolamento Prospetto contenuto nel Listing Act europeo di cui si attende a breve l’adozione dal Consiglio dell’Unione. Pertanto, a seguito dell’entrata in vigore del nuovo Regolamento Prospetto, la mancata veridicità o completezza di tali informazioni determinerebbe la responsabilità civile dell’emittente, dell’offerente e degli altri soggetti di cui al comma 5 dell’articolo 94 del TUF.
Inoltre, le informazioni contenute nel piano di transizione, invece, non dovrebbero essere fonte di responsabilità civile laddove queste costituiscano delle informazioni ambientali generiche ai sensi della proposta di direttiva (UE) sulle asserzioni ambientali, atteso il dettato del considerano (11) di tale proposta nella formulazione approvata dal Parlamento Europeo il 12 marzo scorso.
Il terzo profilo concerne le sanzioni amministrative e penali derivanti dal mancato rispetto delle norme codicistiche, del Decreto Legislativo e degli standard di rendicontazione generali adottati dalla Commissione europea. Nella versione definitiva del Decreto Legislativo e nella relazione illustrativa dello schema del decreto si chiarisce che l’inclusione della rendicontazione di sostenibilità nella relazione finanziaria annuale ex articolo 154-ter del TUF determina l’attribuzione alla CONSOB del potere di applicare le sanzioni amministrative disciplinate dall’articolo 193 del TUF, sempre che il fatto non costituisca reato. Il testo definitivo del Decreto Legislativo e la relazione illustrativa non derogano al principio generale di inclusione della relazione sulla gestione nella definizione di comunicazioni sociali ex artt. 2621 e 2622 c.c e all’applicabilità di sanzioni amministrative pecuniarie previste dalle norme sul mancato deposito presso il Registro delle imprese ex art. 2630 c.c..
Anche alla luce delle disposizioni della direttiva 2024/1619 (CRD VI) sui rischi climatici, la suddetta conformità normativa apre un nuovo fronte, quello della gestione da parte del sistema bancario di una serie di rischi derivanti dal legittimo affidamento ai piani dei prenditori che siano poco credibili. Tale circostanza espone il ceto bancario sia al rischio di utilizzare dati non corretti per la preparazione dei propri piani di transizione prudenziali da parte di quest’ultimo che a quello di valutare il rischio di credito dei prenditori in maniera non accurata, atteso il maggiore rischio di “lock-in” carbonico e di “stranding”. Una prudente gestione di questi rischi dovrà tradursi in una attività di due diligence sulla credibilità dei piani di transizione climatica della clientela e nella predisposizione di rimedi contrattuali.